Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

01 aprile 2015

No Profugo,No Money. Ecco quanto costano gli Immigrati in Irpinia.
Irpinia News, 01-04-2015
Boris Ambrosone    
Ami condividere i post leghisti di Salvini ? Sei arrabbiato sui costi dei circa 680 immigrati di colore in Irpinia ? Scopri le vere cifre e chi ci guadagna veramente.
Sgomberiamo subito il campo da un’errata convinzione. Gli immigrati ospiti nei comuni irpini non incidono sulle nostre tasche nemmeno per un centesimo.
I soldi messi a disposizione dalla Comunità Europea per provvedere alla loro permanenza sul suolo irpino non potrebbero essere spesi altrimenti, perché in loro assenza non verrebbero affatto assegnati. Come dire: no profugo, no money.
La rete, che è lo strumento più populistico-demagocico dei tempi moderni è piena zeppa di bufale riguardanti presunte rette consegnate nelle mani dei profughi, di salari giornalieri da Mille e una notte, di privilegi e assistenzialismi irrispettosi del disagio delle comunità locali.
Vere e proprie menzogne certificate, utili solo a montare la polemica politico – sociale in salsa Salvini
La vera ed unica “ricchezza” sta nelle mani delle cooperative che sono state “incaricate” di gestire la quotidianità degli ospiti giunti dalle coste dell’Africa e da altri paesi coinvolti in conflitti civili e in condizioni di estrema povertà.
Al netto di trovate ed esternazioni, che il politicamente corretto impone di non definire razziste, ma che il buon senso suggerisce di indicare come quantomeno bizzarre, come il dispositivo del sindaco di Flumeri che ha imposto l’uso agli extracomunitari di giubbotti catarifrangenti per evitare investimenti notturni o come le dichiarazioni dell’assessore all’ambiente del comune di Atripalda, che ha invitato gli immigrati a ritornare nel loro paese di origine se la condizione vissuta in Irpinia non fosse stata di loro gradimento, occorre pur dire che la comunità autoctona irpina non ha mostrato particolare interesse alla presenza degli ospiti, ma non ha certamente manifestato disagio e intolleranza.
Meno solidali e accoglienti, invece, le istituzioni deputate alla gestione dell’emergenza.
Un’analisi delle cifre più dare meglio l’idea di quel che rappresenta l’affare profughi in Irpinia, ma non certo per loro.
Ad oggi gli ospiti nelle strutture ricettive della provincia di Avellino sono complessivamente 550.
La retta per ogni immigrato varia dai 29 ai 35 euro, secondo l’appalto aggiudicato alle cooperative che hanno partecipato. Soldi messi a disposizione dall’Europa, nell’ambito dei due programmi Marenostrum il primo licenziato e ora Frontex.
La comunità europea spende ogni giorno, al netto dei ribassi presentati in fase d’asta (anche questo appalto è stato aggiudicato con il criterio che solitamente da minori garanzie), per i 550 ospiti delle strutture irpine 16.500 euro, che in un anno sono più di 5 milioni di euro, mantenendo fermo il numero, anche se la Prefettura di Avellino ha comunicato che l’Irpinia può incrementare fino a 1.000 i posti di accoglienza in caso di necessità.
Ritornando alla retta giornaliera corrisposta dall’Europa, solo 2,50 euro al giorno arrivano, quando arrivano, nelle tasche degli immigrati.
Qui il primo scoglio, in quanto i ritardi nei pagamenti, in contanti, agli immigrati, sono la norma. Mensilmente un immigrato dovrebbe percepire 75 euro, circa 800 euro in un anno.
Soldi che nella maggior parte dei casi prendono la via di casa, considerando che la Nigeria, tanto per prendere in considerazione uno dei paesi di origine degli immigrati ospiti in Irpinia ha uno stipendio medio di 2.500 euro annui, ma oltre il 70% della popolazione sfiora i mille euro all’anno.
