Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

28 giugno 2010

Romeni, immigrati "pendolari" svanisce il sogno di tornare a  casa
Crisi a Bucarest, a migliaia avevano lasciato l' Italia e ora fanno marcia indietro
la Repubblica, 28-06-2010
Vladimiro Polchi
ROMA — Minai ha un biglietto di sola andata. Volo Milano-Bucarest. Un anno e mezzo fa, si è lasciato alle spalle l'Italia per tornare a casa. Addio al duro lavoro da operaio edile, il futuro di Minai è un negozio di pneumatici. Basta vita da immigrato, lontano dalla famìglia, si torna in Romania a. testa alta. Con i soldi fatti in Italia. Ma le cose non filano liscio: il business va male. Colpa della crisi, che colpisce la Romania. Mihai perde denaro, tanto e in poco tempo. C'è solo un modo per salvarsi dal fallimento. Mihai compra un biglietto di ritorno. Destinazione: Italia. Da qualche mese, è di nuovo al lavoro sulle impalcature dell'hinterland milanese.
Quella di Mihai è un'esperienza di rientro in patria fallimentare. Non un caso isolato nella Romania del 2010.Immigrati che tornano a casa.ma non sfondano. Il risultato? Un nuovo flusso di emigranti in partenza: un continuo avanti e indietro, attraverso le frontiere.
Ma chi sono i "romeni d'Italia"? «Sono in assoluto la prima comunità d'immigrati — spiega Carlo Blangiardo, docente di demografia alla Bicocca di Milano e responsabile del settore statistico della fondazione Ismu — con ben un milione e 126mila presenza al primo gennaio 2010. La loro crescita è stata esponenziale, basta pensare che cinque anni prima, nel luglio del 2005, erano solo 437mila. Sono in ltalìa mediamente da sette anni e l'89% di loro è occupato». Dove? «Il 10% fa il muratore e il 26% è impiegato come domestico, badante o babysitter». Non solo. Pochi sanno che a Milano gli operai stranieri sono il 49% degli iscritti alla casa edile e a Roma il 50%. E di questi muratori, la stragrande maggioranza parla appunto romeno.
Come Mihai, migliaia dì connazionali in questi anni hanno fatto a ritroso il viaggio che li ha portati in Italia. Li chiamano "immigrati di ritorno". «Ma molti hanno vissuto esperienze di rientro in patria negative — racconta Antonio Ricci curatore della ricerca "I romeni in Italia" della Caritas—sia per la crisi economica che ha fortemente svalutato il Leu, la moneta romena, sia perché molti spazi erano nel frattempo stati occupati da investitori stranieri. E così molte attività commerciali sono saltate, costringendo a tornare indietro molti immigrati. Insomma — aggiunge Ricci —si assiste a un flusso circolare di lavoratori romeni, in entrata e in uscita dall'Italia». Una conferma arriva dai numeri.
Impossibile stare dietro alle variazioni a breve termine nelle iscrizioni all'anagrafe, anche perché molti immigrati non ottemperano all'obbligo di cancellazione quando lasciano il Paese. «Ma che ci sia un nuovo
flusso in entrata — fa notare Ricci—lo provano i 130mila romeni neoassuntì nel 2009 e la crescita anche quest'anno dei lavoratori autonomi. E ancora: a giugno del 2009 le imprese con titolare romeno erano 28mila, a maggio del 2010 sono diventate addirittura 48mila. E nonostane la crisi, anche nel 2010 sono continuate ad aumentare le rimesse dei romeni dall'Italia. In media, limitandosi ai soli dati ufficiali, mandano a casa 1.200 euro a testa ogni anno».
Il fenomeno del rientro in Italia viene confermato anche da Eugen Terteleac, presidente dell'associazione "Romeni in Italia": «In effetti sono molte le storie di chi non ce l'ha fatta, complice la crisi ;— ricorda — e così vediamo molti connazionale che ritornano in Italia». Secondo Terteleac, in corso ci sono due fenomeni paralleli: «Il flusso di chi torna definitivamente in Romania e quello di chi saluta per la seconda volta amici e familiari e fa rientro in Italia. Due flussi che quasi si equivalgono, tanto che negli ultimissimi mesi — sostiene Terteleac —il loro saldo è vicino allo zero».



