Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

23 settembre 2011

 

Stop arrivi: Lampedusa sulle barricate
Nella notte la prima vittoria: un barcone va a Porto Empedocle
La Stampa, 23-09-2011
NICCOLÃ’ ZANCAN
Passa la madonna di Porto Salvo e arrivano altri ragazzi dal mare, altre facce stravolte, altre bocche da sfamare. Ancora una volta succede tutto insieme, dentro una serata di luce stupenda, piena di preghiere da ogni parte dell’orizzonte. Alle sei l’isola è quasi svuotata. L’ultimo aereo militare, carico di immigrati tunisini, lascia la sua scia sulla processione per la santa patrona di Lampedusa. L’intero paese cammina nella via centrale fra urla propiziatorie, inginocchiamenti e rosari stretti in pugno. Ci sono autorità, ufficiali in alta uniforme, tacchi alti, quattro preti in prima fila. E ci sono, fra gli altri, i quaranta lampedusani della rivolta di mercoledì mattina, quando con botte, sassi e bastoni hanno fatto capire come la pensano. 
Uno di loro, con una grande catena d’oro che luccica sul torace, regge la statua della madonna. Si chiama Giacomo Sanguedolce, qui gestisce un ristorante famoso, e a tutti ripete le stesse parole. «Adesso sono avvisati - dice - a Lampedusa non faremo arrivare più nessuno. Andiamo a prenderli noi in mezzo al mare, con le nostre barche. Basta. Finito. Sbarriamo il porto. E quando succederà, voi giornalisti cercate di non esserci: è meglio». Lo ripete fra cenni di soddisfazione, sorrisi e pacche sulle spalle, mentre incomincia a circolare la notizia. Una piccola imbarcazione di legno è stata avvistata al largo. Sono altri migranti, ignari di tutto, ancora in balia di un mare incerto. Il sindaco Bernardino De Rubeis riassume la questione con queste parole: «C’è un obiettivo con 64 immigrati a bordo. C’è la Guardia di Finanza nei pressi. L’impegno del Governo è di trasferirli a Porto Empedocle, così mi ha garantito il ministro Maroni. Così dovrà essere in futuro. Ma attendiamo notizie, il mare è un po’ agitato. Il ministero deciderà la linea da seguire». 
Qualcuno dice che li faranno attraccare sull’altro versante, di nascosto, lontani dalla festa e dalla rabbia. Altri che saranno scortati fino alle coste siciliane. E nella notte il barcone sarà proprio soccorso e dirottato a Porto Empedocle. Una prima vittoria per il sindaco. Adesso la processione è in discesa verso il mare. Suona la banda del paese. Un’anziana legge una preghiera che risuona perfetta: «Per i derelitti, per gli esiliati, per i vecchi che chiedono di riposare nelle loro case, noi ti chiediamo la pace». Scoppiano petardi. Banchetti di torroni e semi di zucca sui marciapiedi. Il sole lentamente incomincia a declinare. Alle sette di sera il parroco, don Stefano Nastasi, ferma la processione davanti al benzinaio del porto. Qui, mercoledì mattina, sono stati raccolti i feriti. Qui un ragazzo tunisino, per scappare, è caduto e si è spaccato la testa sulla banchina. E’ ancora in coma. «Dobbiamo chiedere perdono - dice il parroco al microfono- perdono per tutti». 
La signora Silvana Lucà resta dietro al bancone del Caffè Mediterraneo sulla piazza del municipio, mentre il paese sfila davanti ai tavolini. Il suo bar era pieno di tunisini anche quando nessuno li voleva per le strade. Lei stessa è andata a soccorrere ragazze e ragazzi in mare durante il naufragio di Pasqua: «Non credo alle parole del sindaco - dice -. Non credo che Lampedusa possa davvero cambiare il suo destino. E’ un fatto geografico: noi siamo i più vicini. Ma è anche un fatto economico e strategico. Lampedusa fa comodo a molti. Meglio concentrare i problemi qui, lontani dal resto del mondo». 
Non è rassegnazione, piuttosto una specie di amara consapevolezza: «L’isola è invasa di agenti. Mangiano al ristorante, dormono in albergo, escono con le lampedusane, fanno a gara per farsi mandare qui. Io non ci credo che adesso trasferiranno tutto il baraccone a Porto Empedocle. Resta il problema: noi li paghiamo e loro non ci difendono». Nel bar di fronte, l’imprenditore Salvatore Palillo è addirittura euforico: «Noi abbiamo già dato, amen. Oggi è la fine di un’epoca. Lo ha detto il sindaco: qui non attraccheranno più. Siamo pronti a difendere le nostre coste da subito e con ogni mezzo». 
Tutto questo oggi è Lampedusa. Un misto di generosità, sofferenza e insofferenza, guerra e pace, catene d’oro al collo e catene di solidarietà. Un giovane prete, sussurra: «Quei ragazzi che sbarcano e ci chiedono da bere sono come Cristo. Abbiamo il dovere di accoglierli e dissetarli. Ma tutti devono fare la loro parte, anche il Governo». Alle nove di sera si scruta l’orizzonte dal molo principale. Adesso il mare sembra calmo, un grande mare buono. E i fuochi d’artificio della Madonna di Porto Salvo indicano la rotta.
 
 
 
