Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

17 luglio 2013

Migranti, in 24 ore 350 arrivi in Sicilia Fuga dopo il soccorso: oltre 150 già spariti
Arrivi dall'Egitto, Somalia ed Eritrea: molti i minorenni e un neonato. Scappati mentre attendevano l'identificazione
Corriere della sera, 17-07-2013
Soccorsi dopo lo sbarco, poi la fuga. Una specie di vero e proprio sprint sul molo dove i migranti erano stati ammassati in attesa di sbrigare le operazioni per l'identificazione. E' successo nella mattinata di martedì 16 luglio a Portopalo di Capo Passero, nel Siracusano, approdo, in questi giorni, di numersi sbarchi. Nelle ultime 24 ore su due imbarcazioni, «scortate» dalle motovedette della Guardia Costiera che le avevano agganciate a largo, sono arrivati 65 egiziani e 217 tra somali ed eritrei. Buona parte di questi ultimi, una volta a terra, hanno appunto eluso la sorveglianza e le forze dell'ordine li stanno cercando. Stando alla questura di Siracusa sarebbero un centinaio, soprattutto eritrei. Circa il doppio secondo altre fonti.
MOLTI MINORENNI - Gli egiziani, tra i quali una ventina di minorenni, si trovavano su piccola imbarcazione in legno di una decina di metri, con iscrizioni in caratteri arabi lungo le fiancate, spinta da un moto fuoribordo di appena 50 cavalli. A lanciare l'allarme era stato l'equipaggio di un motopesca che aveva incrociato la barca, coperta con teli lungo tutto il perimetro, a circa 12 miglia a sud est di Capo Passero. I migranti sbarcati sono apparsi in buone condizioni anche se quattro sono stati condotti in ospedale per accertamenti. Alcuni, all'arrivo dei soccorsi, si sono tuffati in mare, forse per raggiungere prima la terraferma.
SOCCORSI DALLA GUARDIA COSTIERA - Appena a terra gli egiziani sono stati condotti al riparo sotto una tenda, attrezzata dalla Croce rossa nell'area antistante l'ex mercato ittico, nella stessa area del porto. In mattinata sono stati trasferiti al commissariato di polizia di Noto. A distanza di qualche ora è arrivato anche un secondo barcone, di circa 18 metri, sul quale si trovavano 217 fra eritrei e somali, tra i quali anche bambini e un neonato. L' aggancio da parte delle motovedette della Guardia costiera questa volta è avvenuto, sulla base di segnalazioni del sistema di monitoraggio in mare, a circa 48 miglia a sud est di Capo Passero.
LA FUGA - Poi la fuga: la maggior parte dei 217 è riuscita a eludere la sorveglianza e a far perdere le tracce. I circa 50 rimasti e gli altri via via rintracciati saranno condotti al commissariato della polizia di Noto. Secondo quanto emerso dalle prime indagini del Gruppo investigativo interforze della Procura di Siracusa i migranti sarebbero partiti 3-4 giorni fa da un porto non distante da Tripoli, in Libia, pagando all'organizzazione 800-1.000 dollari a testa per la traversata.



«Solidarietà globale verso gli immigrati che arrivano da noi»
Avvenire, 17.07.2013
Lorenzo Galliani
Invece della globalizzazione dell’indifferenza, una fratellanza senza confini. «L’invito a educare le nostre comunità alla solidarietà verso i fratelli migranti» è «il primo impegno concreto che nasce dalla visita del Papa a Lampedusa». Lo affermano i vescovi della Cemi (Commissione episcopale per le migrazioni) e la Fondazione Migrantes.
A poco più di una settimana, la storica visita di Francesco nella piccola isola nel cuore del Mediterraneo non smette di far riflettere. Negli ultimi decenni l’Italia è diventata una delle mete dell’immigrazione: «Cinque milioni di persone, di 200 nazionalità diverse, con esperienze religiose differenti hanno reso l’Italia un paese globale – scrivono Cemi e Migrantes – Come l’arrivo di 35 milioni di migranti in Europa l’hanno resa una “casa comune” per molte persone e famiglie». E affinché «l’incontro tra persone non generi ingiustizie, discriminazioni, morte, ma una nuova storia di convivenza civile» prosegue il comunicato, occorre «non dimenticare nella stagione estiva, tempo anche di rinnovati sbarchi sulle coste italiane, l’appello di Papa Francesco a una nuova responsabilità verso i migranti».
