Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri
Straniero a chi?
Mauro Valeri
Con l’apertura del nuovo anno scolastico si è tornati a parlare – non sempre a proposito – dell’integrazione degli alunni stranieri, la cui presenza nei banchi di scuola è sempre più consistente, effetto assai prevedibile di un trend demografico avviato già da diversi anni.
Era stata presentata a favore dell’integrazione la proposta, che per ora sembra essere finita in soffitta, delle “classi ponte”, versione edulcorata di quelle “classi speciali” che figli e nipoti degli emigrati italiani hanno conosciuto, ad esempio, in Germania. I fautori di una simile proposta hanno più volte dichiarato che per superare i problemi scolastici degli alunni stranieri, primo fra tutti quello linguistico, era nel loro interesse inserirli in classi separate per fargli apprendere l’italiano e poi, un (fantomatico) domani, inserirli nelle classi “normali”. I limiti di un simile ragionamento sono molti, il principale dei quali riguarda proprio l’apprendimento della lingua italiana che avviene con molta più facilità e rapidità nelle “classi normali”, cioè insieme agli altri coetanei, che non in quelle “separate”, e molte volte proprio con l’ausilio degli altri coetanei connazionali che spesso svolgono una vera funzione ponte (più che di classi ponte, abbiamo bisogno di “alunni ponte”!). E’ l’esperienza di anni di lavoro di pedagogisti e insegnati ad avercelo insegnato, anche se basterebbe un po’ di memoria emigratoria per ricordare i disastri che le “classi speciali” hanno creato.
Negli ultimi mesi, però, ha preso corpo un’altra proposta, sempre “a favore dell’integrazione degli alunni stranieri”, avanzata dal ministro dell’istruzione Gelmini, la quale, dopo averla annunciata già a marzo, l’ha riproposta poche settimane fa, ripromettendosi di adottarla per il prossimo anno scolastico. Non si parla più di “classi ponte”, ma di porre un tetto del 30% sulla presenza degli alunni stranieri per classe. Apparentemente, rispetto alla proposta precedente, sembrerebbe un’iniziativa più attenta all’integrazione intesa come confronto e convivenza e non come separazione. L’idea di fondo è che, attraverso una diffusa ma contenuta presenza di alunni stranieri, si favorirebbe un loro più rapido apprendimento della lingua italiana e si migliorerebbero i rapporti con i compagni di classe. Tuttavia, restano dubbi e perplessità, soprattutto sulle reali finalità di una simile proposta. Il primo dubbio riguarda la definizione stessa di “straniero”. Infatti, per una anacronistica legge sulla cittadinanza, è italiano solo chi ha un genitore italiano. Chi nasce e cresce in Italia è straniero almeno fino ai 18 anni. Quindi, anche se non parla la lingua del paese d’origine dei suoi genitori, se è pienamente inserito nella cultura italiana, per la proposta del ministro è e resta uno “straniero” e dovrebbe essere quindi conteggiato automaticamente nella quota del 30%. Si viene in tal modo a inficiare il ruolo stesso della scuola, che dovrebbe preoccuparsi non tanto della cittadinanza formale di chi siede nei banchi, ma caso mai della loro conoscenza linguistica o del loro curricula. Chi ha esperienza con la scuola, sa bene che ci sono stranieri “per caso” che parlano molto bene la lingua italiana, e italiani che ignorano completamente anche le principali norme grammaticali della lingua italiana. Nella proposta del “tetto del 30%”, l’alunno straniero viene invece presentato come un “soggetto problematico” solo per il fatto di non avere genitori italiani (e poco importa se sono persone che vivono in Italia da venti anni)! Stiamo parlando di quasi un milione di minorenni, di fatto italiani, ma per legge stranieri. Quel tetto posto così, sul 30%, anziché essere a tutela degli alunni stranieri, diviene un modo per ricacciare dalla porta chi, con fatica, sta cercando di integrarsi.