Lampedusa, arrivato un alto barcone giallo sull'approdo a Porto Empedocle
Il Messaggero, 23-09-2011 
LUCA PASQUARETTA
ROMA - Torna la normalità a Lampedusa ma sale la tensione nel centro di accoglienza di Torino. Dopo l'incendio che ha danneggiato gravemente la struttura di ospitalità dei migranti sull'isola, nuovi scontri e tentativi più o meno riusciti di fuga si sono registrati ieri al Cie del capoluogo piemontese dove in serata la situazione è però tornata sotto controllo.
Nelle stesse ore a Lampedusa veniva avvistato un nuovo barcone con a bordo una sessantina di migranti tunisini. Il Viminale aveva garantito al sindaco De Rubeìs che eventuali nuovi arrivi sarebbero stati dirottati su Porto Empedocle ma ieri per un lungo lasso di tempo sembrava che questo non fosse possibile o almeno non ancora, nonostante l'approdo isolano fosse stato dichiarato «non sicuro».
Dopo l'incendio e i violenti scontri dell'altro ieri, i lampedusani volevano mettersi alle spalle una pagina «triste», come l'ha definita il vescovo di Tunisi, Maroun Lahham, che a Lampedusa ieri ha celebrato l'omelia per la messa che ha aperto la festa della patrona, la Madonna di Porto Salvo, protettrice dei pescatori. La soluzione di Porto Empedocle, dunque, dove servire anche rasserenare gli animi. Prima è stata data per certa, poi sono spuntati problemi tecnici, infine in serata sono arrivate le conferme ufficiali: niente nuovi arrivi sull'isola.
E' quello che ha affermato la senatrice Angela Maraventano (Lega Nord), vicesindaco dell'isola, dopo aver parlato con i funzionari del Viminale: «Andranno a Porto Empedocle, me lo hanno garantito» ha detto. II governo intanto ha intensificato le operazioni di tarsferimento: in meno di 48 ore il Cie di Lampedusa è stato quasi svuotato. Dall'alba di ieri otto C-l 30 dell'Aeronautica militare hanno fatto la spola con Palermo. Circa 500 nordafricani, controllati a vista sono stati trasferiti a bordo dei veicoli militari a Punta Raisi e da lì condotti nel porto e imbarcati sulle navi Moby Fantasy e Audacia con destinazione altri centri d'identificazione e di espulsione. A Torino, nel Cie di via Brunelleschi, ieri è scoppiata la rivolta: ventidue immigrati fuggiti, dieci arresti, nove contusi tra le forze dell'ordine, fra cui personale della Croce Rossa. A dare il via alla protesta il lancio, da parte di alcune decine di esponenti dell'ala anarco-insurrezionalista torinese, di palline da tennis all'interno della struttura. «Incollati» alle palline, decine di «pizzini» che incitavano alla ribellione. Questo è stato sufficiente a scatenare la protesta con decine e decine di stoviglie battute all'interno dei padiglioni del Cie. Sono seguiti momenti di forte tensione, con danneggiamenti alle strutture.
 
 
 
Lampedusa scoppia il sindaco ci mette del suo
DE RUBEIS. Il primo cittadino dell'isola replica a muso duro a chi gli contesta modi razzisti nella gestione dell'emergenza. Al Capo dello Stato rivolge un invito poco formale, salvo poi chiedere scusa e rilancia: «Qua siamo in guerra». Ieri ancora sbarchi.
il Riformista, 23-09-2011 
ALESSANDRO LEOGRANDE
? «Quando Gesù Cristo ha visto che nel tempio i mercanti non pregavano ma commerciavano, ha preso i banchi e gli ha buttati fuori. Oggi il popolo di Lampedusa sta facendo lo stesso». Nel pomeriggio di mercoledì, mentre gli scontri tra lampedusani e tunisini iniziavano a chetarsi, il sindaco dell'isola Bernardino De Rubeis ha urlato la sua metafora evangelica ai microfoni di una radio locale siciliana. In mattinata, nella foga, aveva persino insultato il Presidente della Repubblica Napolitano, invitandolo a «muovere il culo da Roma», salvo poi pentirsi delle proprie parole e chiedere scusa. Ma nel pomeriggio la tensione è salita di nuovo. E dal suo ufficio, armato di una mazza da baseball, perché non si sa mai («siamo in guerra, e in guerra ci si difende»), De Rubeis ha continuato a rilasciare interviste a destra e manca.
«La gente di Lampedusa ha allontanato questi delinquenti dal tempio. Ha allontanato questi mercenari», ha ripetuto più volte, difendendo la sassaiola di popolo contro gli immigrati che avevano incendiato il centro il giorno prima. Ora a Lampedusa pare tornata la calma. Ieri c'è stata anche la processione della Madonna di Porto Salvo. Diverse centinaia di tunisini sono stati trasferiti altrove e il sindaco appare più tranquillo. Eppure il suo show difficilmente potrà essere dimenticato. Anche perché non si è trattato di un colpo di testa dovuto al fragore degli eventi. De Rubeis è un sindaco d'assalto. Esponente dell'Mpa, guida una stramba giunta con l'appoggio della Lega, e ha fatto dell'interpretazione isolana del motto leghista «padroni a casa nostra» la propria bandiera.
Il primo marzo scorso la Procura di Agrigento lo ha iscritto nel registro degli indagati per istigazione all'odio razziale e abuso d'autorità, per aver emesso un'ordinanza contro l'accattonaggio e i comportamenti «non decorosi». Obiettivo del provvedimento erano i maghrebini provenienti dalla riva Sud del Mediterraneo. Poi, a fine mese, dopo aver affermato di condividere le posizioni sull'immigrazione di Le Pen, ha accolto a braccia aperte il presidente del consiglio Berlusconi. In quell'occasione il Cavaliere ha promesso la candidatura dell'isola al "Nobel per la pace" e, già che c'era, di acquistare una villa lungo la costa.
Per mesi De Rubeis ci ha creduto, dicendo ai suoi concittadini o ai giornalisti che glielo chiedevano, che l'acquisto della villa era cosa fatta, che Berlusconi era ormai un lampedusano e che il Nobel. . .Finora niente di tutto ciò è avvenuto, ma De Rubeis è uomo avvezzo alle avversità. Il 2009, ad esempio, quando il centro appena costruito fu dato alle fiamme nello stesso identico modo dei giorni scorsi, è stato per lui un anno nero.
Ha dovuto subire un processo, sempre da parte del tribunale di Agrigento, per incitamento alla superiorità razziale. In una intervista apparsa il 5 settembre 2008 su Repubblica aveva affermato: «Non voglio essere razzista, ma la carne dei negri puzza anche quando è lavata. Figuriamoci nel lager a cielo aperto di Lampedusa: in agosto l'ho sentito io il fetore dei clandestini ammassati tra merda e spazzatura. In duemila, sbracati su 800 materassi». L'intervistatore, Giampaolo Visetti, come altri giornalisti arrivati sull'isola, aveva notato tra l'altro che sulla sua scrivania c'era una cassetta delle offerte per circondare il centro di accoglienza con il filo spinato.
De Rubeis smentisce le affermazioni riportate dal quotidiano. Poi è assolto perché non viene dimostrato che le abbia effettivamente pronunciate. Tuttavia i suoi guai non finiscono lì. Pochi mesi dopo, in luglio, è arrestato con l'accusa di concussione. Dopo un mese viene liberato ed è reintegrato nel suo mandato. Ma la detenzione lo segna, tanto che in seguito afferma: «Al confronto del carcere, il centro di accoglienza di Lampedusa è un hotel a cinque stelle». Insomma, è un uomo turbolento Bernardino De Rubeis, il sindaco che si crede in guerra, asserragliato nel suo ufficio con una mazza da baseball.
Certo, le responsabilità maggiori della situazioni venutasi a creare a Lampedusa sono sicuramente da rintracciare altrove. In particolare, nella scelta di portare nel centro dell'isola non solo chi effettivamente approda sulle sue coste, ma tutti i migranti raccolti in mare, anche a 50-60 miglia di distanza, anziché trasferirli altrove. Ma se la politica locale soffia sul fuoco, le conseguenze possono essere imprevedibili. In attesa che gli sbarchi riprendano, un primo cittadino che esorta i "suoi" isolani a farsi giustizia da sé, insulta il Capo dello Stato e gira con un'arma contundente, non aiuta di certo. Ieri avvistato un altro barcone con 60 persone a bordo a 35 miglia dall'isola.
 