Quell’appello che, nel polveroso stadio di Lampedusa, Bergoglio ha lanciato richiamando l’immagine del buon samaritano: «Siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare – ha detto Francesco nell’omelia pronunciata durante la celebrazione eucaristica – Guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto».
Quella cultura del benessere, ha proseguito il Papa, «ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio».
Parole, queste, che hanno dato «una frustata anche alla Chiesa», spronandola ad «andare avanti, non demoralizzarsi», ha detto in un’intervista a Famiglia Cristiana il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio consiglio che si occupa delle migrazioni: «purtroppo», ha sottolineato, anche ad alcuni cattolici i profughi e migranti spesso «danno fastidio».
Una tragedia dietro l’altra: «Cento milioni di rifugiati e 220 milioni di migranti che fuggono perché c’è la guerra, perché non mangiano, perché cercano la libertà – aggiunge il cardinale – Dovremmo averla tutti negli occhi questa enorme parte di umanità che soffre, perché solo così ci possiamo vergognare». E reagire: «I migranti ci saranno finché qualcuno non decide di cambiare le politiche economiche – conclude il presidente del Pontificio consiglio che si occupa di migrazioni – Invece sembra che questo non sia un problema per nessuno».
E mentre le tragedie ci passano ogni giorno sotto gli occhi, l’indifferenza globale ci anestetizza pure il cuore.
 


Caso Shalabayeva, una storia di violazioni
l'Unità, 17-07-2013
Luigi Manconi
Per un crudele paradosso, la drammatica vicenda dell’espulsione dall’Italia di Alma Shalabayeva e di sua figlia potrebbe sortire un qualche effetto positivo. Esile, assai esile, in mezzo a tante conseguenze nefaste, ma non inutile. Quell’espulsione, con quel metodo e in quelle condizioni, ci dice molto.
Ce lo dice con chiarezza a proposito della politica italiana in materia di immigrazione. Ogni mese, dai Cie italiani, decine e decine di individui anonimi, spesso senza avvocati e senza alcuna risorsa, né tutela o relazione, vengono espulse e riportate in Paesi da cui sono fuggiti a seguito di guerre tribali o civili, discriminazioni religiose o etniche, perché oppositori dei regimi dominanti o perché appartenenti a gruppi sociali perseguitati.
Una storia che si ripete ormai da anni, divenuta consuetudine, e della quale non si discute quasi più perché non stupisce più, perché è ideologicamente coerente con un approccio quasi esclusivamente emergenziale all’immigrazione, che finisce quindi per essere l’oggetto di un delirio securitario. Al quale, dunque, si risponde con qualunque mezzo a disposizione, compresa la riduzione al minimo di tutele e garanzie durante la procedura di espulsione, in contrasto con numerosi principi di diritto internazionale e con tutte le convenzioni sottoscritte dal nostro Paese.
La vicenda di Alma Shalabayeva, dunque, può costituire una sorta di modello negativo: e un’occasione preziosa per scavare più a fondo nella concreta gestione delle politiche per l’immigrazione da parte dei governi italiani negli ultimi anni. Se ci si pensa un po’, la fretta immotivata, la grossolana sbrigatività, la sommarietà degli atti per come si sono manifestati nell’espulsione della Shalabayeva corrispondono, né più né meno, che a un pensiero profondo che segna l’atteggiamento di molti uomini e apparati delle nostre istituzioni. Ovvero gli immigrati e i richiedenti asilo sono, come minimo, un problema e più probabilmente una minaccia. Liberarsene al più presto è, allo stesso tempo, una misura di polizia e un programma politico, peraltro condivisi da una parte del senso comune e da segmenti delle classi dirigenti. Così accade che la politica dei respingimenti venga praticata con brutale efficienza nei confronti di migliaia di anonimi immigrati e richiedenti asilo e nei confronti di una bambina e di sua madre, tanto più se quest’ultima è la moglie di una figura indubbiamente controversa e gravata da molti sospetti, oltre che esponente dell’opposizione. E accade, ancora, che, dopo il trattenimento nel Cie di Ponte Galeria, Alma Shalabayeva sia stata trasferita a Ciampino e qui, insieme alla figlia, sia stata imbarcata su un jet privato e rimpatriata.