Il sociologo Asher Colombo rileva un paradosso: anche le rimesse in patria  finiscono per espellere alte persone dal loro Paese
"Un flusso circolare che non si fermerà"
la Repubblica, 28-06-2010
ROMA — «Quella dei romeni è un'immigrazione circolare». Asher Colombo, insegna sociologia delle migrazioni internazionali all'università di Bologna. Sul rientro dei romeni in Italia ha le idee chiare: «La mobilità tra i nostri due Paesi non ha più vincoli e i lavoratori tornano indietro facilmente quando serve».
I flussi di ritorno sono facilitati dal fatto che i romeni sono cittadini europei?
«Certo, ma non solo. Come si è verificato coi polacchi, nella testa dei romeni il cambiamento è avvenuto ben prima dell'entrata del loro Paese nell'Unione europea. E precisamente, al momento dell'eliminazione dell'obbligo di visto. Da allora quella romena è diventata un'immigrazione circolare, che entra e esce senza ostacoli, anche perché nel frattempo ha creato una rete stabile in Italia».
I flussi dentro-fuori diventeranno dunque una componente stabile di questa migrazione?
«Queste dinamiche fanno parte di tutti i sistemi migratori di prossimità. Comunque in ogni migrazione ci sono i pionieri, i primi ad arrivare, che accumulano denaro, lo spediscono in patria come rimesse e contribuiscono alla ripresa economica del Paese d'origine. Le rimesse finiscono
solitamente nell'educazione dei figli, nella ristrutturazione delle case e in investimenti. L'emigrazione produce dunque sviluppo e questo può ritorcersi contro gli stessi immigrati».
Ci spieghi meglio.
«I prezzi nel Paese d'origine aumentano. L'economia cresce, nonostante la crisi si faccia sempre più sentire. Il mercato viene occupato da altri investitori. E così, soprattutto gli immigrati partiti per ultimi, trovano crescenti difficoltà nel tornare a casa e avviare lì una propria attività. Da qui il moltiplicarsì di esperienze deludenti, con conseguente ritorno in Italia».



Associazioni Azione capillare per reclutare imprenditori stranieri Extrabanca. Il primo istituto nato per agevolare l'accesso al credito
La «rete» multietnica fa sistema
L'immigrazione ha globalizzato la quotidianità e ha ridisegnato i territori più attivi
La Stampa, 28-06-2010
Anna Lucìa Colleo Fabiana Musicco
La presenza stabile di stranieri è un fenomeno strutturale nel nostro paese, che porta con sé un aumento della diversità nella composizione sociale ma anche nei comportamenti economici. Un cambiamento di ampia portata, trasversale, complesso, animato da spinte che non sono localizzate esclusivamente in Italia.
La dimensione locale e quella globale si intrecciano: l'immigrazione porta la globalizzazione nella quotidianità dei territori, costringendoli a ripensarsi per convivere e per ritagliarsi un ruolo nello spazio globale.
I modi e i tempi con cui i sistemi territoriali reagiscono alle sfide insite in questo aumento di complessità sono decisivi per accompagnare i processi in atto verso esiti positivi di sviluppo territoriale e di coesione sociale.
Se ci si sofferma sulla dimensione economica della multiculturalità, il fare impresa degli immigrati è un punto di osservazione eloquente sulla capacità di integrarsi nei sistemi economici locali, sulle sfide che ne derivano e sull'efficacia dei territori nell'offrire le condizioni necessarie perché le persone, italiane e straniere, possano crearvi benessere.
In chiusura di un anno critico come il 2009, Unioncamere fotografa 251.562 ditte individuali gestite da titolari extracomunitari (+ 4,5 sull'anno precedente). In compenso, ci sono 3omila piccole imprese italiane in meno. Le une non sostituiscono le altre, ma certo il dato parla di un capitale umano eccezionalmente intraprendente, che una volta saltato il fosso dell'emigrazione verso un nuovo paese non si dà per vinto.Come ci ricorda il lavoro sui territori raccolto nell'indagine di Nomisma, Union camere e CrifFinanza, in questi numeri si trova un po' di tutto - dalle imprese organizzate e strutturate, alle imprese artigiane, apartite Iva 0 anche imprese fittizie - ma è diffuso il caso in cui il diventare imprenditore rappresenta un salto di qualità per l'immigrato in Italia, che afronte di una contrazioe nell'offerta del mercato del lavoro sceglie di diventare datore di lavoro di se stesso. Sono imprese che vanno a occupare spazi di mercato esistenti e spesso non coperti, con un arricchimento dell'offerta che integra ibisogni di mercato.
Non si tratta però di un processo dagli effetti automaticamente positivi. L'imprenditoria di immigrati è un fenomeno animato da direttrici ambivalenti, che insorge spontaneo ma la cui direzione di sviluppo dipende fortemente dalla capacità di intervenire su quegli aspetti di debolezza che possono fare di questa risorsa un boomerang per i contesti nei quali operano: l'assenza di un'adeguata formazione per la gestione e lo sviluppo del business, il ricorso a reti informali per l'accesso al credito, la mancanza di relazioni strutturate con le associazioni di categoria. Una sfida aperta che riguarda ogni sistema territoriale nel suo complesso e i diversi attori di cui questo si compone.
I territori non hanno risposto in  modo univoco. Alcuni però hanno in comune l'aver messo in campo un approccio integrato, di rete, in cui diversi attori- pubblici e privati - si sono confrontati e hanno cercato convergenze tra gli interessi che rappresentano, trovando soluzioni da cui emerge un sistema e non un insieme di attori che agiscono in isolamento.
Ecco, allora, quattro esempi per raccontare questa Italia in movimento: la provincia di Milano, il sistema regionale del Veneto; Reggio Emilia e Modena. Ognuno sembra considerare la presenza immigrata un dato di fatto, che porta novità con cui fare i conti e da valorizzare.
È difficile viceversa intervenire su un mondo aperto partendo da posizioni di chiusura. Soprattutto se il mondo è già a casa nostra.