I rimanenti 27,50 euro giornalieri per ogni immigrato restano alle cooperative vincitrici dell’appalto di servizio, che devono provvedere, secondo rigidi regolamenti, almeno sulla carta, a procurare agli assistiti, vitto (il disciplinare prevede secondo le usanze alimentari dei paesi di origine e rispettose delle credenze religiose), alloggio, assistenza sanitaria, vestiario periodico, nonché corsi di formazione, principalmente alfabetizzazione alla lingua italiana.
Sorvoliamo sugli standard di servizio garantiti, per i quali le foto a corredo possono essere più esplicative di qualunque commento, va detto che il 75% degli immigrati in Irpinia, attualmente risiede in case sfitte che le cooperative hanno provveduto a fittare da privati.
La mappa provinciale della presenza degli immigrati è la seguente (con qualche approssimazione all’unità):
    120 tra Mercogliano e Monteforte, prevalentemente sistemati in abitazioni.
    35 a Monteforte Irpino (Casa privata).
    40 a Montefredane sistemati in un centro di ristoro e alloggio in disuso in area industriale.
    35 a Summonte (case private). 75 a Flumeri in agriturismo della zona.
    85 a Venticano tra hotel lungo la statale e agriuturismi e case private,
    40 a Pietrastornina,
    40 a Forino,
    30 a Contrada,
    30 a Manocalzati presso hotel periferico sulla variante.
Per nessuno degli immigrati irpini è previsto un sistema di trasporto, pertanto, si comprende bene, per chi per esempio alloggia a Manocalzati, o sulla Statale di Venticano quali siano le possibilità di raggiungere i luoghi in cui dovrebbero tenersi di corsi di formazione.
Le residenze sono per lo più vecchi alberghi in disuso, che non vedevano un cliente soggiornare nelle loro stanze dai tempi di Juary con la casacca bianco verde.
Le cooperative che attualmente hanno vinto gli appalti di gestione degli immigrati “irpini” sono la new Family del napoletano, la Hengel delle zone di Salerno, balzata ai disonori della cronaca nera per alcuni inquietanti episodi di intimidazione ai danni dei loro assistiti presso strutture della piana del Sele ed una cooperativa romana che gestisce 30 immigrati ad Ospedaletto.
Ai 550 immigrati irpini in attesa di regolarizzazione si aggiungono circa 130 rifugiati del progetto Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), la cui condizione risulta leggermente migliore, anche in virtù del loro status di rifugiati politici.
Sono tutti ospiti di strutture dell’Alta Irpinia,
    40 a Bisaccia,
    30 a Sant’Angelo dei lombardi,
    30 a Sant’Andrea di Conza
    30 a Conza della Campania.
Il programma Sprar è un programma temporalmente più lungo, che tra l’altro vede il coinvolgimento di strutture del territorio nella gestione. I controlli sono attuati direttamente dal Ministero ed il costo, sempre a carico dell’Europa, è di 80 euro circa al giorno per ogni rifugiato.
Le condizioni di estremo isolamento dei rifugiati e dei profughi, oltre alle documentate precarie situazioni igienico sanitarie, fino ad ora non hanno incrociato a sufficienza l’interesse delle istituzioni.
In tali condizioni l’integrazione con le comunità locali risulta particolarmente difficile e la situazione sociale resta sotto controllo solo grazie alle condizioni di costrizione degli immigrati, per i quali anche i soli 2,50 euro, seppur corrisposti in ritardo, rappresentano un’opportunità irrinunciabile per essere di sostegno a chi è rimasto nei paesi d’origine.
Nessuno può negare che la crisi, la mancanza di lavoro, l’assenza di misure concrete per lo sviluppo renda questa terra meno ospitale delle sue potenzialità, per gli stessi abitanti che la popolano, ma non sono certo mille profughi ad averla resa tale o peggiore di quanto non fosse prima del loro arrivo.



