Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

29 dicembre 2010

Somalia, di invisibili di via dei Villini
Nell'ex ambasciata di Roma, 140 prigionieri delle norme Ue
La Stampa, 29-12-2010
FRANCESCA PACI
ROMA -  "Mohamed Ali G., stretto nel giubbino impermeabile senza imbottitura, legge il discorso in inglese dell'ex presidente somalo Siad Barre, 5 gennaio 1987, tre anni esatti dopo la sua nascita. «L'ho trovato lì dentro tra i cartoni, ho dovuto strapparlo a un topo grande così» dice indicando il portone sgangherato a ridosso del patio dove asciuga al pallido sole l'umidità assorbita nella notte senza vetri alle finestre. Da quando nel 1990 lo Stato somalo si è disintegrato in mille guerre civili l'ambasciata di Roma, una palazzina primonovecentesca nell'opulenta via dei Villini, è sospesa in un limbo giuridico e umanitario, terra di nessuno dove da almeno dodici anni trovano riparo i profughi di Mogadiscio. All'inizio i dipendenti in liquidazione hanno provato a organizzare l'accoglienza, ma l'ambizione diplomatica è durata il tempo di realizzare che passata la tempesta non ci sa¬rebbe più stata una patria in cui tornare: l'unica regola oggi è il bisogno e l'unico obiettivo la sopravvivenza.
«Sono arrivato nel 2008 dopo un viaggio di un anno attraverso il Kenya, l'Uganda, il Sudan e la Libia, mi è costato 4000 dollari sbarcare a Lampedusa e ritrovarmi qui» racconta il ventiduenne Abdelkarim A. nell'italiano forbito che ha imparato dal padre insieme al mestiere di autista. La padronanza della lingua lo responsabilizza. È lui a fare strada nelle stanze maleodoranti con tappeti di materassi sul pavimento precario e brandelli di broccato alle pareti. Ogni tanto estrae dalla tasca della felpa la plastica in cui custodisce il libretto verde con la scritta «titolo di viaggio per stranieri", la prova della sua identità apolide. Non può essere espulso come nessuno dei circa trecento che vivono con lui, ma non ha altra collocazione possibile che questa isola extraterritoriale sottratta dai cipressi incolti allo sguardo degli abitanti del quartiere, riluttanti anche solo a camminare sullo stesso marciapiede.
«Tutti i somali che si trovano nell'ex ambasciata hanno il permesso per protezione sussidiaria, quello concesso a chi non ha subito persecuzioni individuali ma proviene da un contesto di guerra e non può essere rimandato indietro» osserva Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, l'organismo delle Nazioni Unite che stamattina invierà alcuni ispettori in via dei Villini. Pur non avendo ottenuto lo status di rifugiato politico, Mohamed Ali e gli altri possono rinnovare il visto ogni tre anni e soggiornare legalmente nel nostro paese, ma solo qui: «Secondo il regolamento Dublino II devono risiedere nella nazione in cui hanno richiesto l'asilo, vale a dire che seppur indigenti questi figli della guerra resteranno in Italia e perciò il governo farebbe bene a investire su di loro e renderli attivi in modo da disinnescare possibili tensioni sociali».
Il veterano Ahmed, arrivato in Sicilia nel 2003, ha provato a bussare alla frontiera svizzera. L'economista Abdul a quella irlandese. Ali è volato fino in Svezia, dove la leggenda vuole che i profughi vengano accolti a braccia aperte. Ma le impronte digitali non lasciano margini alla pietà. Così, zaino in spalla, sono stati tutti rispediti a Roma a dormire nelle stanze senza luce tra le carcasse dei mobili laccati, nella soffitta con la cisterna d'amianto da cui esce l'unico filo d'acqua, nella vecchia Lancia Thema con la targa diplomatica arrugginita come il gazebo del giardino. Said ripiega il tappetino della preghiera acquistato nel bazar di famiglia, sorride e mostra i denti neri traballanti: «Sono nato nel 1986 e non ho mai conosciuto la pace, speravo di trovarla in Italia e poi poterla descrivere a mia moglie e al mio bambino, invece non li sento da tre anni». Alle coperte e alla zuppa cucinata sul tetto con un fornello a alcool provvede la Caritas, ma l'unico telefono immaginabile in questo non luogo a un paio d'isolati dal ministero del Lavoro è quello modello S.I.P. ammucchiato con la macchina da scrivere Olivetti e i taccuini dell'Ambasciata Repubblica Democratica Somala nello scaffale sventrato con il cartello «Dokument 1989-90». La fine del mondo.
A chi compete il destino dei somali di via dei Villini? Se Mogadiscio è un ricordo diafano l'Italia sembra sempre più una chimera impalpabile. «Il Comune di Roma non può intervenire nel recupero dello stabile perché è demanio extraterritoriale, ma sta cercando di agire sulle posizioni individuali» spiega l'assessore alle politiche sociali Sveva Belviso. Secondo la legge i profughi accolti in Italia devono poi intercettare per conto proprio i servizi sociali disponibili. Ma come fanno se parlano solo l'arabo o, nel migliore dei casi, l'inglese? L'invisibilità, ammette la Belviso, è il paradosso di questo buco nero nel cuore della Capitale: «E' probabile che alcuni di loro siano portatori di handicap e abbiano diritto a un sussidio o a cure mediche, ma non lo sanno. Le possibilità di aiuto si perdono così in un infinito circolo vizioso».
«Com'era il mio paese quando piaceva tanto agli italiani?» domanda Mohamed Ali, insoddisfatto dal discorso senza figure di Siad Barre. Aveva dieci anni quando gli americani si ritirarono dalla missione Restore Hope e le immagini che conserva di Mogadiscio sono solo fuoco, sangue, macerie, palazzi sontuosi in rovina un po' come la sua nuova casa romana.