INTERROGAZIONE AL MINISTRO DELLA SALUTE SULLA MORTE DI DUE BIMBI EXTRACOMUNITARI

Migrare.ue, 28-06-2010
Nel corso di una riunione tenuta dall’Associazione ItaliaRazzismo presieduta dal Senatore Luigi Manconi alla quale erano presenti, tra gli altri, anche l’On.le Luigi Melis e la Segretaria e Portavoce dell’Associazioni Migrare Shukri Said, tra le varie problematiche discusse, sono stati ricordati i casi dei due bambini extracomunitari, singolarmente vicini nel tempo, nello spazio, nel trattamento ospedaliero e nelle tragiche conseguenze. Rachel, la bambina nigeriana di 13 mesi, è morta nell’ospedale di Uboldo sul Cernusco dopo che inizialmente era stata rifiutata dal Pronto Soccorso ed erano dovuti intervenire i Carabinieri per consentirne il ricovero. Anche un bimbo albanese di 19 mesi è deceduto per essere stato curato con la tachipirina al Pronto Soccorso dell’ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo mentre era in preda a febbre altissima con vomito.
Dalle considerazioni svolte nel corso della riunione, è nata l’interrogazione al Ministro della salute a firma dell’On.le Luigi Melis e dell’On.le Jean Leonard Touadì nei termini che seguono.

Atto Camera
Interrogazione a risposta orale 3-01077
presentata da
GUIDO MELIS
mercoledì 19 maggio 2010, seduta n.324
MELIS e TOUADI. -
Al Ministro della salute.
- Per sapere - premesso che:
nella notte del 3 marzo 2010 una bambina nigeriana di 13 mesi, Rachel, figlia dell'immigrato Tommy Odiase, è stata prima rifiutata dal pronto soccorso dell'ospedale Uboldo di Cernusco sul Naviglio con la motivazione che la tessera sanitaria della bambina era scaduta. Intervenuti i Carabinieri, Rachel è stata quindi finalmente ricoverata in pediatria, dove tuttavia non è stata visitata per molte ore, né le è stata somministrata alcuna cura. Nelle prime ore del mattino, la bambina è deceduta;
negli stessi giorni un bimbo albanese di 19 mesi a Premenugo di Settala è morto dopo essere stato portato al pronto soccorso dell'ospedale Santa Maria delle Stelle di Melzo in preda a una forte crisi febbrile con conati di vomito e qui curato con la prescrizione di una tachipirina (la direzione dell'ospedale avrebbe sostenuto in una nota essere la morte dovuta a un rigurgito);
lungi dall'essere isolati, i due episodi testimoniano una preoccupante carenza di fondo nell'applicazione delle norme vigenti sul diritto alla salute, norme che prevedono l'assistenza medica per tutti, compresi gli stranieri, siano essi in regola o no con il permesso di soggiorno;
il diritto dei minori alla assistenza sanitaria è peraltro espressamente garantito dalla Convenzione ONU per i diritti dell'infanzia, cui l'Italia ha aderito con legge n. 176 del 1991;
peraltro appare allarmante, specie in alcune regioni del Paese, il crearsi di una situazione che fa indebitamente dipendere l'erogazione delle prestazioni mediche dalla regolarità del permesso di soggiorno (come testimonia a contrariis il fatto che talune strutture esibiscano cartelli con sopra scritto «Qui non si chiede il permesso di soggiorno»); così come preoccupano le ricorrenti campagne politiche volte a incoraggiare, se non da parte del personale medico (che in genere si rifiuta di afferirvi) da parte di quello paramedico, la denuncia degli immigrati non regolari che si presentino alle strutture sanitarie -:
tutto ciò considerato, se il Ministro non ritenga di dover fissare, nell'ambito dei princìpi fondamentali di competenza statale, specifiche linee guida onde assicurare su tutto il territorio nazionale in modo certo e uniforme il rispetto del diritto alla salute e quindi l'eliminazione in radice di comportamenti delle strutture e/o del personale medico e ospedaliero suscettibili di dar luogo a discriminazioni ai danni di pazienti stranieri, siano essi comunitari o extracomunitari, escludendo in particolare, per quanto riguarda le cure ai minori accompagnati, la rilevanza di qualunque loro documento, dovendosi ritenere sufficiente l'identificazione dell'accompagnatore con esclusione di alcuna rilevanza della esibizione o meno del permesso di soggiorno. (3-01077)
L’Associazione Migrare ringrazia per il proficuo intervento l’On.le Luigi Melis, l’On.le Jean Leonard Touadì ed il Senatore Luigi Manconi.