Migranti: in Europa +44% richiedenti asilo, Italia prima in Ue per incremento
Euronews, 01-04-2015
Salvatore Falco
"Non ho soldi, nemmeno questi vestiti sono miei. Sono un uomo"
La Sicilia, terra di accoglienza. L’isola ospita il 20% della popolazione risiedente nei centri d’accoglienza in Italia. Per lo più migranti provenienti dall’Africa e dal Medio Oriente. Un esercito di disperati senza soldi, senza documenti, senza un’altra scelta.
Salpano dalla Libia, spesso venduti dalla polizia locale ai trafficanti. Quando arrivano sulle coste italiane, vengono abbandonati o, peggio ancora, spinti in mare.
“Non sono mai stato bravo a nuotare. Era comunque rischioso, molto rischioso. Ad essere onesto, avevo paura – ricorda Lamin Beyai, 20 anni, proveniente dal Gambia – Ero molto spaventato. Non è facile essere in mare dove non ti puoi aggrappare a nulla, può succedere di tutto lì, solo Dio può salvarti”.
Molti migranti affrontano anni di fallimenti per raggiungere il cuore dell’Europa. Chi arriva in Sicilia è un sopravvissuto: “Io sono qui, ma piango lo stesso – dice Landing Sono, cittadino senegalese di 25 anni – Se ci penso mi viene da piangere: non ho soldi, nemmeno questi vestiti sono miei. Sono un uomo, per Dio. Devo trovare un lavoro”.
Nel 2014, 3500 persone sono morte nel Mediterraneo. Coloro che sopravvivono hanno lo stesso obiettivo: ottenere l’asilo. Una volta fatta la richiesta, l’attesa è di circa un anno.
I richiedenti asilo in Europa provengono principalmente dalla Siria – il 20% del totale – Seguono gli afghani, oltre 41mila domande, e i kosovari.
Su un totale di quasi 360mila casi, il 44% in più rispetto al 2013, i 28 Stati membri hanno concesso protezione a circa 162mila richiedenti asilo.
Il Paese che riceve il maggior numero di domande di asilo è la Germania: oltre 202mila nel 2014, il 32% del totale. Seguono la Svezia con 81mila richieste e l’Italia che registra un incremento del 143%.
I dati si differenziano se si guarda alle concessioni degli status di rifugiati: la Francia accetta 1 richiedente su 5, la Germania meno della metà, l’Italia il 58,5%. La Svezia è il Paese più generoso nel concedere asilo.
Le statistiche fotografano un aumento degli arrivi che non si vedeva dal 1992. E l’Italia si conferma un ponte, più che un approdo: i richiedenti asilo, infatti, sono appena il 10% del totale europeo nonostante un aumento degli arrivi di quasi il 160% rispetto al 2014.



Velo e nome arabo: non mi affittano casa
Corriere.it, 01-04-2015
Rassmea Salah
Sono anni che tanti giovani come me, appartenenti alla cosiddetta seconda generazione, o per meglio dire alla categoria dei nuovi italiani, si battono per una riforma della legge sulla cittadinanza che possa tener conto dei radicali cambiamenti nelle dinamiche sociali degli ultimi 50 anni in Italia.
Sono anni che ci battiamo perché lo Ius Sanguinis diventi Ius Soli, e che chi nasce e/o cresce in Italia abbia diritto alla cittadinanza senza restare in balia dei biblici tempi burocratici a cui siamo tutti – da cittadini – purtroppo soggetti. Eppure sono nata italiana. Sono italiana “di sangue”. Perché mia madre lo è da mille generazioni. E perché mio padre ha acquisito la cittadinanza negli anni ’80.
    Mi batto perché credo in questa causa, nel diritto di sentirsi cittadino di uno Stato a tutti gli effetti, figlio di una Patria dove si cresce e ci si considera a casa.