 
 
Due prigioni galleggianti per i tunisini da rimpatriare
Il governo requisisce un molo: allestite una nave merci e una passeggeri
La Stampa, 23-09-2011
LAURA ANELLO
Abdul trascina la sua gamba ferita come una palla al piede, quelle dei , carcerati. Occhi bassi, una smorfia di dolore, imbocca insieme con gli altri il boccaporto dell'«Audacia» trasformato in un dormitorio galleggiante. «Ecco, una nave, finalmente ci portano via, in Italia», sussurra qualcuno con un lampo di speranza negli occhi. «Dove andiamo: a Napoli, a Marsiglia?», si domandano due giovanissimi, infradito e sacchetto azzurro d'ordinanza nelle mani.
Nessuno si azzarda a dire loro che quella nave non partirà mai verso nessuna meta. Che è un altro centro di permanenza, proprio come il Cie di Lampedusa che adesso è in cenere. E questo è sul mare, letteralmente, ancor più di quello che hanno appena lasciato. Già, se il governo si affretta a svuotare al ritmo di dieci voli al giorno l'isola dell'accoglienza diventata di guerriglia, se i riflettori restano puntati lì, silen-ziosamente gli immigrati arrivano qui, al porto di Palermo, dove in gran silenzio sono state allestite due navi per accoglierli a tempo indefinito, visto che Tunisi si ostina a tenere duro sul numero dei rimpatri: non più di cento al giorno.
Si chiamano «Audacia», una nave merci con tre stanzoni dove ne sono stati stipati 150, e la «Moby Fantasy», imbarcazione per passeggeri tutta colori e fumetti sulla fiancata, che ne ospita altri 400. E qui niente associazioni, niente tutela legale, niente operatori umanitari che vigilino sulle condizioni di vita.
Così, è vero che si svuota Lampedusa, ma nessuno dice che soltanto due dei dieci voli al giorno puntano su Tunisi: gli altri arrivano qui a Palermo, nel molo requisito dal Viminale, per quindici giorni tanto per cominciare. Con uno schieramento imponente di forze dell'ordine: per ogni immigrato due poliziotti, tutti con la mascherina sul viso «per precauzione igienica, ha sentito che odore c'è sui pullman?».
Ne arriva uno proprio in quel momento, sono le quattro del pomeriggio, per trasferire i primi cinquanta dalla «Moby», riempita per prima, all'«Audacia». A guidare le operazioni non è un agente qualsiasi, ma Manfredi Borsellino, figlio di Paolo, il giudice ucciso dalla mafia, oggi vicequestore dirigente del commissariato di Cefalù, uno dei tanti mobilitati da tutta Italia per fronteggiare l'emergenza Lampedusa. Modi gentili, niente esibizione muscolari, professionalità e rispetto. E accanto c'è un altro «sbirro» di razza: Silvio Bozzi, siciliano dirigente a Fano, criminologo, consulente dei principali scrittori di noir italiani: da Lucarelli a Camilleri, autore e coprotagonista di tante trasmissioni   tv. Chissà     quanto materiale avrà adesso: «Questi giorni a Lampedusa sono stati un inferno», confessa.
Ma le misure di sicurezza sono straordinarie. Stipati in pullman per fare pochi metri, guardati a vista come boss della mafia. Prima scendono dieci poliziotti, manganelli a portata di mano, poi dieci immigrati sudati, scarmigliati, le facce peste. E ancora dieci e dieci, fino alla fine. Puzza di sudore, di  disperazione, di notti passate all'addiaccio. Somigliano più a reduci che a potenziali ribelli.'«Sono arrivati da Lampedusa stremati», dicono gli agenti. Molti hanno ancora addosso la tuta fornita dal centro di accoglienza al momento dello sbarco dopo la traversata della speranza. Nessuno ha le scarpe comprese nel kit: «forse le scambiavano con altri generi di prima necessità laggiù a contrada Imbriacola, nessuno ce le aveva più dopo poche ore dalla consegna».
Dalla «Moby» si vede una maglietta che sventola sulla tolda, poi improvvisamente sparisce. Qui, al passaggio blindato,  ci sono soltanto sussurri e sguardi che invocano una speranza. «Sa dove ci portano?», chiede veloce un giovane pesto, bermuda e maglia lurida, prima di essere intruppato verso due stanzoni dove dormiranno su poltrone reclinabili, due bagni ogni cinquanta persone, niente docce, la mensa per mangiare, «la nostra stessa mensa — dice un agente — ci alterneremo solo per gli orari». Le procedure di identificazione? «Qui non se ne fanno, le avevano già completate a Lampedusa, questi hanno tutti i documenti a posto».
Un'ora prima, alle tre, due pullman erano partiti alla volta dell'aeroporto di Punta Raisi, con i cento a bordo attesi da Tunisi. Volo proveniente da Fiumicino, decollato poi alle sei da una delle quattro piazzole requisite dal ministero degli Interni, con la società di gestione dello scalo —la Gesap — a fare i salti mortali per tenere distinto il percorso dei turisti da quello degli immigrati, i viaggiatori liberi e quelli per forza, condannati all'invisibilità. Si arriva tanto e si parte poco. Ieri sono sbarcati qui da Lampedusa otto C130, a bordo niente sedili ma solo panche: un tunisino in mezzo, due poliziotti da una parte e dall'altra. Poi il pulman li ha presi a bordo pista, li ha depositati in porto, sulle navi che sembrano pronte a partire e che invece sono un'altra tappa di un infinito gioco dell'oca dove si finisce sempre nella casella sbagliata. Quella del ritorno a casa, il punto di partenza.
 