Appello di giornali e Ong. Ma Il Cairo ignora

Avvenire
Paolo Lambruschi
la gente Stampa e opinione pubblica in Israele ed Egitto si mobilitano
La denuncia di un gruppo italiano
DA MILANO -La società civile e l'opinione pubblica in Israele e in Egitto si mobilitano per gli ostaggi del Sinai e per i 27 rilasciati e arrestati nei giorni scorsi. Che, se l'Ue stavolta si assume le proprie responsabilità, possono venire accolti nel Vecchio Continente. Insomma comincia ad esserci una presa di coscienza nei due stati alle cui frontiere si svolge l'ignobile traffico di persone. In Israele, paese di destinazione di centinaia di  migranti africani in fuga, il principale quotidiano «Yedioth Ahronoth», che poco più di un mese fa aveva già dedicato un lungo servizio all'inferno del Sinai, ha rilanciato ieri in prima pagina la denuncia del gruppo italiano Everyone, che da giorni sostiene di aver individuato i luoghi di detenzione, uno nei dintorni di Rafah, l'altro nella Striscia di Gaza.
La notizia ha spinto 13 organizzazioni egiziane per i diritti umani a lanciare un appello al governo affinché rompa il silenzio sulla vicenda protestando contro gli arresti. Le Ong riportano anche nuove testimonianze. Uno degli ostaggi ha raccontato loro di essere detenuto, insieme ad altri 15 eritrei, in un container di metallo e di essere nutrito a pane e acqua salata. I trafficanti, che reclamano dai 3000 agli 8000 dollari a testa, inoltre, li spostano in continuazione. Il governo egiziano però continua a ignorare le informazioni. Il ministero degli Esteri nei giorni scorsi ha parlato di «campagne mediatiche per provocare l'opinione pubblica» su una vicenda che non ha trovato «finora nessuna conferma».
Secondo le organizzazioni, il governo starebbe violando la stessa legge egiziana del maggio 2010 contro il traffico di esseri umani. «Lo Stato -ricorda in un comunicato il cartello di ong che opera nella cura dei rifugiati e nella loro tutela giuridica - è responsabile della persecuzione dei criminali e deve offrire protezione alle vittime, oltre a fornire loro cure mediche, psicologiche e sociali e garantire i loro diritti». L'esatto contrario di quanto è accaduto e sta accadendo. C'è di più. Il regolamento attuativo della legge datato 30 novembre, emanato con decreto dal primo ministro egiziano, obbliga polizia e magistratura a indagare e il governo aprovvedere ai rimpatri solo se que¬sti non mettono a repentaglio la libertà o la sicurezza personale, come impone la Convenzione sui rifugiati siglata dall'Egitto nel 1981. Anche Everyone ha lanciato l'allarme sulla sorte dei 27 arrestati. «È imminente la loro deportazione nei Paesi d'origine, dai quali i profughi sono fuggiti per crisi umanitarie, persecuzioni e genocidi - denuncia l'organizzazione umanitaria - deportarli vorrebbe dire ammazzarli, istituzionalizzando una persecuzione e rendendo vano ogni loro sforzo di sopravvivenza in tutto questo tempo». Everyone rivolge un appello urgente all'Alto Commissario Onu per i rifugiati Antonio Guterres. «È fondamentale agire tempestivamente affinché i 27 profughi arrestati dalle autorità egiziane siano immediatamente messi in contatto con i referenti dell'Acnur al Cairo, per valutare con attenzione l'opportunità per ognuno di richiedere asilo come rifugiati all'Europa e intraprendere tutte le procedure atte al loro eventuale immediato trasferimento in alcuni Stati membri. In proposito il Rapporteur sul reinsediamento dei rifugiati nell'Ue Rui Tavares ha già manifestato la disponibilità dell'U-nione europea di accogliere i migranti per  fornire loro assistenza e protezione».