Cacciati dall'albergo perchè neri. Scuse da parte del Sindaco

Dottor Sport, 28-06-2010
L'Italia è razzista. Continuano gli episodi razziali contro persone di colore. Una storia poi denunciata ai carabinieri. La settimana scorsa, tre operai senegalesi, in regola con normale permesso di soggiorno e immigrati in Italia da più di 10 anni, sono stati violentemente cacciati da un albergo. «Qui non voglio negri». Questo è quello che i tre senegalesi si sono sentiti dire dal marito della proprietaria della locanda "Alla Pergola", in via Riviera XVIII Giugno a Meolo (Venezia). Una storia di razzismo vero e proprio, sembrerebbe infatti che i tre senegalesi, avessero prenotato regolarmente la stanza, e si sono recati all'albergo dopo aver finito di lavorare. I tre lavorano presso un'azienda di pavimentazioni a Brescia.
Ma una volta arrivati in albergo, il marito della titolare, li ha immediatamente cacciati, urlando e inveendo contro di loro con frasi razziste. Non è la prima volta che in Italia accadono situazioni analoghe. Una volta cacciati dall'albergo, avvenuto mercoledì scorso alle ore 21,30 circa, i tre senegalesi hanno immediatamente denunciato l'accaduto ai carabinieri. Ora le forze dell'ordine stanno indagando cercando di capire quanto sia accaduto.
L'uomo, Giuseppe 74 anni, si è completamente gettato contro i tre senegalesi insultandoli pesantemente. Successivamente il figlio dell'uomo, Massimo Zanin, ha spiegato che il padre è molto anziano ed è malato di diabete, e se ha delle crisi, non riesce a controllarsi e si arrabbia facilmente. I carabinieri intanto indagano. Il figlio dell'uomo ci tiene a precisare che nel loro albergo alloggiano tranquillamente extra-comunitari: albanesi, ex jugoslavi e altri. Giustifica quanto avvenuto con l'avanzata età del padre, e che non si tratta certamente di un segnale anti-razzista. Questo però lo valuteranno i carabinieri.
Ora sono giunte anche le scuse da parte del Sindaco di Meolo, piccolo comune in provincia di Venezia, Michele Basso. “'Chiedo scusa ai tre operai senegalesi a nome di tutta la comunità di Meolo, ma quello che e' successo e' un episodio isolato''. Il sindaco infatti dichiara che non si sarà trattato sicuramente di un episodio razziale ma bensì di un episodio molto isolato, legato all'anzianità dell'uomo.
E' brutto vedere che ancora oggi ci siano persone vittime di violenze e maltrattamenti di carattere razziale contro gli extra-comunitari. I tre senegalesi hanno raccontato ai carabinieri di Meolo quanto avvenuto dicendo che l'umo li avrebbe insultati a causa del loro colore di pelle.