 
 
GRUPPO EVERYONE
Diritti umani a Lampedusa
l'Unità , 23-09-2011
Luigi Cancrini
Il difensore dei diritti umani franco-canadese Georges Alexandre, membro del Gruppo EveryOne e dell'associazione Kayak, mercoledì ha subito un grave episodio di violenza a Lampedusa. Riteniamo che dietro alle violenze e alle intimidazioni che colpiscono Georges ci sia un disegno preciso per zittire i difensori dei diritti umani in Italia.
RISPOSTA ??? Guerriglia intorno ai resti del Centro di Accoglienza con tanto di cariche della polizia e scontri fra isolani ed emigrati impegnati in una assurda "caccia all'uomo". Feriti, di cui alcuni gravi, fra gli emigranti e le forze dell'ordine ma anche fra i giornalisti e gli attivisti per i diritti umani aggrediti dagli isolani. Sono notizie che arrivano da casa nostra perché Lampedusa è Italia e sono notizie che bene dimostrano l'incapacità di un ministro leghista nel fronteggiare una emergenza che per lui non è umanitaria ma solo di ordine pubblico. Poco gli importa di quello che accade fuori dalla Padania? Creare condizioni in cui gli incidenti diventano inevitabili ed i migranti possono essere presentati come dei delinquenti torna utile politicamente a lui e alla Lega? Sospettarlo è naturale se lui ci dice oggi che gli bastano ventiquattro ore per allontanare tutti da Lampedusa e se così poco rispetto si ha, anche nei comunicati ufficiali per chi sta lì solo per difendere i diritti umani. Qualunque sia la risposta, certo è solo che noi tutti siamo costretti ancora una volta a vergognarci di essere italiani.
 
 
 
A Lampedusa riprendono gli sbarchi il sindaco: "Non fateli scendere qui"
la Republica, 23-09-2011
ALESSANDRA ZINITI 
LAMPEDUSA — Le note della banda e i fuochi d'artificio salutano per tutta la giornata i C-130 dell'aeronautica che "liberano" l'isola ma l'orizzonte dice che l'assedio non è finito. Nel centro di accoglienza semidistrutto sono rimasti ormai in duecento quando, alle cinque del pomeriggio, un aereo della Guardia di finanza avvista un altro barcone in arrivo. Sono una sessantina, ancora tunisini. E il miraggio di una Lampedusa svuotata per sempre dai migranti sembra traballare nonostante le parole rassicuranti del sindaco De Rubeis che, in prima fìla dietro la vara conia Madonna di Porto Salvo nella processione per la festa della Santa Patrona, dice: «Maroni mi ha garantito che saranno portati direttamente a Porto Empedocle. Qui a Lampedusa non sbarca più nessuno». L'indirizzo politico espresso dal ministro dell'Interno però non ha ancora uno sbocco operativo e la motovedetta partita da Lampedusa non ha ricevuto ordine di fare rotta verso la terraferma.
Sessanta ne arrivano e più di cinquecento ne sono partiti grazie ad un ponte aereo formidabile. È il giorno della pacificazione nell'isola che, 24 ore dopo le scene di guerra tra lampedusani, immigrati e polizia.chiude le porte, almeno teoricamente, ai viaggi della speranza. Dopo l'incendio che ha semidistrutto il centro di accoglienza e per il quale la Procura di Agrigento ha fermato undici tunisini individuati grazie alla collaborazione di altri due maghrebini, Lampedusa non è più considerato "porto sicuro". Il questore di Agrigento Giuseppe Bisogno conferma: «Il nostro obiettivo è quello di far partire tutti i migranti ma anche quello di chiudere il centro». D'ora in avanti, dunque, nessun barcone intercettato e salvato nel canale di Sicilia in acque di competenza italiana dovrebbe essere più scortato a Lampedusa ma direttamente sulla terraferma. A Lampedusa restano però 140 minori non accompagnati, ospitati nella ex base Loran. Di loro non si sa bene cosa fare e resteranno Ti non poco visto che nelle comunità a loro destinate in giro per l'Italia sembra non ci siano posti disponibili.
Ma l'emergenza immigrazione che per 48 ore ha messo a ferro e fuoco Lampedusa non è affatto finita e rischia solo di cambiare scenario. Perché i circa 600 tunisini evacuati da Lampedusa sono finiti tutti a Palermo dove sono stati trasferiti a bordo di due navi ormeggiate in porto. E lì dovrebbero restare in attesa di essere rimpatriati a scaglioni di 50 alla volta come prevede il nuovo accordo stipulato a Tunisi qualche giorno fa da Maroni. Soluzione, quella di tenere chiusi 800 tunisini dagli animi caldi in due navi trasformate in centri di accoglienza galleggianti, che in molti tra gli addetti ai lavori considerano un'altra bomba ad orologeria pronta ad esplodere. E questa volta nel porto di una grande città.
Soddisfatti del rapido svuotamento del centro, i lampedusani ieri hanno potuto dedicarsi alla celebrazione della loro santa patrona. A sancire la pacificazione tra lampedusani e immigrati, la presenza del vescovo di Tunisi. «Ai tunisini dico di non sputare nel piatto in cui si mangia perché in quest'isola hanno avuto sempre accoglienza, ma non tocca a noi giudicare né i tunisini che sono pronti a tutto per una vita migliore né i lampedusani che portano sulle loro spalle un peso troppo pesante per loro».
 