A distanza di circa un mese da quella notte, si è appreso con una pronuncia del Tribunale del riesame che il presupposto su cui si è basata l’espulsione della donna (ovvero la falsità del passaporto diplomatico da lei posseduto) era in realtà insussistente e che, anzi, la stessa era titolare di un permesso di soggiorno rilasciato dalla Lettonia (Paese dello spazio Schengen), valido fino a ottobre e dunque idoneo a escludere l’espulsione automatica della donna.
A prescindere dai chiarimenti forniti al Senato dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e dalle conseguenze che tutto ciò ha avuto e avrà sul quadro politico, resta il dubbio che l’espulsione sia stata disposta in violazione del divieto di refoulement sancito, tra l’altro, dal testo unico sull’immigrazione. E in conformità, oltretutto, a una norma imperativa di diritto internazionale, strettamente complementare al divieto di tortura ed applicabile anche in relazione alla prassi delle «diplomatic assurances». Ovvero di quelle assicurazioni diplomatiche fornite dalle autorità del Paese di destinazione, che non valgono, di per sé, a escludere l’illegittimità di espulsioni adottate secondo l’art. 3 del «decreto Pisanu» e dunque senza neppure la convalida giurisdizionale che espongano la persona al rischio di tortura o trattamenti inumani o degradanti, come ha stabilito la Corte europea dei diritti umani anche rispetto alle espulsioni di soggetti sospettati di terrorismo.
Questa tragica vicenda, dunque, potrebbe rappresentare l’occasione per ripensare a fondo la materia e per interrogarsi, in particolare, sulla legittimità di queste forme di rimpatrio: quante espulsioni espongono lo straniero al rischio di trattamenti illegali e crudeli? È ammissibile un sistema fondato sull’esecuzione immediata di espulsioni impugnate, che rende le convalide giurisdizionali meramente formali, celebrate in assenza dell’interessato, reo soltanto di essere nato altrove?



Cristopher Hein, direttore del consiglio italiano per i rifugiati:
«Non si è voluto dar tempo e concreta opportunità per ricorrere contro la deportazione»
«Diritti non tutelati, l’Italia deve ancora una risposta»
l'Unità, 17-07-2013
intervista di Umberto De Giovannangeli
«La vicenda dell’espulsione della signora Shalabayeva e di sua figlia Alua, è un fatto gravissimo, tale da richiedere che dall’indagine siano chiariti tutti gli aspetti legati alla violazione di norme interne e internazionali. È quello che abbiamo chiesto alla ministra degli esteri, Emma Bonino, in una lettera del 4 giugno. Attendiamo ancora una risposta da parte della Farnesina». A parlare è Cristopher Hein, direttore del CIR (Consiglio Italiano per i Rifugiati), l’organizzazione che per prima ha resa pubblica, il 4 giugno, l’espulsione della moglie e della figlia di 6 anni del dissidente kazako Muktar Ablyazov.
Qual è dal punto di osservazione del CIR, la valutazione dell’affare Shalabayeva? «Dalle informazioni in nostro possesso, le autorità italiane hanno espulso la moglie e la figlia di un rifugiato riconosciuto formalmente in un altro Stato dell’Unione europea, la Gran Bretagna. Indipendentemente dalla questione se la signora Shalabayeva aveva o ha potuto effettivamente chiedere protezione in Italia, comunque il vincolo familiare fornisce una protezione che rende il rimpatrio illegale. È da sottolineare anche che Alma Shalabayeva aveva un permesso di soggiorno valido in Gran Bretagna e quindi, casomai, le autorità italiane avrebbero dovuto espellerla in quel Paese e non certo in Kazakistan. Inoltre, le autorità italiane erano al corrente che non si trattava di una persona sconosciuta in Kazakistan e quindi, a maggior ragione, avrebbero
dovuto valutare tutte le possibili conseguenze per la signora e sua figlia della loro consegna nelle mani delle autorità kazake...».
C’è altro ?
«Dal primo momento, conoscendo, come CIR, le normali procedure di allontanamento di un cittadino straniero in situazione irregolare di soggiorno, siamo rimastti estremamente sorpresi della velocità dell’operazione che di per sé non dava opportunità per presentare ricorsi».
Qual è dunque la conseguenza di questa «strana» velocità di esecuzione dell’atto di espulsione?
«Accelerando l’espulsione forzata, le autorità responsabili erano consapevoli che l’azione era, a dir poco, ai limiti della legalità. Dobbiamo dedurre che non si è voluto dar tempo e concreta opportunità per ricorrere contro la deportazione. Da tutto questo nascono domande che attendono ancora risposte».