Appello di 11 Ong egiziane: «Basta silenzio sui migranti Il governo deve salvarli»

l'Unità, 29-12-2010
U.D.G.
Roma - Il Muro dell'indifferenza comincia a incrinarsi. Undici organizzazioni egiziane per i diritti umani hanno espresso ieri la loro indignazione per il silenzio del governo in merito alla vicenda degli ostaggi africani detenu¬ti nel Sinai da trafficanti che li sottopongono a torture e violenze per ottenere un riscatto di migliaia di dollari, e hanno lanciato un appello affinché intervenga immediatamente per salvarli. In un comunicato, le Ong fanno sapere di aver contattato uno degli ostaggi eritrei che ha affermato di essere, insieme ad altri 15, detenuto da un gruppo di beduini in container di metallo per non aver pagato la somma pretesa (tra i 3000 e gli 8000 dollari a testa). «L'ostaggio ha aggiunto che i rapitori gli forniscono due pezzi di pane e acqua salata e che cambiano continuamente il luogo di detenzione in diversi luoghi del Sinai, dove centinaia di migranti africani (eritrei, etiopi, sudanesi e somali) vengono torturati da oltre sei mesi», aggiunge il comunicato. «Mentre si moltiplicano i resoconti delle atrocità subite dagli ostaggi, il governo egiziano rifiuta ancora di riconoscere queste informazioni e di prendere le misure necessarie per arrivare a queste persone e salvarle», affermano le Ong.
ODISSEA CONTINUA
Sono ancora 300 gli eritrei, partiti dal loro Paese per un viaggio pagato a caro prezzo e pericoloso verso Israele - meta privilegiata dopo che le rotte dell'immigrazione dalle coste libiche sono state interrotte -, ma che da oltre due mesi si ritrovano nelle mani di predoni senza scrupoli che pretendono, a suon di violenze, stupri e torture, il pagamento di migliaia di dollari per lasciarli andare. Fonti della polizia egiziana hanno riferito all'Ansa di aver ricevuto l'ordine di non sparare e di arrestare i migranti che vengono rilasciati dopo pagamento del riscatto - che l'Egitto accusa di immigrazione clandestina - per poi interrogarli nel tentativo di carpire maggiori informazioni. Così è stato per i 27 africani (eritrei, etiopi e sudanesi) rilasciati nei giorni scorsi dai beduini: arrestati dalla polizia egiziana, gli immigrati sono poi stati consegnati alle loro rispettive ambasciate al Cairo. «È imminente la loro deportazione nei Paesi d'origine, dai quali questi profughi sono fuggiti per crisi umanitarie, persecuzioni e genocidi», denunciano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti dell'organizzazione umanitaria EveryOne, che segue sin dall'inizio l'intera vicenda degli oltre 250 profughi ostaggio dei trafficanti di esseri umani nel Sinai. «Questi innocenti, per fuggire da Etiopia ed Eritrea, hanno affrontato un estenuante viaggio nel deserto, toccando anche i confini libici, venendo ripetutamente respinti. Al-la fine sono approdati in territorio egiziano e sono stati consegnati ai trafficanti beduini Rashaida collusi con Hamas e con la Muslim Brotherhood, che li hanno sottoposti a spietate estorsioni e tremendi abusi, tra cui stupri e torture. Deportarli nei rispettivi Paesi di origine - denuncia EveryOne - vorrebbe dire ammazzarli, istituzionalizzando una persecuzione e rendendo vano ogni loro sforzo di sopravvivenza in tutto questo tempo».?