 
 
Porto di Palermo blindato per le navi affollate dai tunisini
la Repubblica, 23-09-2011
I traghetti "Moby Fantasy" , "Audacia" e Moby Vincent” sono stati trasformati in "centri di raccolta galleggianti". Ospitano i magrebini portati via da Lampedusa dopo i disordini d'inizio settimana. Cinquecento uomini delle forze dell'ordine presidiano il molo Santa Lucia. Manfredi Borsellino fra i coordinatori del servizio di sicurezza
Resta blindato il molo Santa Lucia del porto di Palermo. Cinquecento uomini delle forze dell'ordine si alternano presidiando i tre “centri di raccolta galleggianti”, cioè le navi “Moby Fantasy” e “Audacia” di Grandi navi veloci alle quali si è aggiunta la notte scorsa la “Moby Vincent”.
Sono quasi 700 gli immigrati sistemati momentaneamente sui tre traghetti dopo il trasferimento da Lampedusa in seguito all'incendio che, nei giorni scorsi, ha parzialmente distrutto il centro di accoglienza dell’isola.
A Palermo sono giunti a bordo di una rapida successione di C130 dell'aeronautica militare. Poi il trasferimento nello scalo portuale con un massiccio spiegamento di forze dell'ordine. A guidare le operazioni c'è anche Manfredi Borsellino, figlio di Paolo del magistrato ucciso dalla mafia 19 anni fa. Manfredi Borsellino è vicequestore del commissariato di Cefalù ed è impegnato su questo fronte assieme agli uomini fatti giungere da tutta Italia. Il porto è l'ultima tappa dei migranti: da qui, come già accaduto ieri pomeriggio, a gruppi di cento al giorno vengono condotti all'aeroporto per il rimpatrio in Tunisia. A questo scopo due pullman stamane hanno fatto ingresso in porto scortati dalle forze dell'ordine. Gli stranieri  sono guardati a vista.
 
 
 
La rivolta dei Cie contagia Torino: 22 evasi e dieci feriti
Libero, 23-09-2011 
SALVATORE GARZILLO
Il vento di rivolta che soffiava a Lampedusa è arrivato a Torino. Dopo gli scontri dei giorni scorsi nell'isoletta siciliana, è toccato al Cie di corso Brunelleschi, nel capoluogo piemontese, fare i conti con la rabbia degli immigrati. Il bilancio finale è di una decina di contusi tra uomini alle forze dell'ordine e della Croce rossa, 22 stranieri scappati attraverso un passaggio, e altri dieci arrestati mentre tentavano di imitarli con l'accusa di resistenza, lesioni a pubblico ufficiale e danneggiamento aggravato.
A soffiare sulla fiammella dei migranti sarebbe stata una manifestazione di appartenenti all'area anarco-antagonista che intorno alla mezzanotte hanno iniziato un "bombardamento" di palline da tennis all'interno del Centro. Nelle palline, tagliate in due, erano nascosti biglietti contenenti messaggi di incitamento alla rivolta: sembra che sui fogliettini ci fossero riferimenti agli scontri del pomeriggio a Lampedusa tra immigrati e polizia.
Tanto è bastato. Decine di ospiti della struttura hanno cominciato un lancio di oggetti metallici e calcinacci contro gli agenti, per poi passare al danneggiamento dei cancelli e delle porte dei moduli abitativi. La protesta ha coinvolto quattro aree su sei e nella confusione generale 22 immigrati sono riusciti ad eludere i controlli, facendo perdere le proprie tracce. Tra i dieci arrestati ci sono un clandestino algerino di 24 anni e un altro egiziano di 32 anni che, assieme ad altri, hanno colpito un carabiniere con una spranga di ferro lunga 78 centimetri.
Intanto, ieri sono sbarcati altri 60 migranti a Lampedusa. Da martedì sono cominciati i rimpatri forzati con oltre trenta voli che hanno rispedito circa 450 immigrati nei paesi d'origine grazie all'attività degli equipaggi dei C-130 della 46° Brigata Aerea di Pisa concentrati sull'emergenza. Il sindaco di Lampedusa, Bernardino De Rubeis, a seguito del colloquio telefonico avuto con il ministro dell'Interno Roberto Maroni, ha annunciato che i migranti soccorsi a largo di Lampedusa non verranno più portati sull'isola ma direttamente a Porto Empedocle. «160 immigrati tunisini avvistati questo pomeriggio da un aereo della Guardia di Finanza a 35 miglia da Lampedusa dopo il soccorso di una motovedetta della Guardia di Finanza», ha dichiarato il primo cittadino - «verranno dilettamente accompagnati o scortati a Porto Empedocle senza passare per Lampedusa. Mi è stato assicurato così poco fa dal prefetto Ronconi del Viminale». L'attuazione non è però stata ancora ultimata, visto che la motovedetta intervenuta per scortare il barcone sembra abbia condotto i 60 passeggeri a Lampedusa.
 
 
 