Quali domande?
«Alcune: Perché la Shalabayeva non è stata espulsa verso il Regno Unito dove aveva un titolo di soggiorno valido, in
conformità con la normativa dell’Unione Europea? Le autorità italiane prima dell’esecuzione dell’espulsione hanno valutato, così come previsto dai principi della Corte dei Diritti Umani di Strasburgo, la possibilità che la consegna della Shalabayeva, e di sua figlia, alle autorità kazake le potesse esporre a persecuzioni e trattamenti inumani? Alla Shalabayeva è stata concessa l’effettiva possibilità di richiedere protezione all’Italia, al momento dell’arresto, durante il trattenimento presso il CIE di Ponte Galeria, o comunque prima della deportazione; in conformità con la normativa dell’Ue e nazionale? Perché le autorità italiane non si sono occupate della vicenda durante i 38 giorni tra l’allarme pubblicamente dato dal CIR il 4 giugno e la revoca del provvedimento di espulsione il 12 luglio? Il CIR spera ci siano delle risposte convincenti a queste domande, per scongiurare il forte sospetto che nell’eseguire il provvedimento di espulsione l’Italia abbia violato il divieto di respingimento ed espulsione sancito dall’articolo 19 del Testo Unico Immigrazione 286/98 secondo cui “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali”, e abbia violato anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che prevede che nessuno possa essere respinto o espulso verso un Paese in cui rischia di essere sottoposto a tortura e trattamenti disumani o degradanti».
Cos’altro vi aspettate come CIR dal Governo?
«La decisione presa il 12 luglio dal presidente del Consiglio di revocare l’espulsione e permettere alla Shalabayeva e a sua figlia di ritornare in Italia, è certamente un passo importante per riparare il danno, ma anche per prevenire che tali azioni si possano verificare di nuovo. Ma l’effettivo ritorno in Italia dipende dal consenso da parte delle autorità kazake. Ci aspettiamo quindi che i canali diplomatici siano pienamente attivati per rendere possibile e al più presto il ritorno in Italia della Shalabayeva e di sua figlia».



Parlano per la prima volta i testimoni del blitz avvenuto dopo la mezzanotte del 29 maggio a Casal Palocco.
Dall’irruzione all’espulsione. Incubo senza fine “Sembravano gangster, così hanno portato via Alma”
I famigliari di Ablyazov raccontano a “La Stampa” la notte del blitz del 29 maggio degli agenti nella villa di Casal Palocco
“Gridavano e non capivamo nulla, temevamo di morire”
La Stampa, 17-07-2013
Maurizio Molinari
Seduti attorno ad un tavolo in una palazzina in centro città ci sono Venera, sorella di Alma, la moglie dell’oppositore kazako Mukhtar Ablyazov, assieme al marito Bolat Seraliev e alla figlia Adiya di 9 anni. Raccontano attimo per attimo cosa avvenne quella notte e nei due giorni successivi, fino all’espulsione di Alma e della figlia Alua verso il Kazakhstan. Seduta vicina a loro c’è Madina, la figlia di Ablyazov, che tradisce tensione per l’incerta sorte della madre e della sorellina entrambe ora ad Almaty. La decisione di raccontare a «La Stampa» i «tre giorni che hanno stravolto le nostre vite – esordisce Venera – è per far sapere cosa abbiamo passato ad una nazione che ci ha fatto sentire a casa ma dove all’improvviso siamo stati umiliati, maltrattati, offesi».
L’arrivo in Italia
Avviene a settembre. «Vivevamo in Lettonia – racconta Madina Ablyazov – ma abbiamo scoperto di essere spiati, braccati e la decisione è stata di andare via». La residenza in Lettonia spiega i permessi di soggiorno di Alma, Venera e Bolat. «Quando si trattò di decidere dove trasferirci avevamo come possibilità la Francia e l’Italia – continua Madina – ma fu mia madre Alma a optare per Roma, diceva che ci saremmo trovati meglio perché il clima era mite, la gente più accogliente e la scuola per Alua migliore». Si tratta della Southlands English School, dove Alua inizia l’anno scolastico, assieme alla cugina Adiya. Quando gli Ablyazov si spostano infatti, i Seraliev li seguono nella casa affittata a Casal Palocco, con una dependance nella quale risiede una coppia di domestici ucraini, Tatiana e Vladimir. «Da settembre fino alla notte del 29 maggio abbiamo vissuto bene» dice Venera anche se, aggiunge Madina, «non dicevamo ai quattro venti chi eravamo, nel timore di essere raggiunti dalle spie, come in Lettonia».