Un'associazione di rifugiati per i rifugiati: Mosaico

NuovaSocietà, 28-06-2010
Susanna Grego
«Quando bussa alla porta un ospite non gradito, fallo entrare lo stesso, ma non offrigli da sedere» recita più o meno così un antico proverbio africano. E descrive abbastanza bene come si sentono i richiedenti asilo quando arrivano in Italia, dopo viaggi pericolosi e lunghi, affrontati per sfuggire alla guerra e alla morte.
Le storie dei richiedenti asilo sono le più diverse. Sono persone come Julie, che prima di arrivare nel nostro Paese ha sopportato tre anni di carcere in Congo per aver manifestato contro il Governo, o Valy, che quando è partito dall'Afghanistan era solo un bambino perseguitato dai Talebani, ed ha attraversato a piedi L'Iran, il Pakistan, la Grecia e la Turchia prima di arrivare in Italia. O come Rasheed che in Kashmir aveva aperto una scuola di informatica e prima di fuggire fu arrestato durante una manifestazione per i diritti della sua terra.
Alcuni di loro hanno deciso a Torino di fondare un'associazione, per aiutare i nuovi arrivati ad orientarsi.
Con questo intento è nata nel 2006 l'associazione Mosaico, su iniziativa di un gruppo di cinque rifugiati. «L'idea era quella di cercare di essere utili per gli immigrati appena arrivati - dice Berthin Nzonza, uno dei fondatori, per aiutarli a superare le stesse difficoltà che abbiamo affrontato noi». Berthin è un rifugiato politico arrivato in Italia da 8 anni dalla Repubblica del Congo. Subito l'idea fu accolta da ricercatori come Michele Manocchi, uno dei fondatori, avvocati e psicologi, e ottenne il sostegno di Amnesty International e della chiesa Valdese. «La nostra finalità è quella di puntare sull'informazione – dice Berthin – perché la cittadinanza ha una conoscenza approssimativa su questo tema, soprattutto in un momento come questo dove si associano le parole rifugiato e occupazione».
L'associazione al momento può contare su uno «zoccolo duro» di 11 soci molto attivi, su ragazzi laureati in sociologia e mediatori culturali che aiutano i rifugiati politici o i richiedenti asilo ad orientarsi nel nostro Paese. Forniscono informazioni su come fare per richiedere asilo politico, su come fare ricorso nel caso che la commissione territoriale rifiuti la richiesta, su dove andare per cercare un lavoro e una casa, accompagnano le famiglie in un percorso di integrazione. Lavorano in stretta collaborazione con l'ufficio stranieri, che indirizza gli immigrato verso la sede di Mosaico, in via Reiss Romoli 45, e la cooperativa La Tenda, che affida a loro chi non riesce a rientrare nel progetto di accoglienza a causa del numero di domande troppo alto. Permettono ai bambini di partecipare ai campi estivi del centro ecumenico valdese Agape. Presto apriranno un centro di documentazione in via Belfiore su questo tema, con saggi, riflessioni e articoli di giornale, utile per chi volesse fare delle ricerche.
Mosaico fa parte del Tavolo del Rifugio del Comune di Torino ed è coordinatrice delle associazioni di rifugiati che aderiscono al progetto «Non solo asilo». Quest'ultimo è un tavolo di co-progettazione formato da rappresentanti del Coordinamento di Associazioni e da rappresentanti del Comune, della Provincia, della Prefettura di Torino e della Regione Piemonte. Ha gli obiettivi di creare una rete di accoglienza e accompagnamento all'inserimento sociale e lavorativo dei rifugiati politici e titolari di protezione umanitaria su tutto il territorio della Regione Piemonte, di accompagnamento e inserimento lavorativo di 150 rifugiati politici e titolari di protezione umanitaria sul territorio della Regione Piemonte, di accompagnamento e inserimento lavorativo di 80 rifugiati politici e titolari di protezione umanitaria sul territorio della Città di Torino e di identificare e ristrutturare uno stabile che rimarrà di accoglienza per i richiedenti asilo, i rifugiati politici e i titolari di protezione umanitaria a Torino, con una capienza per circa 80 persone, in seguito allo sgombero di settembre dell'ex clinica San Paolo di corso Peschiera, dove vivevano circa 300 rifugiati.



