Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 febbraio 2014

Diritti degli immigrati: la società è più avanti del dibattito politico
L’84,2% degli italiani vuole che partecipino alle amministrative
Più sfaccettate le posizioni su cittadinanza ed elezioni politiche
La Stampa, 03-02-2014
Daniele Marini*
Ci sono pratiche che rinviamo di esaminare perché complicate da risolvere o sopraggiungono altre priorità. Poste in fondo alla pila dei documenti, tuttavia periodicamente, e con non poco fastidio, rispuntano, ritornano al centro della nostra attenzione. Più perché qualche evento le ripropone, che per scelta meditata. Così è per il fenomeno migratorio nel nostro Paese. Una questione spinosa e complicata, che tendiamo ad affrontare quando diventa un’emergenza più che in modo progettuale: gli sbarchi lungo le nostre coste, i cori razzisti negli stadi, gli attacchi nei confronti del Ministro Cécile Kyenge.  
Abbiamo difficoltà a mettere a fuoco il fenomeno migratorio in modo pragmatico, cogliendone sia gli aspetti positivi, sia quelli problematici: di conseguenza, il discorso pubblico e politico in Italia è segnato fortemente da un carattere ideologico. Eppure non stiamo più parlando di una questione nuova. I flussi migratori in modo consistente e costante prendono avvio negli Anni 80, più di 30 anni fa. Non solo per la spinta ad emigrare delle popolazioni da aree povere del mondo, ma per la crescita economica dell’Italia in quegli anni e, in particolare, per la spirale avviata dal nostro calo demografico.  
Da alcuni anni, com’è noto, non conosciamo crescita economica, ma il calo demografico non si è fermato. Di qui, una presenza di migranti che comunque è in crescita. Nel 2008 gli stranieri regolari residenti erano il 4,5% degli italiani, nel 2013 hanno superato la soglia dei 4 milioni (7,4%). Guardando al futuro prossimo (2020, fra soli 6 anni), l’Istat stima che tali presenze saranno 7 milioni (11,4%). La loro provenienza è da circa 167 Paesi. La nostra comunità è già un caleidoscopio di nazionalità, ma sembra che non vogliamo vederla e, soprattutto, ammetterla. Siamo un melting pot inconsapevole. È evidente che non possiamo continuare a far finta di nulla pensando di chiudere i nostri confini o riponendo nelle sole espulsioni dei clandestini la soluzione dei problemi. Tuttavia, su questo argomento esistono due livelli distinti e distanti fra loro.  
Da un lato, le forme di inte(g)razione sperimentate sui territori, pur faticose e complicate, che hanno fatto compiere comunque significativi passi avanti su questi versanti: all’interno delle scuole, nello sport, nelle parrocchie, i matrimoni misti, gli anziani con le badanti. Forme di micro-integrazione che generano momenti di reciproca conoscenza e aiutano la convivenza. Dall’altro, nel discorso pubblico e in particolare politico assistiamo a una regressione del linguaggio, come nel caso di alcuni dei nuovi esponenti leghisti o di espressioni a dir poco «colorite» enfatizzate dai mezzi comunicazione. Così che appare un’Italia venata di orientamenti contrari ai migranti, quando non di razzismo o di xenofobia.
L’indagine LaST (Community Media Research e Questlab per La Stampa) ha affrontato un tema spinoso e complicato perché tocca uno degli aspetti fondanti dell’integrazione: i diritti di cittadinanza per gli stranieri. Secondo due prospettive: quella della partecipazione al voto e dell’assistenza sanitaria, e quella della cittadinanza.