L’Egitto ammette: sono 300 gli ostaggi eritrei

Avvenire, 29-12-2010
Paolo Lambruschi
Dopo 35 giorni crolla il muro di gomma eretto dalle autorità egiziane attorno al sequestro degli eritrei ed emergono nuove, importanti prove sull’inferno del Sinai. La stessa polizia egiziana e fonti a Rafah vicine agli stessi trafficanti, i clan beduini Rashaida, hanno confermato all’Ansa e ad altre agenzie occidentali la presenza dei 300 ostaggi. Inoltre gli arresti effettuati nel deserto nei giorni scorsi dal­le autorità egiziane riguardano ostaggi rilasciati prima di Natale dai rapitori dopo il pagamento del riscatto. Appurata anche l’enorme entità del traffico.
Ma i banditi restano impuniti. Ieri è stato chiarito il numero delle perso­ne catturate dalla polizia. Si tratta di 27 migranti africani, fermati nel deserto in due riprese. Il primo gruppo, composto da otto eritrei e sette etiopi, è stato arrestato tre giorni fa, mentre il secondo, di sette eritrei, tre sudanesi e due etiopi, è stato fermato lunedì alla frontiera con Israele. Confermato che i 300 eritrei sono ancora in mano ai banditi. Circa 80 provengono dalla Libia, dove alcuni erano stati respinti nel Mediterraneo dalle nostre motovedette. Gli altri arrivano dall’Eritrea attraverso il Sudan.
Sono stati tutti venduti da una banda di trafficanti senza scrupoli all’altra, come abbiamo appreso in questo mese ascoltando le testimonianze di ostaggi rilasciati, dei parenti e della suora comboniana Azezet Kidane, che ha curato i superstiti giunti in Israele. I predoni hanno inoltre imprigionato 900 migranti di altre nazionalità – sudanesi, etiopi, somali – i quali hanno pagato le somme richieste e aspettano di poter tentare l’ingresso in Israele. In tutto sono coinvolte 1200 persone, è la conferma che nel Sinai è in corso da tempo un giro d’affari criminale di svariati milioni di dollari sulla pelle dei disperati del pianeta. Durante la detenzione in baracche e container interrati hanno tutti subito torture e violenze, le donne sono state abusate.
Un trattamento disumano condito da minacce di morte e di espianto di reni. Per contattare l’esterno e raccontare l’orrore, ai rapiti è stato lasciato il telefono cellulare per accelerare i pagamenti del riscatto via Western Union a emissari della banda al Cairo e a Gerusalemme. Ad eritrei ed etiopi è toccato il trattamento peggiore, come confermano le testimonianze raccolte ieri, come vendetta per l’uccisione di un carceriere durante un tentativo di fuga di 25 di loro, conclusosi tragicamente con l’assassinio di sei eritrei. Ribadito infine che almeno otto ostaggi sarebbero stati uccisi dai trafficanti, una decina di uomini bene armati che cambia spesso i luoghi di detenzione. La polizia egiziana continua comunque a non intervenire per catturare i mercanti di schiavi, anzi.
L’ultima volta che intervenne, ad agosto, aprì il fuoco su un gruppo di eritrei imprigionati a Rafah e lasciò impuniti i car­nefici. Stavolta ha ricevuto l’ordine di non sparare e limitarsi ad arrestare i migranti rilasciati per immigrazione clandestina. Alle vittime il governo del Cairo, delle quali fino a ieri ha negato perfino la presenza nella zona al confine con Israele, lascia la vita, ma riserva una beffa atroce. I profughi arrestati vengono consegnati alle rispettive ambasciate dei paesi di provenienza per il rimpatrio immediato, che può voler dire galera e morte.
Le forze egiziane sostengono di non poter intervenire nel Sinai riparandosi dietro il Trattato di pace con Israele che impedisce di introdurre armi pesanti e blindati nella zona di frontiera. I Rashaida disporrebbero invece di armi sofisticate, acquistate dai sudanesi come contropartita per il traffico di esseri umani. La notizia degli arresti ha intanto allarmato la diaspora eritrea, nella quale proseguono le collette per pagare i riscatti, che i predoni pretendono vengano rateizzati per non venire identificati. «Lunedì ho sentito mio fratello dal Sinai – dichiara H., rifugiato eritreo che vive in Svizzera – e non mi ha detto nulla. Ho sentito anche altri parenti, noi continuiamo a pagare e a sperare». Ieri il sacerdote eritreo Mosè Zerai ha contattato gli ostaggi. «Non sanno nulla, mi chiedevano di fare presto a pagare per liberarli.
Chiediamo al governo egiziano di consegnare i profughi nelle mani dell’Acnur e non alle ambasciate che li potrebbero rimpatriare. Ma questo potrà accadere solo se l’Europa dimostra fattivamente di essere disposta a dare asilo a queste persone. Mi preoccupa la sorte di chi non può pagare, un gruppo di almeno 15 persone che comprende sei donne, tre in stato di gravi­danza ». L’odissea nel deserto, insomma, è
tutt’altro che finita.



