un cronista entrato nell’inferno del Cie di Bari



La Gazzetta del Mezzogiorno, 25 settembre 2009

La bottiglia di plastica appesa al muro serve per la doccia. L’ugello che spruzza acqua sembra quasi un ricordo. Anche le porte del bagno sono ridotte a briciole. Muffa ovunque, pure negli stanzoni dove i letti sono sbrindellati all’interno dell’ex Cpt al San Paolo. Un tempo erano bullonati. "I bulloni li ingoiamo, è l’unico modo per sperare di essere ricoverati in ospedale e uscire da qui", dice uno dei 192 immigrati. Altri sei e il limite massimo, 198, è raggiunto.

Non è affatto scontato che ingoiare ferro significhi garantirsi almeno una radiografia. Anzi. Abdi dice di aver ingerito anche lamette. Niente raggi x. Solo una dieta a base di patate. Un suo compagno di "cella" racconta di aver mandato giù perfino un accendino. Tutto da verificare, d’accordo. Ma perché dovrebbero essere bugie? Che gusto c’è a spararla così grossa? Il destino è segnato comunque, lo indica la parola stessa: Centro di identificazione e espulsione.

Prima accertano se vieni da uno di quei paesi coi quali c’è un accordo di rimpatrio e poi ti cacciano via. Solo che prima l’accertamento doveva avvenire entro 60 giorni mentre da questa estate, da quando è entrato in vigore il Pacchetto sicurezza del governo Berlusconi, l’identificazione può prolungarsi fino a 180 giorni. Sei mesi. Come un pena in carcere. Risultato: gran numero di depressi, ansiolitici a gogò.

Appena fuori dal Cie c’è il via vai delle camionette dei soldati del battaglione San Marco e dei carabinieri. Dentro, il "mini esercito" di 18 operatori dell’Oer San Paolo, l’associazione che è rimasta a gestire la struttura: ha perso la nuova gara d’appalto, assegnata in un primo momento al consorzio "Connecting people"; ha fatto ricorso e l’ha spuntata.

È il giorno dei "consoli per l’identificazione", al Cie del San Paolo, costruito dai Matarrese a uno sputo dalla Cittadella della Finanza e a un tiro di schioppo dall’aeroporto militare dove l’Aeronautica ha fatto costruire il nuovo Cara, il Centro d’accoglienza per richiedenti asilo.

Quando arrivano i consoli il da fare aumenta. In giro ci sono pure gli avvocati. Quelli noti che fanno incetta di mandati entrano e escono con facilità, altri devono fare un’attesa non da poco. Ma a sentire loro, quasi tutti tunisini, algerini e marocchini il problema dei problemi è che gli avvocati spariscono. "Si vedono un giorno, fanno firmare la carta (del mandato, ndr) ma poi li vediamo raramente".

L’aria è cambiata eccome. Non stupisce allora che sui siti internet e su You Tube rimbalzano notizie e immagini di pestaggi. Di rivolte si sa solo quando la polizia fornisce i nomi degli arrestati o degli agenti feriti, come è successo a metà agosto. Certo è che in due, il 4 settembre, hanno dovuto farsi dare punti di sutura per ferite profonde 6 centimetri. "Sono loro stessi a procurarsi le ferite", è la replica di medici e operatori della struttura. Forse perché vale la pena mettere a rischio persino la vita per tentare di cancellare una espulsione rimediata magari solo per un documento scaduto.

C’era il padiglione delle donne. Smantellato. Sono rimasti i materassi per terra. Su un materasso è accovacciato un maghrebino. È lì da due giorni, raccontano i suoi connazionali, e rifiuta il cibo. Bugia anche questa? Per terra anche molti tappeti. Il carcere ha una cappella e un’area moschea, il Cie no. Sicché le coperte vengono stese per pregare. Ce ne vorrebbero altre per coprirsi: niente.

Un ragazzone con gli occhi spenti dice di avere 17 anni. Confessa di aver detto una bugia al giudice spacciandosi per maggiorenne. Troppo tardi, nessuno più si preoccuperà di verificare l’età. Perché c’è il tempo solo per fare in modo che la folla in gabbia non s’inferocisca. Almeno fino all’aereo del ritorno all’inferno.

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