Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri
1993 A proposito di "negri"
Un diritto delle minoranze. Chiamateci come ci piace

Luigi Manconi
A Roma, in piazza di Spagna, accanto al parcheggio del taxi, un cartello indica il posteggio delle carrozzelle con queste parole: "Stazionamento per auto pubbliche a trazione ippica".
Giuro che c'e' scritto proprio cosi', e sarebbe assai interessante conoscere gli abissi di orrore burocratico - e forse esistenziale - ai quali ha attinto l'autore di tale formula. Quel cartello si presta a molte ironie e, tuttavia, e' un esempio che va manovrato con circospezione. Per intenderci: non si tratta di un caso di Politically Correct. Ovvero di quella tendenza (assai diffusa nelle universita' americane) a riformare il linguaggio, per cambiare le parole che segnalano un handicap, richiamano una differenza, indicano una minoranza. E' una tendenza che - senza assumere il carattere sistematico raggiunto negli Stati Uniti - si manifesta anche in Italia. Si deve a essa se, nel linguaggio collettivo, alcune parole vengono sostituite, lentamente, da altre: il termine colf ha preso il posto del termine domestica o cameriera (o, magari, serva); handicappato e' stato sostituito da portatore di handicap, cieco da non vedente, spazzino da operatore ecologico. Questa tendenza alla riforma del linguaggio ha suscitato sempre l'ilarita' dei reazionari (mi e' capitato di leggere sul "Giornale" decine di battute in proposito). Di questi tempi, suscita anche l'ironia dei progressisti. Amabilmente, Umberto Eco (su "L'Espresso" del 13 e del 20 dicembre' 92), per segnalare i possibili eccessi, ha evocato l'angoscia del boia che chiede di essere chiamato Operatore Tanatologico. E ha aggiunto: "E' certo cortese chiamare un paralitico "portatore di handicap", ma la correzione linguistica serve solo se nel contempo si costruiscono nei locali pubblici rampe di accesso che sostituiscano le scale per chi si muove su una sedia a rotelle". Giusto. Ma l'abbattimento delle barriere architettoniche riguarda le leggi (carenti in Italia piu' che in qualsiasi altro Paese industrializzato) e richiama le responsabilita' dell'amministrazione pubblica: l'abbattimento dei pregiudizi linguistici e degli stereotipi verbali riguarda noi tutti. Dunque, il nostro modo di trattare la diversità, di nominare la differenza, di entrare in rapporto con le minoranze. E su questo e' necessario essere chiari. Non si possono confondere le perversioni del linguaggio burocratico o politico (il cartello che indica il posteggio delle carrozzelle, ma anche le indimenticabili "convergenze parallele" di Aldo Moro) con l'inevitabile approssimazione di un vocabolario che, faticosamente, tenta di esprimere le modificazioni della mentalita' collettiva. Non solo. E' noto che tutte le minoranze, i gruppi svantaggiati, i movimenti di emancipazione hanno, come primaria esigenza, quella di nominarsi. Ovvero di assumere un nome proprio, autonomamente scelto, diverso da quello imposto dagli altri: dalla maggioranza che stabilisce le regole della convivenza e, insieme, le forme della comunicazione e i nomi delle cose. E' ovvio che quella delle collaboratrici familiari non e' una minoranza oppressa: ma, in questo caso, il ricorso alla perifrasi accompagna - magari goffamente, come nel caso di operatore ecologico - l'evoluzione di un'attivita' lavorativa: il passaggio da una condizione servile a una maggiormente tutelata. Dunque, il nome precedente viene rifiutato perche' evocativo della condizione mortificante in cui prima veniva svolto, o in cui tuttora viene svolto, quel lavoro. Lungi dall'essere una manifestazione di ipocrisia, costituisce un segno di emancipazione conquistata o perseguita. E i ciechi che chiedono di essere chiamati non vedenti, per un verso, rifiutano la retorica pietistica che il termine precedente implica e, per altro verso, pretendono di decidere il proprio nome. Difficile dar loro torto. Umberto Eco, negli articoli citati, richiamava la complessa vicenda del "nome" degli afro americani (da "nigroes" a "colored people" a "black"). Non e' questione che riguardi solo gli Stati Uniti. In Italia vive oltre un milione di immigrati, e come nominarli e' problema non secondario. Molti giornali continuano a usare termini denigratori come "vu' cumpra'" e simili ("vu' lava'", "vu' druga'", "vu' stupra'": si e' letto anche questo). Contemporaneamente, si assiste al tentativo, da parte di molti, di correggere la propria terminologia convenzionale; e cosi', nel linguaggio quotidiano anche di strati non politicizzati, si nota il progressivo (e, spesso, imbarazzato) passaggio dal negro al nero. Chi lo fa, avverte il significato denigratorio del primo termine e cerca di evitarlo. Non e' una garanzia contro il razzismo: ma e' un modo (seppure fragile, fragilissimo) per non legittimarlo
La Stampa 25 gennaio 1993
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