E' ancora caos sui test di italiano per gli immigrati

Prova indispensabile  per le «carte» di soggiorno
La Stampa, 29-12-2010
MARIA TERESA MARTINENGO
TORINO - I primi test si dovrebbero fare entro il 9 febbraio, entro i 60 giorni previsti per legge, dall’inoltro della domanda: le norme per certificare il livello A2 di conoscenza dell’italiano da parte degli immigrati che richiedono il permesso di «soggiornanti di lungo periodo», sono entrate in vigore il 9 dicembre. In prima battuta, l’immigrato inoltra la richiesta per l’ex carta di soggiorno alla posta, poi - se non dispone di titoli che attestino le sue abilità linguistiche - digita la domanda di test in testitaliano.interno.it. La prefettura provvederà a convocarlo.
Fin qui le regole. Di qui in avanti ancora numerose incertezze, mentre tra gli immigrati cresce l’ansia. Prima di Natale al CTP Parini di Porta Palazzo ci sono stati momenti di tensione nella lunga coda delle persone in attesa di iscriversi ai corsi di italiano. Tanto che la polizia ha chiesto di accogliere tutte le domande. A Torino, l’Ufficio Scolastico Provinciale ha sottoscritto con la Prefettura una convenzione per l’utilizzo dei 16 Centri Territoriali Permanenti per l’educazione degli adulti del territorio: sono parte del sistema dlel’istruzione statale, saranno sede di test e rilasceranno la certificazione. Alessandro Militerno, direttore dell’USP, spiega che «ogni provincia procede in maniera autonoma, ma coordinata a livello regionale.
Ci sarà abbinamento tra codice di avviamento postale del richiedente e CTP. Ora si sta procedendo ad una “reticolatura” in modo da realizzare gli abbinamenti migliori in termini di collegamenti stradali e di effettiva prossimità». Ancora: «I dirigenti scolastici dei CTP hanno preso visione della convenzione per lo svolgimento delle prove e l’hanno siglata. Speriamo che la collaborazione possa svolgersi al meglio. Certo, molto dipenderà dalla quantità di persone coinvolte». Il numero di quanti dovranno certificarsi non è ancora prevedibile. L’unico dato su cui ragionare sono le 5000 richieste di carta di soggiorno inoltrate alla Questura lo scorso anno.
Intanto, ai docenti dei CTP, come ai sindacati, la «questione test» - discussa insieme il 22 dicembre - appare complessa. I segretari regionali Carlo Mini (Flc-Cgil), Enzo Pappalettera (Cisl Scuola) e Diego Meli (Uil Scuola) hanno chiesto un incontro urgente con la Direzione Scolastica Regionale. «Le scuole - spiega Pappalettera - hanno già chiuso la programmazione annuale, gli insegnanti hanno l’orario saturato. Trovare spazi per i test - 20 minuti a persona - non è facile, si può fare solo se i collegi modificano la programmazione. Poi, nessuna attività aggiuntiva si può fare senza consenso dei singoli e compenso aggiuntivo».
Mini: «Siamo favorevoli al riconoscimento della ventennale competenza dei CTP in questa materia, anche se il test rientra purtroppo nella logica della “sicurezza”. Nel 2009, su 31 mila iscritti ai CTP del Piemonte, 17 mila erano immigrati che volevano la licenza media o il diploma. E siccome esistono lunghe liste d’attesa, non si può pensare ai test senza potenziare l’offerta di corsi per chi deve raggiungere il livello A2». Aggiunge Pappalettera: «Devono anche essere riviste le certificazioni rilasciate fin qui: spesso includono già il livello A2». Roberto Urbano del CTP Drovetti: «Noi abbiamo 250 persone in lista d’attesa. Sono tantissimi gli immigrati in cerca di luoghi in cui imparare l’italiano o diplomarsi. E spesso i CTP li dirottano su corsi del volontariato tenuti da docenti in pensione. Tanto che abbiamo avviato forme di collaborazione».



Impresa, è il romeno la lingua dell'edilizia

Il presidente Iulian Frincu: "Dai nostri concittadini il 70% del lavoro nei cantieri. Siamo parte della storia di questo territorio". A Torino un consorzio con quaranta aziende
la Repubblica, 29-12-2010
ERICA DI BLASI
"La lingua dei cantieri ormai è il romeno". Gli immigrati che arrivano a Torino si sono un po' alla volta concentrati nel settore dell'edilizia. "È nata così, nel 2006, l'idea di radunarci in un consorzio - spiega il presidente e fondatore Iulian Frincu -. Si tratta di artigiani e imprese romeni che da anni svolgono a Torino per conto proprio lavori legati all'edilizia. Grazie al consorzio riescono più facilmente ad aggiudicarsi lavori importanti, sia nel pubblico che nel privato". Un'alleanza forte anche nel nome: "Certo" è l'acronimo di Consorzio imprenditori edili romeni di Torino. Oggi raccoglie sotto di sé 40 imprese romene che operano nell'edilizia. "I nostri soci - racconta Frincu - coprono un po' tutte le specializzazioni, dagli scavi agli isolamenti acustici fino al restauro di intere facciate. Non mancano decoratori, piastrellisti, muratori e falegnami. Ultimamente siamo anche entrati nel campo degli impianti fotovoltaici". Mai come in questo caso vale il detto "l'unione fa la forza".
Facendo parte di una struttura più grande è più semplice, per esempio, ottenere dei prestiti dalle banche. "Oppure  -  suggerisce il presidente - comprare l'attrezzatura della quale si ha bisogno. Ma il vantaggio più importante che ti dà il far parte di un consorzio è la sicurezza: riesci a eliminare tutta la catena di subappalti che, a volte, come piccolo imprenditore sei costretto ad accettare. Ormai il 70% dell'edilizia italiana è fatta dai cittadini romeni: purtroppo però tanti lavori vengono affidati in sub-sub-sub-sub-appalti, senza nessuna forma di tutela per l'artigiano".
Con il tempo il raggio d'azione del consorzio si è esteso: prima Torino, poi il nord d'Italia. "Faccio fatica - commenta il presidente - a conteggiare il contributo dato in occasione delle Olimpiadi Invernali. Senza contare la "routine": centinaia di edifici testimoniano ogni anno il lavoro delle squadre di costruttori romeni presenti in Piemonte. Al punto che attraverso il lavoro che portiamo avanti, ci sentiamo a tutti gli effetti parte della storia edilizia di questa zona". Con un ritorno alla Romania: sono ormai due anni infatti che le aziende straniere partecipano e spesso vincono le gare d'appalto nel loro paese d'origine. "Proprio in questi giorni per esempio  -  dice il presidente - le nostre imprese stanno ultimando il teatro estivo di Bacau, la città da cui proviene la maggior parte dei rumeni immigrati a Torino".
Non mancano i riconoscimenti: nel gennaio 2007, alla Dieffe Coperture Srl è stato assegnato il Mercurio d'Oro, un premio che viene attribuito in Nord Italia per sottolineare il contributo dell'impresa vincitrice allo sviluppo economico e sociale del Paese. A dare il la al consorzio è stata proprio l'impresa di Frincu. Nel 1998, dopo 3 anni in Italia, ha aperto la partita Iva e insieme a un socio fondato una snc. "Allora - ricorda Frincu - avevo l'ufficio in macchina e pagavo una signora perché mi facesse i preventivi. Oggi tra artigiani e dipendenti siamo circa 150 persone: ben 144 sono romeni. Ormai si è formata una rete: siamo quasi tutti imparentati tra di noi. Chi ha portato il fratello, chi il cognato, chi ancora il cugino. Con gli altri siamo diventati parenti qui, vivendo insieme in Italia".