Le grida nella notte
Cinque minuti dopo la mezzanotte del 29 maggio «ci stavamo addormentando – racconta Bolat – quando improvvisamente abbiamo sentito un gran frastuono, la casa su un solo piano era circondata da vetri e ovunque c’erano uomini che battevano violentemente, tentavano di romperli, urlavano». Venera e Bolat non comprendono l’italiano né hanno idea di cosa succede, Alma parla un po’ di inglese. Il rumore diventa assordante. È Alma che apre la porta di casa. «In un attimo una ventina di persone vestite in abiti civili si riversano nel salotto, tutti uomini e una donna, strillano in continuazione, sembrano gangster, non capiamo nulla – dice Venera –, l’unica cosa comprensibile è che un uomo mostra in maniera aggressiva la foto di un personaggio maschile ad Alma, chiedendole se lo conosce». È un’immagine stampata al computer. Alma, Venera e Bolat la guardano, non capiscono chi sia ma «i gangster frugano ovunque ripetendo “Mukhtar, Mukhtar”» lasciando intendere che cercano Ablyazov. «Sono quasi tutti giovani, corpulenti e hanno un superiore, è l’unico che ha la giacca, con un distintivo piccolo che luccica sul colletto» ricorda Bolat. Cercano Ablyazov perché fino a tre giorni prima era lì, lo sanno dall’ambasciata kazaka e dall’agenzia investigativa privata che seguiva le tracce di Ablyazov e l’aveva ormai individuato. La donna però preferisce non «confermare né smentire» sulla presenza del marito.
Sotto il letto delle bambine
Alua e Adiya hanno il sonno pesante, sono reduci da una giornata di ginnastica e il frastuono non le sveglia «ma gli uomini entrano nelle loro stanze» racconta Venera, che assieme ad Alma è obbligata a sollevare di peso le bambine «mentre questi forsennati controllano i materassi, voglio guardare sotto i letti, ovunque».
L’aggressione a Bolat
Viene chiesto a Bolat di mostrare il suo computer. «Mi chiedono di mettere la password, vogliono che lo accenda ma serve qualche minuto e non hanno la pazienza di aspettare – racconta – vedono che sopra il laptop c’è una webcam e vogliono sapere se nella casa c’è un sistema di sorveglianza interno». Sono cose che Bolat intuisce «dai gesti dei gangster» perché non parla italiano né inglese e poiché chiede tempo, per via del computer che tarda, uno degli uomini armati inizia a colpirlo. «Prima alla testa, poi dietro la schiena, sono colpi forti, inizio a sanguinare dalla bocca e mi portano al bagno, spingendomi a lavarmi in fretta la faccia, il sangue scorreva senza fermarsi e lo inghiottivo. Dopo che mi hanno picchiato in camera sono stato condotto nella sala, dove uno dei poliziotti ha detto, anzi, l'ha fatto capire con gesti, che dopo avermi spaccato un occhio mi avrebbe spaccato anche l'altro, poi mi avrebbero rotto i denti e infine ha fatto un gesto per dire che mi avrebbe tagliato la gola». È lo stesso uomo che grida più volte a Bolat «Mafia! Mafia! ». Venera intanto è nel salone, seduta con Alma, circondata da altri armati, tutti uomini «perché l’unica donna che era fra loro non si è fatta vedere, faceva solo le perquisizioni nelle stanze».
Umiliato in bagno Bolat chiede di andare al bagno. Gli agenti glielo concedono ma lo obbligano a tenere entrambe le porte aperte. «Dovevo stare seduto sul wc e mi vedevano tutti, è stato umiliante – ricorda Bolat – loro ridevano di me, mi indicavano». Ma l’umiliazione in quel momento passa in secondo piano perché, dice Venera, «temiamo per la nostra vita perché abbiamo la casa invasa da uomini armati, non sappiamo chi sono e quando Alma in inglese gli chiede se hanno un mandato, un ordine del giudice o qualsiasi altro documento sembrano imbestialiti. Minacciano di colpirla».