Per quanto riguarda l’assistenza sanitaria, gli italiani non paiono avere dubbi al proposito. Quasi la totalità degli interpellati (96,9%) ritiene che gli immigrati debbano averne diritto per sé e per i propri familiari, al pari dei conterranei italiani. Va sottolineato il fatto che anche fra quanti manifestano un atteggiamento totalmente avverso ai migranti, ben i due terzi (63,8%) si dichiari d’accordo sull’attribuire loro questo diritto. Il tema della salute, dunque, accomuna tutti in modo indistinto. Diverso, ma con aspetti interessanti è la dimensione della partecipazione politica e della possibilità di esprimere una propria rappresentanza attraverso il voto. Oltre 4 italiani su 5 (84,2%) ritiene opportuno che i migranti residenti regolarmente votino alle consultazioni locali, alle elezioni del proprio comune. Chi più degli altri sostiene questa opzione sono le giovani generazioni (fino a 34 anni: 91,6%), gli abitanti del Nord Est (93,1%) e gli inattivi (casalinghe: 100,0%; studenti: 92,5%). Dunque, la partecipazione al voto nelle comunità locali è ormai un aspetto largamente condiviso. È interessante osservare, poi, come confrontando quest’esito con quello emerso da una ricerca analoga compiuta nel 2007 (Demos&Pi), tale orientamento sia ulteriormente aumentato. Allora il 75,1% della popolazione era già ben disposto a una simile scelta.  
Ancorché positivo, tuttavia è più tiepido l’orientamento nei confronti delle elezioni al parlamento nazionale. In questo caso, i favorevoli scendono al 65,8%, con un sostegno più forte offerto dai giovani (meno di 24 anni: 81,1%), dai residenti nel Nord Est (74,3%), dagli inattivi (casalinghe: 92,6%; studenti: 78,1%), da chi ha un basso titolo di studio (81,1%). Tale risultato è assolutamente simile a quello del 2007, quando i favorevoli a questa prospettiva erano il 64,5%. Così, da un lato aumenta ed è largamente maggioritaria la propensione a vedere i migranti parte integrante delle comunità locali. Dall’altro, prevale un orientamento positivo alla partecipazione attiva a livello nazionale, ma con meno enfasi. Come se contasse di più l’identità locale, rispetto a quella nazionale.
Collegato a questi temi, e più di fondo, è il controverso tema dell’attribuzione della cittadinanza, di cui anche recentemente si è discusso dopo le proposte del Ministro per l’Integrazione. Controverso non solo nel dibattito pubblico, ma anche nell’opinione degli interpellati. Sono due le opzioni sulle quali gli italiani sostanzialmente si dividono. Da un lato, prevalgono leggermente quanti sostengono un diritto di cittadinanza condizionato (45,6%). Secondo questa opzione, il diritto di cittadinanza dev’essere assegnato su esplicita richiesta dell’interessato e in base ad alcune condizioni (regolarità di residenza da alcuni anni, conoscenza della storia e della lingua, e così via). Chi più di altri evidenzia questa opzione sono le fasce d’età centrali (25-34enni: 53,6%), le persone in condizione attiva sul lavoro (imprenditori: 64,1%; operai: 56,6%; disoccupati: 55,0%), i residenti nel Nord Est (54,9%), i diplomati-laureati (53,2%), chi è avverso (56,5%) e ambivalente (67,2%) nei confronti dei migranti. Secondo questa visione, la cittadinanza per i migranti non è un diritto tout court, ma è una scelta soggettiva e dipendente da alcune regole. Una quota analoga, ma leggermente inferiore (42,1%) è sostenitore dello ius soli: la cittadinanza italiana va attribuita a tutti quelli che sono nati nel nostro Paese, indipendentemente da quella posseduta dai genitori. I più favorevoli sono le ali anagrafiche estreme (meno di 24 anni: 62,1%; oltre 65: 65,4%), gli inattivi sul lavoro (pensionati: 53,8%; casalinghe: 80,8%; studenti: 53,5%), chi ha un basso titolo di studio (63,1%), quanti hanno un atteggiamento favorevole (53,2%) e accogliente (58,0%) verso i migranti. Fra queste due posizioni, si colloca in misura marginale quella della cittadinanza secondo lo ius sanguinis. Solo il 12,3% ritiene che essa si debba attribuire a tutti i nati in Italia, purché i loro genitori siano già in possesso di quella italiana.
Questi esiti dimostrano una volta di più come vi sia una differenza significativa fra quanto si discute nell’arena politica e gli orientamenti della popolazione, che sono più positivi di quanto non traspaia nel dibattito pubblico. Ciò non di meno raccontano anche della presenza di posizioni dialettiche, se non divergenti nel modo d’intendere l’attribuzione dei diritti di cittadinanza. Anche il tema migratorio è complesso e difficile, i processi di integrazione fra culture e stili di vita diversi sono problematici. Tuttavia, non possiamo continuare a ignorare il tema della cittadinanza e della partecipazione alla comunità nazionale di una parte consistente della popolazione. Anche perché, prima o poi, tali domande prenderanno forma: un quarto degli stranieri regolarmente residenti (23,4%) ha meno di 18 anni (gli italiani sono il 17,7%). Il loro futuro è qui. E anche loro sono il nostro futuro. L’inte(g)razione va definita e gestita in modo pragmatico, non ideologico. Stabilendo regole condivise e guardando a come siamo oggi e, ancor di più, al futuro. In modo consapevole.