A difesa della sua proposta, il ministro ha evidenziato che in tal modo si andrebbero a smantellare quelle classi “ghetto” composte prevalentemente o completamente da soli stranieri, presenti in alcune realtà del paese. Si tratta, pertanto, di un’ennesima iniziativa “a favore dell’integrazione degli alunni stranieri”. Fermo restando le perplessità sulla definizione del temine “straniero”, non si comprende perché generalizzare una iniziativa che, a detto dello stesso ministero, riguarda solo alcune aree del paese. Ma soprattutto non si dà risposta ad una domanda piuttosto semplice: perché esistono le classi “ghetto”? Di sicuro non è, come alcuni sostengono, una volontà dei minori e soprattutto dei loro genitori di chiudersi a riccio, non frequentare coetanei italiani, far divenire le aule scolastiche delle enclave etniche dove, semmai, preparare un improbabile scontro di civiltà. E’ una sciocchezza, rinfocolata dai media, ma sconfermata dai risultati di tutte le ricerche sulle “seconde generazioni” che invece mostrano una loro forte propensione per l’integrazione. Se esiste una aggregazione scolastica “eccessiva” è perché in quel quartiere o in quella cittadina vi vivono molte famiglie di stranieri. Imporre un tetto del 30% vuol dire obbligare gli stranieri “in esubero” a trasferire i propri figli in altri istituti, probabilmente in altri quartieri o in altre cittadine. Con il rischio evidente, che l’istruzione scolastica divenga un carico che molte famiglie straniere farebbero fatica ad assumersi. Imporre il 30% vuol quindi dire scaricare sulle spalle delle famiglie straniere un problema che potrebbe essere facilmente superato con metodi assai meno drastici, come l’impiego dei mediatori culturali, la formazione adeguata degli insegnati, l’adozione di materiale didattico realmente multiculturale e antirazzista, ecc. Certo ci vuole impegno, ma è un impegno che è soprattutto un investimento, perché quei ragazzi che siedono oggi nei banchi di scuola, saranno domani quasi sicuramente cittadini italiani. La loro reale integrazione nella scuola, è la base per una reale integrazione sociale. E se l’attuale situazione italiana è ben lontana da quella delle banlieues francesi lo si deve molto proprio all’accoglienza offerta sinora dalla scuola.
C’è poi una curiosità. Perché il 30% e non il 20% o il 50%? C’è un qualche pedagogista che ha proposto una simile percentuale, oppure è un numero che nasce da tutt’altre esigenze? Certo, incuriosisce il fatto che i primi a proporre un simile tetto siano stati alcuni genitori italiani della scuola Pisacane di Roma (che si autodefiniscono, anche loro, “mamme per l’integrazione”), scuola con un’alta percentuale di alunni “stranieri”. E’ una scuola che è sempre riuscita a superare i problemi puntando soprattutto sulla qualità didattica, riuscendo ad ottenere risultati che, purtroppo, non riscontriamo in altre scuole all italians. Sorge quindi il sospetto che quel 70% di italiani voglia dire, per molti, nient’altro che sentirsi “maggioranza” effettiva (“padroni a casa loro”, per dirla con gli xenofobi nostrani). Limitare le presenze di stranieri al di sotto del 50% è volutamente un modo per far sì che, almeno sulla carta, tutte le decisioni dovrebbero essere a favore degli “italiani”. Se si è maggioranza si hanno meno problemi a decidere quali feste religiose rispettare, quali cibi debbono essere permessi nella mense scolastiche, quale carta geografica appendere nelle aule, quali personaggi e quale sfondo inserire nel presepe, ecc. E’ un problema degli italiani o degli stranieri? Non solo. C’è da aspettarsi che, sempre in nome di una migliore integrazione degli stranieri, presto qualcuno proponga simili percentuali nei quartieri o nelle cittadine! Pur partendo da un problema reale (le classi “ghetto”) e proponendosi un obiettivo condivisibile (l’integrazione degli stranieri), si viene a delineare una prospettiva peggiorativa e discriminatoria. 
Se si ha veramente a cuore il problema dell’integrazione degli alunni straniero, bisognerebbe allora porsi concretamente quelle che sono vere emergenze, come un bullismo che predilige vittime con il colore della pelle diverse o ascendenze straniere, o i molti problemi che ancora incontrano gli alunni stranieri disabili. Anche questa è integrazione.




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