Ma a volte non basta. Agli occhi degli autoctoni non basta che tu abbia la cittadinanza italiana per essere considerato tale. Ci pensano loro a rimarcare sempre la tua differenza, il tuo strano nome, la tua fede così diversa, lontana e sconosciuta, il tuo modo di abbigliarti. Il tuo velo. Ed ecco che da italiana diventi straniera, nonostante tutto. Nonostante tu sia nata qui, nonostante i cicli scolastici fatti in Italia, nonostante i traguardi e i successi raggiunti, le due lauree, il master, i lavori nel Terzo Settore, l’attivismo politico. Nonostante il tuo sentirti ed essere italiano. Ed è in questi casi che si diventa ciò che l’Altro vede in te. Pur non corrispondendo alla realtà.Mi è successo in questi ultimi 9 mesi, uno dei periodi più belli e intensi della mia vita, in cui ho convolato a nozze e sono rimasta in dolce attesa. Un periodo però contrassegnato dalla difficoltà di trovare una casa a Bologna (nonostante le garanzie, i contratti a tempo indeterminato, e le risorse) proprio perché – pur essendo italiana -, i proprietari di casa vedevano in me una straniera a causa del mio velo, che evidentemente fa ancora paura, purtroppo.
E allora mi chiedo a cosa serva avere la cittadinanza sulla carta se poi le persone ti vedono comunque come una immigrata. Che senso ha fare una “rivoluzione giuridica” per concedere la cittadinanza agli “italiani di fatto” senza aver fatto prima una rivoluzione culturale, per far capire ai cittadini autoctoni che oggi esistono nuove forme di identità italiane.
Oscillo fra la desolazione e la speranza. La desolazione per l’arretratezza culturale e la chiusura di mentalità di molte persone che vedono nei nuovi italiani degli stranieri, e la speranza che i miei figli, in un futuro non molto lontano, non avranno nessun problema ad affittare una casa, solo per il fatto di avere un nome arabo o di appartenere ad una religione diversa da quella cattolica.



"Ti prendo a bastonate", blitz a Catania contro caporali e sfruttatori nei campi
Arrestate nove persone, italiane e romene. Costringevano i braccianti a turni massacranti e paghe da fame, minacciandoli e facendoli vivere in container fatiscenti
stranieriinitalia.it, 01-04-2015
Catania – 31 marzo 2015 - Nove persone, di cittadinanza italiana e romena, sono state arrestate oggi in un blitz dei carabinieri di catania nell’ambito di un’operazione contro lo sfruttamento della manodopera straniera nei campi.
Sono accusate di far parte di un’associazione a delinquere che costringeva i lavoratori a vivere e a prestare la loro opera in condizioni disumane. Il tutto sotto la costante minaccia di violenze e della perdita dell’occupazione.
“Vuoi che ci prendiamo a legnate?” si sente ad esempio in una delle intercettazioni compiute dai militari. E i racconti delle vittime, tra le quali ci sono anche donne e minori, parlano di turni massacranti a fronte di miseri guadagni e mostrano una condizione di sudditanza psicologica nei confronti degli sfruttatori.
La banda reclutava i lavoratori direttamente in Romania per poi impiegarli nel catanese in mansioni sottopagate e senza le garanzie minime di tutela. I braccianti venivano alloggiati all’interno di container dove i carabienieri hanno riscontrato condizioni igienico sanitarie pessime.
A fare da intermediari tra lavoratori e datori erano caporali romeni. “Hai lavorato?” chiede in un’intercettazione un uomo dall’accento siciliano a uno dei caporali, tale Nicu, che risponde “oggi no”, “tu non travagghi mai” ribatte l’italiano, e quello si giustifica: “Io mando gli operai .. a te che ti interessa?”.