La marcia dei cristiani d’Arabia

Filippini, cingalesi, indiani, sono 2 milioni e mezzo i seguaci di Cristo nella penisola culla dell’Islam
La Stampa,28-06-2010
Marco Bardazzi
Il bollettino settimanale della parrocchia di San Giuseppe ad Abu Dhabi, che sorge in mezzo alle moschee e ai grattacieli degli Emirati Arabi Uniti, assomiglia al calendario dei lavori nel Palazzo di vetro dell’Onu a New York. Cinque sacerdoti di nazionalità diverse celebrano Messe in una babele di lingue: inglese, arabo, francese, tagalog, malayalam, urdu, konkani, tamil, cingalese, malankara, talvolta anche in italiano. Il giorno in cui ci sono più celebrazioni non è la domenica, ma il venerdì, la festa settimanale nei paesi arabi: un modo pragmatico per venire incontro alle esigenze degli oltre 100 mila fedeli di 90 etnie diversi che ruotano intorno a una delle parrocchie cattoliche più affollate al mondo, in gran parte domestici e operai che lavorano nelle case e nei cantieri dei facoltosi musulmani locali.
Come a San Giuseppe, la scena si ripete più o meno identica in una ventina di chiese sparse tra Dubai, Oman, Qatar, Kuwait e Bahrein, epicentri di un fenomeno che sta cambiando il volto della Penisola Arabica e del Golfo Persico ed è in qualche modo speculare a ciò che avviene in Europa. Mentre il Vecchio continente ha le cattedrali semivuote e si riempie di moschee e nuove comunità di immigrati musulmani, il boom economico degli ultimi anni sta attirando nei luoghi dove è nato l’Islam centinaia di migliaia di cattolici, soprattutto da Filippine, India, Sri Lanka, Pakistan. «I numeri sono in aumento, nonostante la crisi economica, e sono certo di non esagerare a stimare che nella Penisola Arabica ci siano adesso circa 2 milioni e mezzo di cattolici», spiega monsignor Paul Hinder, che guida il Vicariato d’Arabia della Santa Sede, ormai diventato la circoscrizione ecclesiastica più grande del mondo (sei nazioni con 60 milioni di abitanti complessivi, che coprono oltre tre milioni di chilometri quadrati). E il dato più significativo riguarda non tanto i piccoli emirati del Golfo, quanto il vero colosso della regione, l’interlocutore sicuramente più complesso per la Chiesa cattolica: l’Arabia Saudita. Nel paese che custodisce i luoghi sacri dell’Islam, dove è vietato non solo costruire chiese, ma anche celebrare la Messa, la popolazione di fede cristiana è in rapido aumento.
Dati ufficiali non ce ne sono, ma una serie di stime attendibili sono circolate in occasione di una conferenza su cristiani e musulmani organizzata in Libano dalla Fondazione internazionale «Oasis» di Venezia. Solo i filippini che vivono in territorio saudita sarebbero circa un milione e mezzo, e l’85% di loro è costituito da cattolici. In totale, su 27 milioni e mezzo di abitanti dell’Arabia Saudita, gli immigrati sarebbero oggi oltre 8 milioni, provenienti in gran parte dal sudest asiatico e da altre regioni dell’Asia a forte presenza di cristiani. Un fenomeno che ha preso il via negli anni Novanta – come evidenzia uno studio di Giuseppe Caffulli pubblicato sull’ultimo numero di «Vita e Pensiero», la rivista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – quando il governo di Riad ha deciso di bloccare i visti d’ingresso agli immigrati dello Yemen, il vicino di casa povero degli sceicchi, fino ad allora la tradizionale manodopera per il paese. L’ascesa di Al Qaeda, l’organizzazione del saudita-yemenita Osama bin Laden, aveva fatto temere ai regnanti di Riad un’esplosione dell’integralismo islamico nel Paese, spingendoli a chiudere le porte allo Yemen e ad aprirle alla manodopera «fidata» dei filippini e dei cingalesi. Con la conseguenza, però, di innescare la più vasta immigrazione di cristiani nel cuore dell’Islam quattordici secoli dopo Maometto.
Il vescovo Hinder, un cappuccino svizzero che dal 2005 si è trasferito nel Golfo, è prudente quando si tratta di parlare di Arabia Saudita. «Il clima sta migliorando», si limita a dire. Altre fonti raccontano di segnali quasi impercettibili di maggiore tolleranza, ma sempre in un contesto in cui la polizia religiosa non concede alcuna espressione pubblica di fede che non sia musulmana.
Il paragone tra il cuore del mondo islamico «invaso» dai cristiani e l’afflusso continuo di musulmani verso l’Europa in prevalenza cristiana, secondo Hinder regge solo fino a un certo punto. «Le differenze sono molte - spiega - a partire dal fatto che noi viviamo in Paesi dove l’integrazione non è né lecita, né desiderata. Una larga parte di immigrati musulmani si sta stabilizzando e naturalizzando nei Paesi europei. Non è questo il caso nel Golfo. La gente qui viene a lavorare per qualche tempo, per poi cercare di andare altrove. Di recente, visitando Toronto, ho incontrato tanta gente arrivata in Canada dopo aver trascorso anni di lavoro in Qatar, Bahrein o a Dubai».
Un’altra differenza, secondo i cattolici del Golfo, è che spesso i musulmani d’Europa hanno alle spalle ingenti finanziamenti per costruire le moschee: basta pensare agli investimenti sauditi per costruire luoghi di culto in Bosnia. «Io invece - dice monsignor Hinder - per costruire chiese, quando mi è dato il permesso di farlo, devo ricorrere alla generosità dei miei fedeli. E dire che di nuovi luoghi di culto avremmo un gran bisogno: quei pochi che abbiamo stanno esplodendo».Un'educazione autentica e integrale della persona come via da percorrere per cristiani e musulmani, per liberarsi sia dal «positivismo assoluto» sia dal «fondamentalismo formale». E' stato questo uno dei punti di arrivo del lavoro della fondazione internazionale Oasis, che ha riunito a Beirut una settantina di personalità provenienti da ogni parte del mondo. Il cardinale Angelo Scola, patriarca di Venezia e fondatore di Oasis, ha sottolineato la necessità comune a cristiani e musulmani di valorizzare l’educazione come «incontro di libertà».



