Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Cambiamo con loro

Luigi Manconi
L’Istat, ricorrendo a numeri inequivocabili, offre un malinconico ritratto della nostra società tra 50 anni. Un’immagine spietata che dovrebbe determinare profonde riflessioni. La rappresentazione che emerge è quella non semplicemente di un Paese invecchiato, cosa che da tempo sappiamo, bensì quella, ancora più inquietante di un’organizzazione sociale destinata alla decadenza.


In questo processo di accelerata senescenza, un solo dato risulta apertamente contraddittorio, ed è così sintetizzabile: tra mezzo secolo quasi un quarto della popolazione presente sul territorio italiano sarà composto da stranieri. Ripeto: non sono dati inediti, ma è la loro consistenza, e la crescita più rapida delle curve tracciate precedentemente, a fare la differenza e a porci davanti a quesiti ineludibili. Non è la Caritas, infatti, a tratteggiare i contorni di una società diventata “multietnica” e di conseguenza “multiculturale” e “multireligiosa” per incoercibili dinamiche demografiche, ma è l’istituto pubblico di statistica, che utilizza indicatori scientifici ed elabora proiezioni sulla base di fattori economico-sociali oggettivi.

Lo scenario disegnato è tale da mettere in discussione - o almeno così dovrebbe accadere - le due opposte, e speculari, strategie emerse negli ultimi anni in materia di immigrazione. La prima è quella che rimanda ancora all’ideologia propria degli imprenditori politici dell’intolleranza (così definimmo nel lontano 1988 la Lega e gli altri spezzoni della destra che iniziavano a mobilitare le ansie collettive contro “l’invasione straniera”) e che, in buona sostanza, riduce l’immigrazione a problema di ordine pubblico, a questione criminale, a risorsa per l’acquisizione del consenso xenofobo.
Tale concezione si è espressa in una politica che ha oscillato tra contenimento e respingimento e che, quando costrettavi, ha fatto ricorso alle sanatorie per “normalizzare” un fenomeno che si continuava a considerare fonte di disordine sociale. Il prevalere di tale politica nell’arco degli ultimi venticinque anni ha fatalmente indotto nel campo avverso - quello del centrosinistra - una politica essenzialmente di reazione: alla criminalizzazione dello straniero si è risposto con la sua “umanizzazione”. Dunque, allo straniero stigmatizzato come minaccia sociale si è contrapposta l’immagine dello straniero come vittima, i cui diritti umani andavano tutelati. Impostazione spesso preziosa, sempre necessaria, ma inevitabilmente parziale.

Nell’un caso, come nell’altro, il migrante è stato considerato esclusivamente come un problema. Da respingere o da tollerare, da sanzionare o da assistere, da discriminare o da tutelare. Ma se quella vittima, ostracizzata dalla destra e accettata dalla sinistra, va a costituire un quarto dell’intera popolazione, appare evidente che entrambi quegli atteggiamenti - l’uno ripugnante e l’altro condivisibile- sono destinati a rivelarsi vani.
Intanto, perché quella popolazione straniera sarà, ancor più di oggi, componente essenziale del nostro sistema economico-sociale: contribuirà in misura rilevante (cosa che fa già oggi in una percentuale di quasi l’undici per cento) al prodotto interno lordo e alla creazione di ricchezza nazionale, sosterrà il nostro sistema previdenziale e la continuità di alcuni settori economici, sarà parte integrante delle nostre strutture di welfare (lavoro di cura e sanità, assistenza agli anziani, educazione dei minori…).

Risulterà davvero una bizzarria, allora, voler conservare per questi “nuovi italiani” la vetusta e irrazionale normativa sulla cittadinanza. Ma questo scenario futuro impone un radicale cambio di mentalità e di strategia già ora. E dovrebbe produrre quella politica per l’immigrazione, che oggi sembra mancare totalmente, se si escludono alcune misure varate dai due governi guidati da Romano Prodi.
Una politica per l’immigrazione dovrebbe tradurre in norme e dispositivi quella verità che, se continuasse a rimanere mera astrazione, finirebbe col risultare una bolsa retorica. Quella, cioè, che parla dell’immigrazione come di “una risorsa”. Ma se davvero vogliamo che così sia, dovremmo immediatamente e finalmente iniziare a conoscerla la popolazione immigrata. Oggi ancora così indistinta e ignota, nonostante sia così articolata e differenziata al proprio interno. Tra gli immigrati ci sono laureati e artigiani, contadini e manovali. Ci sono operai che vogliono specializzarsi e trasferirsi in Scandinavia e letterati che sono qui per studiare il Convivio dantesco. Dobbiamo innanzitutto conoscerli. Dobbiamo, anche noi, non discriminarli quasi fossero una moltitudine anonima e seriale.
l'Unità 28.12.2011

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