Oltre 4,5 milioni di cittadini stranieri in Italia
Terra, 23-09-2011
Susan Dabbous
Cosa accadrebbe al "sistema Italia" se un giorno sparissero tutti nel pieno della notte? Sono 4.570.317 gli stranieri residenti nello Stivale, 335mila in più rispetto all'anno scorso, sono passati così dal 7 al 7,5% della popolazione. A dirlo è l'ultimo rapporto dell'Istat mentre a descrivere un Paese in totale disfacimento in caso di improvvisa assenza di immigrati ci ha pensato il regista Francesco Patierno nel film Cose dell'altro mondo.
? Nella pellicola un imprenditore veneto (interpretato magistralmente da un Diego Abbatantuono in versione padana) invoca la potenza divina per respingere i barconi in arrivo a Lampedusa e far sparire tutti gli stranieri (apostrofati con termini ultra razzisti). Esaudito il desiderio leghista, le città si trasformano in luoghi sporchi, di penuria alimentare, con spesa razionata e vecchietti abbandonati a se stessi uniti in preghiera per far tornare le proprie badanti. Quanto all'industria, le fabbriche cessano di funzionare e i frutti rimangono a marcire sugli alberi. Un disastro insomma, uno scenario talmente negativo che spingerebbe anche i più facinorosi a chiudere un occhio sugli scontri avvenuti in questi giorni a Lampedusa. I dati Istat pubblicati ieri non fanno altro che avallare l'ipotesi tragicomica portata avanti dal regista, a dimostrarlo sono ad esempio i numeri estrapolati dalla Coldiretti sull'agricoltura. È straniero quasi un lavoratore su dieci impegnato nelle campagne dove la presenza degli immigrati è diventata indispensabile per le grandi produzioni di qualità del Made in Italy come la raccolta delle mele in Trentino alla quale collaborano i ghanesi, delle uve del prosecco in Veneto con i polacchi o la mungitura del latte nelle stalle del grana padano (settore di parte dei 15mila indiani presenti in Italia). E la vendemmia 2011? È slava grazie all'opera di 30mila lavoratori di ben 53 differenti nazionalità, dice ancora Coldiretti. Ma dove vivono i nostri 4 milioni e mezzo di stranieri? L'86,5% risiede nel Nord e nel Centro del Paese, il restante 13,5% nel Mezzogiorno. I rumeni si confermano al primo posto con una comunità di quasi un milione di abitanti, seguono albanesi (482mila) marocchini (452mila), cinesi (209mila) e ucraini (200mila). Nel dato di incremento sono inclusi anche i 78.082 piccoli dati alla luce in Italia da genitori stranieri, che costituiscono il 13,9% del totale dei neonati del 2010.I dati di questo rapporto invece non prendono in considerazione né i numerosi rientri volontari nei Paesi d'origine, dovuti alla crisi economica, né la recente ondata migratoria proveniente dal Nord Africa. L'incremento, come ci spiegano dall'ufficio immigrazione della Cna (confederazione nazionale dell'artigianato) è dovuto principalmente alle maxisanitorie del 2009 e 2010. In particolare quella di due anni fa, che riguardava le badanti, non aveva un tetto, e in molte tentarono la via delle regolarizzazione attraverso false dichiarazioni di lavoro di assistenza agli anziani. Un modo come un altro per barcamenarsi nella giungla burocratica italiana, dove molto spesso si diventa clandestini a causa del ritardo con cui la pubblica amministrazione consegna i permessi di soggiorno. Secondo la Cna, quindi, in quell'incremento non ci sono nuovi stranieri, ma solo nuovi regolari, 
 
 
 
Amerai lo straniero come te stesso
l'Espresso, 23-09-2011 
SONO TENTATO DI PROPORRE Al LETTORI UN QUESITO: A QUALE CODICE CIVILE APPARIRNE IL COMMA CHE ORA CITERÒ? ECCOLO: «QUANDO UNO STRANIERO RISEDE NEL NOSTRO TERRITORIO, NON DEVE ESSERE NÉ MOLESTATO NÉ OPPRESSO. LO STRANIERO RESIDENTE DEVE ESSERE TRATTATO COME IL NATIVO». A COMMENTO DI QUESTO DETTATO LEGISLATIVO VORREI ALLEGARE DUE ESPERIENZE PERSONALI ANTITETICHE DELLE SCORSE SETTIMANE. LA PRIMA È LEGATA ALLE FERIE CHE HO APPENA TRASCORSO SUL LAGO DI COMO. QUANDO MI CAPITAVA DI SCORRERE LE MODULAZIONI DI FREQUENZA DELLA RADIO, MI IMBATTEVO SPESSO IN UNA NOTA EMITTENTE DI UN MOVIMENTO POLITICO, SPESSO APERTA A UN FILO DIRETTO CON GLI ASCOLTATORI CON TUTTE LE VARIAZIONI FONETICHE DB VARI DIALETTI SETTENTRIONALI, CHE BEN CONOSCO ANCHE PER LE MIE ORIGINI ANAGRAFICHE, IL LEIT-MOTIV ERA COSTANTE: «MANDATELI A CASA LORO! CACCIATELI! SONO PERICOLOSI, CI TOLGONO POSTI DI LAVORO, SI ALLARGANO, SPORCANO E FAVORISCONO LA CRIMINALITÀ, VOGLIONO UNA MOSCHEA IN OGNI QUARTIERE...» E COSÌ VIA DEPRECANDO E, NON DI RADO, INVEENDO.
L'altra esperienza si ripeteva, invece, ogni mattina, quando sfogliavo i giornali e giungevo alle pagine degli spettacoli ove imperavano le cronache e le recensioni del Festival di Venezia. Non c'era giorno in cui sugli schermi del Lido non ci fosse un film che, con diversa tonalità, mettesse in scena proprio loro, gli stranieri immigrati. Penso a "Villaggio di cartone" del mio amico Olmi, una spoglia e pura parabola cristiana, o a "Terraferma" di Crialese, che ha impressionato la stessa giuria che gli ha assegnato il suo premio specifico, oppure all'intenso "Là-bas" di Guido Lombardo sulla piaga del caporalato, o ancora il documentario "Io sono" di Barbara Cupisti nella sezione "Controcampo", per non parlare poi delle "Cose dell'altro mondo" di Patierno, ove lo stesso tema è trattato con un contrasto ironico.
Ci sono, quindi, due volti differenti dell'Italia e, al di là delle professioni esteriori conclamate, quello autenticamente
religioso e soprattutto cristiano è il secondo, anche se - tranne Olmi - forse tutti gli altri registi si dichiarano "laici". È, infatti, lapidaria la frase che Cristo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo rivol¬ge anche a quelli che non lo conoscevano: «In verità vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli l'avete fatto a me». E chi siano questi piccoli è subito specificato: affamati, assetati, stranieri, nudi, malati, carcerati. In questa linea aveva ragione il cardinale Tettamanzi quando ai suoi critici milanesi replicava che, come vescovo, aveva semplicemente seguito il Vangelo. E confesso che mi hanno sempre affascinato le riflessioni del nuovo arcivescovo di Milano, il cardinale Scola, quando da Venezia proponeva la sua versione del "meticciato" culturale e sociale a cui siamo ormai votati e che dobbiamo con fatica costruire e calibrare.
Nessuno di quelli che incarnano la seconda prospettiva sopra delineata è così ingenuo da ignorare le difficoltà, le asperità, le tensioni di un simile incontro. La via dello scontro o del duello è facile e fin spontanea, e si arma di slogan efficaci di ritmo binario elementare (buono/cattivo, bianco/nero). La via del confronto e del duetto, in cui le voci mantengono la loro identità anche antitetica - come accade in musica - ma si ascoltano e intrecciano, è più ardua, ma è l'unica cristiana e culturalmente degna e feconda, da imboccare senza troppe riserve e paure.
P. S. La risposta al quesito che ho posto in apertura è semplice. Si tratta di una delle normative (ripetute con lievi variazioni) del codice dell'Israele biblico (Levitico 19,33-34; Esodo 22,20), retroproiettato ai piedi della vetta del Sinai durante la marcia dell'emigrazione ebraica dall'Egitto verso la terra della libertà. Certo, era un regime teocratico, tant'è vero che il comma continua in modo parenetico: «Tu amerai lo straniero come te stesso, perché anche voi siete stati stranieri in terra d'Egitto». Ma una simile norma dovrebbe essere invidiata e imitata anche da uno Stato moderno e "laico".
 