Immigrati allo stremo Castel Volturno scoppia

Avvenire.it, 27-06-2010
Paolo Lambruschi
La piccola Africa sta scoppiando. Nelle terre di Gomorra alla vigilia della stagione dei pomodori, dopo i lavoratori fuggiti da Rosarno, la crisi ha riportato molti nigeriani e ghanesi da Spagna e Nord Italia a Castel Volturno, trasformata dai clan dei casalesi in ghetto e serbatoio per spaccio e prostituzione.
In prima fila è rimasta la Chiesa. Che, in una situazione di emergenza costante da almeno 15 anni, si prodiga con la generosità di volontari e operatori nonostante le accuse di "buonismo" dell’inerte amministrazione comunale. Anzitutto al famoso centro di accoglienza "Fernandes", avamposto della speranza della Caritas diocesana di Capua. Un’oasi nello squallore della Domiziana, strada di spaccio e prostituzione con 500 nigeriane vittime di tratta.
Preso d’assalto, con la gente costretta a dormire fuori, ospita ogni giorno 75 persone, 400 pasti, docce, degenza post ospedaliera, propone attività di alfabetizzazione e mediazione culturale col supporto quasi esclusivo di volontari e fondi della Diocesi. Qui operano lo sportello legale del patronato Acli e l’associazione di medici volontari "Jerry Masslo" cui va aggiunto l’impegno delle parrocchie e dei missionari Comboniani e delle diverse ong.
Secondo un rapporto stilato ad aprile per il Viminale dallo Iom, l’organizzazione internazionale dei migranti dell’Onu, gli immigrati in città, su 23mila abitanti, erano 8mila, 3500 dei quali ghanesi, altrettanti nigeriani oltre a quote minoritarie di liberiani, togolesi, ivoriani e burkinabè. Ma chi opera nell’accoglienza, Acli e Caritas, due mesi dopo ne stima 10-12mila.
Basta girare per le villette malmesse e sovraffollate di Destra Volturno per capire che i numeri qui cambiano troppo in fretta. Si entra solo di giorno e i bianchi sono una rarità. Le vie anonime e rotte del rione-ghetto, dove i cani randagi assaltano i cassonetti dei rifiuti stracolmi, sono prive di auto, gli abitanti non possono permettersele. Unici punti di aggregazione, le sale di culto pentecostali, ricavate in negozi dismessi. Nel quartiere "sgarruppato", un letto si trova sempre. A 50, 75 ,o 100 euro al mese, dipende dal numero degli inquilini. Rendono a quei proprietari italiani che non si fanno troppi scrupoli (e poi sfilano contro i migranti) circa 1000 euro mensili in nero. Non tutte hanno acqua, fogna e luce.
La costa è stata scempiata negli anni 70 da 12mila abitazioni, secondo Legambiente abusive. La speculazione edilizia ha inquinato il mare, il turismo è declinato e le case sono rimaste vuote. Nel 1980 le hanno riempite i terremotati sfollati da Napoli. Agli inizi degli anni 90 è toccato agli immigrati. Che, reclutati all’alba dai caporali, vanno a lavorare 11 ore per 20 - 25 euro in nero nei frutteti dell’Agro Aversano o nei campi a Villaricca, Varcaturo e Villa Literno, a raccogliere pomodori e ortaggi.
«Molti sono regolari -spiega Fouad Kerrit, prezioso mediatore culturale tunisino dello sportello Acli che offre assistenza legale al centro "Fernandes" - con un permesso umanitario o sono richiedenti asilo, ma tutti con lavori irregolari in agricoltura. Peggio di tutti stanno gli indiani "invisibili" delle aziende bufaline, quelle che fanno mozzarelle». Costretti secondo lo Iom a vivere segregati nelle stalle con le bestie, sottoposti a estenuanti orari di lavoro.