Warda: «Mille nuove abitazioni per rinascere»
Avvenire, 01-04-2015
Luca Geronico
Il cortile della cattedrale di San Giuseppe, nel cuore di Ankawa, ora è sgombro, anzi degli operai stanno finendo di costruire un porticato. Ma i profughi non se ne sono certo andati: 80mila ad Erbil, altri 120mila in tutto il governatorato, che da fine agosto hanno semplicemente trovato qualcosa di meglio di una tenda. Di certo non un futuro.
«Quando potremo rientrare?», è la domanda di tutti. «Non prima di sei mesi», fa sapere l’arcivescovo caldeo di Erbil, Bashar Warda. Più che altro un auspico, mentre si aspetta sempre l’avanzata di primavera su Mosul.
Monsignor Bashar Warda, lei ha appena annunciato il progetto di costruire mille case economiche per chi deciderà di rimanere. Perché un progetto tanto impegnativo?
Da settembre abbiamo cercato di offrire una possibilità alle famiglie rifugiatesi qui, terrorizzate, e che, per evidenti ragioni, non volevano rientrare nei loro villaggi. Nelle crisi degli ultimi dieci anni, abbiamo constatato, che un buon numero di famiglie decide poi di restare in Kurdistan se gli si offre un lavoro. Per questo abbiamo pensato di costruire mille nuove abitazioni low cost, creando in questo modo 2mila posti di lavoro per i giovani sfollati. Abbiamo parlato con il governo del Kurdistan che ha accettato con un certo favore l’idea di destinare un’area per costruire un villaggio per i cristiani in Kurdistan. Tramite la nunziatura e da papa Francesco abbiamo già ricevuto 3milioni di dollari che destineremo a questo progetto. Ora stiamo aspettando per il certificato di proprietà del terreno che ci permetterà di iniziare i lavori. Pensiamo di poter dare le case solo al 5% delle 250mila famiglie che hanno lasciato la piana di Ninive, in modo da non alterare gli equilibri demografici dei villaggi di quell’area.
Per costruire il futuro, lei ha detto, bisogna dare un lavoro, ma anche l’istruzione. Qual è l’impegno della Chiesa caldea per l’istruzione dei giovani rifugiati?
Le possibilità sono molto limitate e noi possiamo lavorare per i soccorsi e nel settore educativo, perché un buon numero di rifugiati lavorava nel settore privato, specialmente nell’edilizia. La presenza in questi mesi di numerose Ong cattoliche ha generato del lavoro nel campo umanitario. Mi sono chiesto, però, come creare nuovo lavoro per i giovani in questo momento: ci sono famiglie che ricevono ancora uno stipendio perché dipendenti pubblici, ma almeno un 25% di famiglie è totalmente privo di reddito. Le possibilità sono davvero limitate e questa è una delle nostre maggiori preoccupazioni.
Come minoranza, siete sicuri che i diritti dei cristiani, a cominciare da quello di libertà religiosa, non saranno messi in pericolo qui in Kurdistan? Avete avuto assicurazioni dal governo regionale curdo?
In genere c’è un buon atteggiamento verso i cristiani, noi siamo nativi di questa terra, eravamo qui prima di ogni altro e i nostri villaggi hanno una lunga storia. Noi ora possiamo vivere e manifestare apertamente la nostra fede.
I profughi, per rientrare, chiedono una protezione internazionale. Quale, a suo avviso, il primo passo per garantirla?
L’Iraq è un Paese sovrano e ogni misura in questo senso dovrà essere concordata con il governo centrale iracheno e con il governo regionale del Kurdistan. Ogni misura di questo genere dovrebbe essere inclusa in un pacchetto che comprenda pure misure di riconciliazione, cercando di raggiungere realmente tutte le comunità non solo quelle cristiane: non vorremmo trovarci in un ghetto protetto da forze internazionali. Noi vorremmo vedere coinvolta la popolazione locale nel costruire ponti, ristabilire legami con le altre comunità per mettere in salvo le nostre famiglie. Ma questo dovrà fare parte di un pacchetto di misure
 

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