 
 
Clandestina è la politica
l'Unità, 23-09-2011
Luigi Manconi   Valentina Brinis 
"il passo di chi è partito per non ritornare 
e si guarda i piedi e la strada bianca 
la strada e i piedi che tanto il resto manca"
Gianmaria Testa
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Se un giornale democratico, progressista e – addirittura! – “ di sinistra” titola: “caccia ai clandestini”, qualcosa di terribile sta accadendo, e forse è già accaduto. Consideriamo quel titolo. Certo, potrebbe giustificarsi con la volontà di descrivere semplicemente un fatto, connotandolo di una qualche riprovazione morale: ma temo che il risultato sia esattamente l’opposto. Se, infatti, si fosse scritto, che so, “violenze” o “aggressioni”, già sarebbe stato diverso perché in quelle due parole viene evidenziato il ruolo dei responsabili e, di conseguenza, quello delle vittime. “Caccia” è già diverso. Intanto perché evoca una dimensione ferina e, dunque, ulteriormente mortificante il bersaglio di quella attività venatoria; e, poi, perché introduce un elemento esotico o comunque talmente anomalo da risultare quasi irreale. Posso sbagliarmi, ma questa è la sensazione: tanto più se l’obiettivo sono “i clandestini”. È un termine contro il quale mi batto vanamente da tempo e che, fino a qualche anno fa, era totalmente  infondato sotto il profilo giuridico dal momento che non esisteva nel nostro ordinamento il reato di clandestinità. Ora, anche questa ulteriore lesione è stata inferta al nostro sistema di diritti e garanzie e, dunque, il ricorso a quel termine ha – sotto l’aspetto penale – una qualche plausibilità. Ma nella sua dimensione sociale si tratta di un termine esclusivamente di natura denigratoria e discriminatoria. Sono forse “clandestini” quei bambini e donne e uomini che, sotto i fari delle nostre polizie e sotto i riflettori delle nostre televisioni sbarcano a Lampedusa, col volto e il corpo esposti alla più crudele visibilità? Il termine clandestino evoca immediatamente, più che un generico pericolo, un’insidiosa minaccia portata attraverso la cospirazione e la trama occulta. Clandestini, nel senso comune e nel linguaggio pubblico, sono oggi i fuggiaschi e i richiedenti asilo, coloro ai quali è scaduto il permesso di soggiorno, quanti hanno perso il posto di lavoro e i minori che compiono diciotto anni e risultano privi dei requisiti di legge. Una parte di questi si trovano da tempo a Lampedusa. Ed è bastata una scintilla per incendiare l’isola. È bastato far valere un punto del recente accordo Italia-Tunisia (rimpatri diretti verso il paese di origine) perché si scatenasse la rivolta. Una rivolta motivata, da un lato dall’abbandono e dalla disperazione e, dall’altro dal fallimento del sistema di accoglienza lampedusano. Un apparato, quest’ultimo, affidato interamente alla spontaneità e alla filantropia degli abitanti dell’isola che, armati di “buona volontà” e di “santa pazienza”, in questi mesi di continui sbarchi non si sono mai voltati dall’altra parte (salvo, evidentemente, poche eccezioni). La loro è stata l’attesa estenuante e ostinata di un intervento decisivo da parte del Governo italiano in grado di far fronte a quella “emergenza umanitaria” ( così a febbraio era stata definita la situazione). E in questi mesi qualcosa in effetti è stato fatto: rilascio dei permessi di soggiorno temporanei (23mila), distribuzione sul territorio italiano delle persone sbarcate, accordo Italia-Tunisia. Ognuno di questi provvedimenti si è però rivelato o incompleto o inefficace. Per dirne una, i permessi temporanei rilasciati fino al mese di aprile non hanno garantito alcun tipo di presenza legale sul territorio oltre la loro breve durata. Bisogna poi ricordare il fine di quella misura: consentire ai migranti (principalmente tunisini) di muoversi nell’area Shengen, cosa in realtà resa improba da molti fattori e, in particolare, dagli ostacoli posti dagli altri stati. Inoltre il sistema di accoglienza gestito dal Governo italiano è apparso subito inutilmente macchinoso: basti pensare alla spericolata serie di acronimi attribuiti ai differenti centri di accoglienza (Cie, Cara, Cda, Cai, Ciet…e perché no Cippa Lippa?). Se l’idea iniziale era quella di rispondere con strutture diverse a diverse condizioni, oggi risulta palese che le differenze si limitano alle sigle: le condizioni materiali e psicologiche delle persone trattenute sono generalmente disperate a prescindere dal nome del luogo. Infine gli accordi Italia-Tunisia dell’aprile scorso, appena rinnovati, sembrano rivelarsi efficaci solo sotto il profilo della repressione. Ma perfino in questo ricorso alla mano pesante, emerge la cialtroneria di una politica dell’immigrazione grossolana e, insieme, impotente. Lo Stato che garantisce la sicurezza (guardandosi bene dal garantirla anche ai migranti) è plasticamente rappresentato dal delirio verbale e cinetico di quel sindaco che mostra – più pateticamente che minacciosamente – la sua mazza da baseball. 
 