L’agente con i capelli da indiana Alle 4 del mattino, il blitz è concluso, è evidente che Mukhtar Ablyazov nella casa non c’è e «gli uomini armati parlano in continuazione al telefono» prima della decisione di ritirarsi portando con loro Alma e Bolat mentre Venera resta in casa con le bambini. «Abbiamo fatto molta strada – ricorda Bolat – fino ad arrivare in un palazzo alla cui entrata c’è un grande arco, è stata la prima volta che ho visto un’auto con l’insegna della polizia, siamo saliti al quarto piano e ci hanno chiesto di firmare una dichiarazione sulla perquisizione avvenuta. Abbiamo accettato sotto minaccia». Fuori della stanza Bolat riconosce l’uomo che lo ha picchiato e lo indica ad uno dei funzionari. «La conseguenza è che mi si avvicina un agente in abiti civili e i capelli da irochese, da dietro quasi mi soffia sul collo e ripete minacciosamente “russo”, “russo”, “russo”». Dopo la firma Bolat e Alma vengono fatti uscire e salire in auto.
La paura, «ora ci uccidono» La vettura esce «dall’edificio con il grande arco all’entrata» e «va fuori città» facendo un «percorso molto lungo» fino ad arrivare «ad un edificio giallastro». Il luogo a Bolat sembra sperduto e, seduto sul sedile posteriore dell’auto si rivolge ad Alma confessandole: «Temo ci uccideranno».
Carabinieri assopiti
Bolat e Alma vengono riportati in città «in una specie di caserma dove all’entrata ci sono due carabinieri ancora addormentati», visto che è ancora primo mattino, «dobbiamo fare qualche giro in auto prima di poter entrare». Bolat e Alma si trovano «in un edificio che sembra aver a che fare con l’immigrazione».
«Il documento è falso» È qui che Alma e Bolat vengono separati. Una funzionaria che dice di chiamarsi Laura spiega ad Alma che «il suo passaporto centrafricano è falso» mentre Bolat ne ha uno valido del Kazakhstan. Fino al primo pomeriggio i due restano «alle prese con l’immigrazione» e a nulla valgono le proteste di Alma che attesta la validità del passaporto come anche di avere un permesso di soggiorno lettone, che però ha lasciato a casa «pensando che il passaporto era più importante». Quella sera Alma dorme «negli uffici dell’immigrazione» e Bolat torna a casa.
Il secondo blitz Alle 6,30 del mattino del 31 maggio circa 15 uomini armati tornano a battere alle porte finestra della casa degli Ablyazov e Seraliev. Cercano Bolat e lo portano a Roma «per ulteriori accertamenti». Ma prima di andare via, dice Venera, «prendono tutti i nostri averi, soldi, gioielli, telefoni, macchine fotografiche, tutto». Venera resta a casa con Alua e Adiya, che aveva scelto di non mandare a scuola. È a lei che «cinque uomini armati chiedono di prendere Alua». Venera resiste, non vuole lasciare la bambina e ricorda quegli attimi con le lacrime agli occhi: «Quando sono venuti a prendere Alua mi sono spaventata tantissimo. Le ho detto: “Non ve la consegno, non posso darvela, non potete portarvela via! ”. Sono diventata molto nervosa, non sapevo cosa fare, chi chiamare, chi contattare, cosa dovevo fare. Hanno cominciato a farmi grandi pressioni, a urlare, “look me”, “listen me”, (guardami, ascoltami, ndr) hanno minacciato, mi hanno detto che avrebbero buttato il mio telefono nella piscina e che non dovevo chiamare nessuno, che si sarebbero portati via Alua. Ho cominciato a supplicarli, a chiedere, mi sono messa in ginocchio pregando “Please, no Alua, no Alua”. Ma loro insistevano che avrebbero portato via la bambina comunque. Alma non c’era, ero io la responsabile». Il diverbio si prolunga e nel tentativo di convincerla gli agenti la fanno parlare al telefono con un donna che, in russo, le dice: «Sono il tuo avvocato, non ti preoccupare, vogliono solo portare Alua dalla madre in via Nazionale». Venera si rassicura ma chiede di accompagnare Alua a via Nazionale. Salgono in macchina e quando arrivano davanti a un aeroporto Venera chiede ad un agente: «Ma questo è un aeroporto, perché siamo qui? ». La risposta le è rimasta impressa: «Appunto, questo aeroporto è via Nazionale». A Ciampino Alua vede la madre e le corre incontro. È l’ultimo momento in cui Venera le vede perché sono circa le 15 del 31 maggio e poco dopo decolleranno alla volta del Kazakhstan con il jet privato arrivato dall’Austria.