Stranieri, da Prato via 485 milioni di risparmi

La stima pro capite annua è di 16.760 euro, nella provincia di Firenze solo 2.698. Dal senese la cifra più bassa: 779 euro. Più del 50% delle rimesse toscane verso i paesi d'origine viene dalla capitale del tessile. Usare queste risorse per i consumi interni o per degli investimenti significa poter costruire un progetto di vita nel nostro paese attraverso l'integrazione
la Repubblica, 29-12-2010
ROSA SERRANO
Più della metà delle rimesse degli stranieri che vivono in Toscana provengono dalla provincia di Prato. E' questo il dato più significativo che emerge dall'indagine effettuata dalla Fondazione Leone Moressa sulle somme di denaro che gli immigrati toscani hanno inviato lo scorso anno alle famiglie nei paesi d'origine. Se a queste rimesse aggiungiamo quelle provenienti dalla provincia fiorentina, si rileva che il 79,1% degli invii di denaro all'estero sono concentrati in queste due province.
Gli immigrati pratesi hanno trasferito all'estero 485 milioni di euro (il 52% dello stock complessivo), mentre quelli fiorentini con 253 milioni di euro si sono attestati a quota 27,1%. Seguono le rimesse provenienti dalla provincia di Pisa con 35 milioni di euro (3,8%), dalla provincia di Arezzo con 30 milioni di euro (3,3%) e di Lucca con 28 milioni di euro (3%). Fanalino di coda Massa Cararra con 14 milioni di euro (1,5%). E' opportuno sottolineare che i dati utilizzati per la ricerca fanno riferimento alla statistica ufficiale fornita dalla Banca d'Italia; le rimesse si ascrivono, quindi, ai trasferimenti transitati per i canali di intermediazione regolare (banche, poste, agenzie), mentre non considerano i canali informali. Tra questi si possono annoverare i canali familiari, dei conoscenti, i corrieri e i sistemi di trasferimento non registrati. Per determinare la somma di denaro che ciascun straniero porta fuori dal circuito nazionale, l'indagine ha fatto riferimento al numero di residenti stranieri regolarmente iscritti all'anagrafe.
Anche in questo caso, nell'ideale classifica regionale, al primo posto troviamo la provincia pratese dalla quale è stato stimato che mediamente ciascun residente straniero invia fuori dall'Italia 16.760 euro, segue la provincia fiorentina con 2.698 euro e quella livornese con 1.376 euro. La rimessa procapite meno elevata è stata assegnata alla provincia di Siena con 779 euro. "Da alcuni studi - spiega Valeria Benvenuti, ricercatrice della Fondazione Leone Moressa - è emerso come i cinesi siano gli immigrati che più di altri destinano al proprio paese di origine le somme maggiori guadagnate in Italia; quindi è molto probabile che la maggior parte del volume delle rimesse provenienti da Prato siano destinate proprio in Cina, dal momento che il 38,2% degli stranieri residenti è cinese".
I 934 milioni di euro che sono usciti dalla Toscana nel 2009 e che costituiscono lo 0,9% del Pil, fanno riflettere su quanto denaro prodotto nel territorio non sia stato speso e investito nel territorio di residenza degli immigrati. Valeria Benvenuti evidenzia che per poter contare su queste risorse per i consumi interni e per i processi di investimento, è necessario che gli immigrati siano nelle condizioni di costruire un progetto di vita nel nostro paese, anche attraverso la realizzazione di un processo complessivo di integrazione sociale, economica e lavorativa.