 
 
VELO ISLAMICO, MIOPIA E OSTENTAZIONE GLI OPPOSTI ERRORI DELLA VIA FRANCESE
Corriere della sera, 23-09-2011
Roberto Tortoli
Ci risiamo. La questione del velo ritorna periodicamente alle cronache, con una valenza simbolica che va ben oltre il suo reale significato storico e religioso. E questo accade, immancabilmente, in Francia.
Le profanazioni di tombe musulmane e il divieto francese a pregare per strada delle passate settimane erano passati quasi sotto silenzio. Ci volevano invece la prima condanna comminata in base alla recente legge contro il niqab a riportare in auge velo e islam. A Hind Ahmas e Najate Nait Ali, sorprese e fermate lo scorso aprile a Meaux, nei pressi di Parigi, sono state infatti comminate multe di 8o e 120 euro. E per tutta risposta, sempre ieri, un'altra nota attivista nella battaglia pro velo, Kenza Drider, si è candidata alle presidenziali francesi. Potrà di certo contare sul voto entusiastico delle circa duemila donne musulmane che portano in Francia il niqab.
Poche questioni come il velo hanno la capacità di solleticare miopie politiche da una parte e astratte difese della libertà di espressione dall'altra. Trasformato dall'Occidente in segno emblematico dell'arretratezza dell'islam, e quindi da togliere in nome del progresso, il velo è di¬ventato oggi tutt'altro. Sul suolo europeo e nella forma integrale, il niqab è ormai un simbolo identitario in chiave anti-occidentale, non a caso ad uso di poche, per fini più spesso politici che religiosi 0 tradizionali.
Del resto il velo integrale, in uso solo in Afghanistan e nella penisola araba, c'entra poco 0 nulla con la realtà europea. Perché nulla c'entra, con l'Europa occidentale contemporanea, la concezione che nel luogo pubblico, in contrapposizione alla sfera familiare, la donna debba non solo essere protetta e coperta, bensì resa quasi invisibile. E sostenerlo non è questione di libertà individuale violata, ma, al contrario, l'accettazione di un modo di partecipazione sociale diverso dalla realtà di certe società musulmane. Milioni di musulmani e musulmane francesi l'hanno capito, ad eccezione di Kenza Drider e poche altre che certo non fanno un bel servizio né all'islam né alla Francia. 
 
 
 
IL CASO / Iniziativa sociale in Ungheria
Se i "Lsu" sono per i rom, diventano atto di nazismo
la Padania, 23-09-2011 
GIOVANNI POLLI
Ai bempensanti non piace, e nei commenti- giornalistici e non - già si sprecano le trite tiritere contro "i lavori forzati'', gli "echi del nazismo" e via cantilenando. Eppure il. progetto ungherese che prevede un sussidio ai disoccupati in cambio di quelli che in Italia vengono chiamati "Lavori socialmente utili" non ha proprio nessuna delle caratteristiche che nei salotti chic gli vengono attribuiti. Nessuna "forzatura", nessun obbligo, nessun criterio dichiaratamente "etnico" nell'assegnazione o meno del lavoro del sussidio.
Di che si tratta? Nella città di Guónguòspata è stato messo in pratica un progetto di sostegno alla disoccupazione che prevede, in cambio del sussidio, l'esecuzione di alcuni lavori di pubblica utilità. Insomma, il parallelo con i "lavori socialmente utili" del Belpaese appare abbastanza evidente. Che cosa non quadra, allora? Semplice: la stragrande maggioranza dei disoccupati che usufruiscono del sussidio in cambio dei lavori di pubblica utilità appartiene all'etnia rom.
L'informazione (si fa per dire) intorno all'iniziativa ungherese parte quindi dall'assunto che si tratterebbe di un'iniziativa "etnica" partendo da un assunto decisamente pregiudiziale: al governo a Budapest c'è anche un partito che la vulgata bempensante definisce "di destra".
E allora, ciò che per Roosvelt era una componente del "New Deal", cioè l'idea keynesiana per cui è utile affidare compiti apparentemente sciocchi ai lavoratori disoccupati perché avessero un salario minimo da spendere per mantenersi e mettere in funzione l'economia qui diventa un atto di nazismo. "I rom ai 'lavori forzati» Iniziativa choc in Ungheria", . recitava il titolo dell'articolo del Corriere di ieri, a firma Luigi Offeddu,
Il quale, pur lasciandosi andare agli improvvidi paragoni al nazismo, tuttavia ammette che non c'è "criterio etnico" dichiarato nello scambio tra sussidio e "lavori socialmente utili": 'giacché in Ungheria la disoccupazione è atta soprattutto fra i nomadi rom, è rom la grande maggioranza di quegli improvvisati lavoratori'. Se poi aggiunge un 'anzi, quasi tutti; non spiega apertamente che il provvedimento non nasce come legge "antirom" ma a favore dei disoccupati.
Lettura ben peggiore e completamente distorta in alte zone della rete. New live 24 arriva a scrivere: "In Ungheria, l'odio razziale verso i rom sembra stia raggiungen-do livelli davvero molto alti . È stato, infatti, avviato un progetto sociale, secondo il quale i lavoratori di etnia rom possono non pendere il sussidio di disoccupazione in cambio di un lavoro di 8 ore nei campi oppure di pulizia delle strade. Non è obbligatorio accettare, ma di fatto, la minaccia di perdere i sussidio di disoccupazione rende questo servizio un lavoro forzato', e sottopagato».
inutile dire che in Italia gran parte dei rom non solo non hanno un sussidio ma sono lasciati tranquilli 24 ore il giorno a fare esattamente ciò che vogliono, procurandosi la sussistenza con modalità quantomeno discutibili come è sotto gli occhi di tutti.
Qui siamo al paradosso completo. Lo Stato ungherese diventa "paranazista" perché assegna i "Lsu" ai rom e ai disoccupati in genere. I beninformati dicono che 'sembra (notare la serietà del cronista, ndr) che questo progetto sia realmente dettato dal forte odio razziale che si respira nel paese dove, il. partito di estrema destra Jobbik, ha organizzato delle fiaccolate con lo slogan "zingari assassini": Quindi, coerentemente, "i rom" vengono penalizzati assegnando loro un lavoro pubblico in cambio di un salario, proprio come tutte le altre persone normali. Davvero increscioso, non c'è che dire. Hitler è davvero alle porte, indignamoci e rabbrividiamo.
 
 
 
 
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