Fuga in auto da Roma Venera torna a casa distrutta, incontra il marito rilasciato dagli agenti e con Malina, l’altra figlia di Abyazov, decidono di non dormire una notte di più in Italia, affrontando un viaggio di 9 ore in auto fino al confine svizzero. «Eravamo partiti da neanche 10 minuti – ricorda Madina – e le auto della polizia ci hanno fermato, chiesto i documenti, dicevano che cercavano due bambini scomparsi. È stata una maniera per intimorirci. Siamo ripartiti e non ci siamo più fermati, fino all’arrivo in Svizzera».
«La Farnesina non chiama Alma» Alma e Alua in Kazakhstan sono «ostaggi di Nazarbayev, un presidente-despota che non teme niente e nessuno» dice Madina, secondo cui «la loro sicurezza dipende ora soprattutto dall’Italia» e dunque si chiede «perché dieci giorni fa la Farnesina mi ha chiesto il suo telefono ad Almaty, gli ho dato tre numeri ed ancora nessuno l’ha chiamata. Non lo ha fatto né il console né l’ambasciatore né nessuno da Roma».
Il messaggio ai compagni di scuola Quando l’intervista finisce l’unica a essere rimasta in silenzio è la piccola Adiya. Si avvicina e mi dà un foglio di carta piegato. È la copia della lettera che ha mandato alla sua insegnante Mrs Coursier per far sapere, a lei e alla classe, che non sarebbe più tornata. «Mi dispiace non tornerò più perché la polizia italiana ha rapito mia cugina e la madre, ed ha picchiato mio papà, grazie di essere stati con me quest’anno, vi voglio bene». Con di seguito i disegni dei poliziotti che inseguono Alma e Alua.



Malta: annullata l’espulsione di alcuni immigrati verso la Libia dopo un intervento di emergenza da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Malta ha cancellato i voli che aveva organizzato per rimandare degli immigrati in Libia; salvati anche 3 siriani in fuga dalla Libia.
Immigrazioneoggi, 17-07-2013
Il Governo maltese aveva programmato di rimandare indietro gli immigrati giunti sulle loro coste, ma ha dovuto annullare l’espulsione a causa di un ordine della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il primo ministro Joseph Muscat ha detto che più di 400 immigrati erano arrivati ??due settimane fa e che Malta aveva chiesto l’aiuto dell’Unione europea per contribuire a far fronte all’afflusso. Circa 291 immigrati sono stati salvati da una sola imbarcazione alla deriva. Si pensa che siano partiti dalla Libia, ma molti sono di origine eritrea. Altre 68 persone sono poi state salvate dalle motovedette maltesi pochi giorni dopo.
La Corte europea ha emanato un provvedimento cautelare dopo le richieste da parte di organizzazioni non governative preoccupate dalla notizia che il Governo maltese si preparava ad espellere gli immigrati. Le Ong precisano che questa politica di respingimenti è stata dichiarata contraria alla Convenzione europea dalla Corte di Strasburgo l’anno scorso dopo i precedenti del Governo italiano nel 2009. Il ministro Muscat ha confermato che il Governo sta discutendo con la Libia sul ritorno degli immigrati, ma ha detto che questo non è un “respingimento”.
Anche il Commissario degli Affari interni dell’Ue, Cecilia Malmström , ha espresso preoccupazione per il piano di rientro degli immigrati, affermando: “Tutte le persone che arrivano nel territorio dell’Unione europea hanno il diritto di presentare richieste d’asilo e di avere una corretta valutazione della loro situazione”.
Nel frattempo, la guardia costiera maltese ha salvato 3 siriani sfuggiti alle autorità libiche. I 3 avevano lasciato il Libano diretti in Tunisia ma erano stati fermati dalle autorità libiche quando avevano attraversato le loro acque nazionali. Il Governo di Tripoli si accingeva ad espellerli in Siria, da dove i tre erano fuggiti per salvarsi dalla repressione del Governo siriano. I tre sono poi riusciti a sottrarsi alla custodia della polizia imbarcandosi per riparare a Malta, dove ieri sono stati presi in custodia.
(Samantha Falciatori)

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