Chi non ce la fa chiede aiuto al "Fernandes", dove un poster ricorda la grande cantante sudafricana nera Miriam Makeba, "mama Afrika", morta d’infarto dopo un concerto a Castel Volturno e che passò qui l’ultimo giorno della sua vita il 9 novembre 2008.
«Siamo stati lasciati soli dalle istituzioni locali che in più ci attaccano - denuncia con pacatezza il direttore, Antonio Casale - perché sostengono che la nostra carità attira gli immigrati. Che invece vengono perché sanno che qui ci si arrangia. Così crescono i disagi e non si investe sull’integrazione. Gli africani, se restano isolati, non imparano una parola di italiano. Noi facciamo la nostra parte 365 giorni all’anno per accogliere. Ma lo Stato deve riaffermare la legalità».
«La situazione mi preoccupa - aggiunge il presidente delle Acli casertane Michele Zannini, leader nazionale anche di Acliterra - perché la recessione toglie lavoro agli italiani e si rischia che i braccianti romeni, i quali accettano paghe da 15 euro al giorno, estromettano pure gli africani. Temo guerre tra poveri. Eppure non mancherebbero le risorse agricole e turistiche. Ma serve legalità».
La breccia può aprirla l’articolo 600 del codice penale sulla riduzione in schiavitù. Lo Iom, d’intesa con la Procura nazionale antimafia, ha chiesto alla magistratura locale di proteggere gli irregolari che denunciano gli sfruttatori, come fossero schiavi che si ribellano agli aguzzini. Una speranza per questa terra di nessuno «spolpata» cinicamente, come l’Africa.



Milano toglie i sussidi agli stranieri poveri. Ma la Consulta...

l'Unità, 26-06-2010
Italia-Razzismo
Il Comune di Milano, in base alla delibera di giunta 3285/2005, ha tolto il sussidio economico alle persone straniere in condizione di povertà assoluta che, al compimento dei 60 anni, non siano in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo Ce (ex carta di soggiorno). È quanto accaduto a un cittadino salvadoregno residente a Milano, che, sostenuto poi da Asgi e da Avvocati per niente, si è rivolto al Tribunale per “un’azione civile contro la discriminazione” ai sensi dell’articolo 44 del Testo unico sull’immigrazione. E di un episodio di discriminazione, in effetti, si tratta. Secondo quella delibera, infatti, l’ottenimento del sussidio, che richiede il più semplice titolo di soggiorno (il permesso), esigerebbe successivamente ­ quando, oltretutto, la necessità si fa credibilmente più forte ­ un titolo più selettivo. Ovvero la carta di soggiorno. L’illogicità di questa richiesta emerge nitidamente dal seguente paradosso: per ottenere quest’ultimo documento si deve dimostrare la disponibilità di un reddito che, nel caso fosse effettivamente percepito impedirebbe l’ottenimento del sussidio di povertà. La corte costituzionale si è espressa già ripetutamente in materia decretando l’illegittimità del requisito del permesso di soggiorno Ce per l'erogazione di misure mirate a supplire all'incapacità della persona di produrre reddito.
Le sentenze della Corte richiamano il principio di uguaglianza sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo secondo cui: “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione”. Può, l’amministrazione comunale di Milano, ritenersi esentata?



















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