"Niente rinnovi, mancano le ricevute"

A Prato, Pistoia e Lucca gli uffici postali non accettano le domande per i permessi di soggiorno. Esposto in Procura
Stranieri in Italia, 28-12-2010
Roma – 28 dicembre 2010 - Impossibile chiedere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno a Prato, Pistoia e Lucca. Da quasi due settimane, gli uffici postali delle cittadine toscane hanno esaurito le ricevute per le domande, così rimandano indietro gli immigrati anche se hanno già compilato i moduli.
Un problema già verificatosi in passato in altre zone d’Italia, contro il quale punta il dito il Comune di Prato. ''Gli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio – si legge in una nota dell’amministrazione - rischiano gravi sanzioni per inadempienze non proprie, fino al licenziamento, come prevede la legge Bossi-Fini, trovandosi paradossalmente nella situazione di irregolari sul territorio italiano''.
Giorgio Silli, assessore comunale all’ immigrazione di Prato, ha inviato un esposto alla Procura, alla prefettura, al ministero dell'Interno, ai carabinieri, alla questura, e all'Anci. Chiede che “Siano accertati i fatti e sollecitati gli uffici competenti alla soluzione immediata del problema, viste le sue gravi conseguenze”.
Contattata dal Comune, la direzione provinciale di Poste avrebbe spiegato che “si tratta di un problema di approvvigionamento degli uffici, accaduto in varie regioni italiane (citando per esempio Milano e Prato), poiché non sono stati riforniti adeguatamente i depositi regionali”. “Un fatto gravissimo,- si legge ancora nell’esposto -  specialmente perché Poste riveste il ruolo di incaricato di  pubblico servizio. È inaccettabile”.



Immigrati indigenti e clandestini. Tribunale non espelle

Aduc, 28-12-2010
Il pm di Milano Claudio Gittardi, richiamandosi a una recente sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato non punibile il clandestino che non ha reiteratamente ottemperato all'ordine di espulsione perche' in stato di indigenza, ha disposto la scarcerazione di due giovani egiziani clandestini, rimasti in Italia nonostante due provvedimenti di allontanamento firmati dal questore.
I due egiziani, di 21 e 18 anni, erano stati fermati dalle forze dell'ordine a Milano, durante un controllo di routine, ed erano stati arrestati perche' destinatari di un ordine di lasciare il Paese, a cui non avevano ottemperato gia' una prima volta in passato.
Il pm di turno ha, pero', deciso di disporre la loro scarcerazione, in applicazione della sentenza n.359 del 13 dicembre scorso della Consulta che, 'bocciando' una delle norme del pacchetto sicurezza, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'articolo 14 comma 5 quater del testo unico sull'immigrazione, cosi' come modificato da una recente legge del governo Berlusconi (la 94 del luglio 2009). In base all'articolo del 'pacchetto sicurezza', in sostanza, il clandestino, colpito piu' volte da ordine di espulsione, e' punibile anche se ha un motivo che possa giustificare la sua permanenza in Italia.
La Consulta con la sua decisione, invece, ha decretato che non e' punibile lo straniero che in 'estremo stato di indigenza', o comunque per 'giustificato motivo', non ha reiteratamente ottemperato all'ordine di allontanamento del questore, continuando a rimanere illegalmente in Italia. E nel caso dei due egiziani, il pm di Milano ha valutato che i giovani avevano giustificati motivi che non gli consentivano di lasciare il Paese, tra cui lo stato di indigenza economica in cui si trovano.



Da Emiliano a Schittulli l'immigrazione è tabù

La Gazzetta del Mezzogiorno, 29-12-2010
Gianluigi De Vito
Il Capodanno dei Popoli incrocia l’Alba dei Popoli e alza il sipario su Pane Nostro, ultimo lavoro dell’intellettuale bosniaco Pedrag Matvejevic (Breviario mediterraneo; Epistolario dell'altra Europa; Mondo ex; Il Mediterraneo e l'Europa; Lezioni al Collège de France; I signori della guerra). Lo slavista parteciperà anche alla proiezione in prima nazionale del documentario Mediterraneo, una Nuova Frontiera, del regista Maurizio Panici e girato nel Salento la scorsa estate grazie anche alle comunità di immigrati. Tutto questo a Lecce e Otranto. Naturalmente. Le iniziative sono della Provincia di Lecce (centrodestra) e del Comune di Otranto (centrosinistra). Lì si dialoga a prescindere dai colori politici. Di più: lì il terreno della convivenza è continuamente innaffiato.
E da noi? E nella città capoluogo che sulla carta ha il doppio di stranieri residenti (34.229) rispetto a Lecce (15.770)?
Bari non è capace di andare oltre un ecumenismo bottegaio in salsa nicolaiana. I pochi percorsi multiculturali e interculturali sono finiti alla deriva perché senza ossigeno economico. Della morte del festival musicale interreligioso «Le Voci dell’Anima» si è detto martedì scorso. Ma non è l’unico necrologio interculturale che negli anni hanno dovuto scrivere sia l’amministrazione comunale guidata da Michele Emiliano sia i due assessori, all’Accoglienza, (di chi? visto che di immigrati si occupano in altri uffici), Fabio Losito, e al Welfare, Ludovico Abbaticchio. Convegnucci, brindisi di fine ramadan, torneucci di calcio (che finiscono in rissa). E comunque tutte manifestazioni «patrocinate», sostenute cioè coi pochi spiccioli che è dato sottrarre alle casse e senza fare troppo rumore per non suscitare la levata di scudi politica qualora si dovesse pensare ai nuovi cittadini più che ai «murattiani» o ai «poggiofranchini».
Il governo ha stretto i cordoni della borsa a tutti gli enti locali, Provincia di Lecce e Comune di Otranto compresi. Ma lì la camera di socialità resta aperta anche senza elargizioni centrali. Qui l’immigrato continua invece ad essere considerato né straniero né cittadino. Praticamente fuori luogo. La ragione non va ricercata solo nel recinto politico. Vero. Ma la memoria lunga dice che le amministrazioni di centrosinistra, fatta eccezione per i rom, hanno per certi versi fatto peggio di quelle di centrodestra.
Proviamo a ricordare. L’allora assessore ai Servizi sociali, Filippo Melchiorre (giunta Di Cagno Abbrescia) chiuse la Consulta comunale degli immigrati con la motivazione che i rappresentanti non la utilizzavano in maniera da giustificare il costo di una sede. Con l’Emiliano Primo, l’assessore Pasquale Martino riuscì a far sedere di nuovo insieme i rappresentanti stranieri di tutte le comunità e diede loro parola sulla programmazione e la gestione. Si passò all’altro eccesso: vinse la deriva comunitarista per cui sindacati e organizzazioni «per» ma non «di» immigrati, furono tenuti fuori. Con l’Emiliano Secondo, l’assessore «al verde» (cioè senza fondi), Fabio Losito, non ha neppure tentato di mettere in piedi qualche iniziativa istituzionale (fosse solo una) che rendesse visibili a Palazzo di città i rappresentanti degli immigrati. Abbaticchio non è stato da meno.
Vi ricordate la Festa dei popoli organizzata dai missionari comboniani all’inizio dell’estate? Esordì con l’avvento della Primavera pugliese del ticket Vendola-Emiliano. Le associazioni hanno provato a farla sopravvivere trasferendola nel villaggio rom di Japigia. Niente da fare: le famiglie rom si sono indebitate per pagare palchi, salsicce e birre offerte gratis a tutti (i baresi). Ma i debiti hanno vinto e la festa dei popoli versione rom è morta anch’essa. Eppure la scelta fu fatta in sintonia con le politiche di inclusione che Emiliano ha fatto nei confronti dei rom romeni, stanziali a Bari ormai dal 2000. Ma solo verso di loro, verso i rom romeni. Perché l’altra comunità rom, bosniaca, stanziale anch’essa da 15 anni (80 persone, metà delle quali bambini, molti inseriti a scuola) e collocata a metà tra le «frontiere» di Bari e Modugno, resta un problema. Mal tollerati dagli imprenditori di via Milella, i bosniaci saranno trasferiti di nuovo a Modugno. E lì, pensare a una villaggio rom sul modello di Japigia, sarà un’utopia. Tanto più che nella città ecumenica nicolaiana non abbiamo un alto prelato come il cardinale Tettamanzi capace con un solo gesto (la visita di Natale al campo rom milanese di via Triboniano) di svilire l’odio antizigano e di ricordare ai rappresentanti delle istituzioni di affermare sempre e ovunque il diritto alla vita.
Vale la pena ricordare che a parte i boy scout e qualche prete-contro, anche il villaggio romeno di Japigia è da tempo fuori dalle attenzioni di Emiliano, Losito e Abbaticchio, quanto meno dalle attenzioni che ora necessitano per sostenere l’attività d’impresa dell’unica cooperativa rom romena, «Artezian». E allora non resta che attendere la fine dell’anno e l’alba del nuovo fuori confine. Il Capodanno salentino dei Popoli vive e vegeta al di là dei contributi, al di là dei colori politici. D’altra parte, lì non hanno un presidente della Provincia come Francesco Schittulli che la parola immigrazione non l’ha mai pronunciata nei discorsi ufficiali. Tanto meno nelle scelte decisionali.








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