* Università di Padova  



Coldiretti: "25% agricoltura affidata a lavoratori stranieri"
Sono 320mila gli immigrati, provenienti da ben 168 diverse nazioni, impegnati regolarmente nelle campagne italiane
stranieriinitalia.it, 03-02-2014
Roma, 3 febbraio 2014 - I prodotti dell'agricoltura italiana passano nelle mani dei lavoratori stranieri che rappresentano circa il 25 per cento del numero complessivo di giornate di occupazione del settore.
E' quanto emerge - riferisce una nota - da una analisi della Coldiretti in occasione della presentazione del XXIII Rapporto Immigrazione 2013 di Caritas Migrantes.
Sono 320mila gli immigrati, provenienti da ben 168 diverse nazioni, impegnati regolarmente - sottolinea Coldiretti - nelle campagne italiane per un numero complessivo annuale di giornate di occupazione di 25.598.449 nel 2012 (26.190.884 del 2011), pari al 25 (23% nel 2011). Gli stessi distretti produttivi di eccellenza del Made in Italy possono sopravvivere solo grazie al lavoro degli immigrati, dalle stalle del nord dove si munge il latte per il Parmigiano Reggiano alla raccolta delle mele della Val di Non, dal pomodoro del meridione alle grandi uve del Piemonte.
I lavoratori stranieri - continua Coldiretti - contribuiscono in modo strutturale e determinante all'economia agricola del Paese e rappresentano una componente indispensabile per garantire i primati del Made in Italy alimentare nel mondo su un territorio dove va assicurata la legalita' per combattere inquietanti fenomeni malavitosi che umiliano gli uomini e il proprio lavoro. I lavoratori immigrati impegnati in agricoltura - precisa la Coldiretti - hanno una eta' media di 35 anni e mezzo e per ben il 72 per cento sono di sesso maschile. I primi 12 paesi di provenienza rappresentano l'87,2 per cento del totale dei lavoratori stranieri (Romania 117.240, India 27.789, Marocco 26.220, Albania 24.624, Polonia 20.423, Bulgaria 15.100, Tunisia 12.445, Slovacchia 9.893, Macedonia 9.235, Senegal 5.738, Moldavia 5.478, Ucraina 4.722).
A livello provinciale - conclude Coldiretti - le prime 15 provincie per numero di lavoratori stranieri assorbono il 50,6 per cento della totalita' degli stranieri operanti in agricoltura (Foggia 6,4 per cento, Bolzano 5,7 per cento, Verona 5,3 per cento, Trento 4,2 per cento, Latina 4,0 per cento, Ragusa 4,0 per cento, Cuneo 3,3 per cento, Cosenza 2,8 per cento, Salerno 2,7 per cento, Ravenna 2,6 per cento, Reggio Calabria 2,2 per cento, Forli'-Cesena 2,0 per cento, Matera 1,9 per cento, Brescia 1,8 per cento, Ferrara 1,8 per cento).



I mille dimenticati di Rosarno
Dalla raccolta delle arance al campo improvvisato. Le tende del Viminale sono solo 50, il Quirinale ha mandato 450 coperte. Mancano acqua ed elettricità. Condizioni disumane
il Fatto, 02-02-2014
Sandra Amurri
Esseri umani con occhi grandi e persi, cuore dolente e dignità negata. Questo sono i mille migranti costretti a vivere da due anni come quei sacchetti di plastica, quella carta straccia, quelle lattine arrugginite di pomodori che spuntano dalla montagna di spazzatura che circonda le loro tende. Di tende, in verità, con la scritta ministero dell’Interno ce sono solo 50, il resto sono baracche. Le hanno montate senza curarsi dell’acqua che manca e della luce che non c’è e non sono più tornati. Questi uomini non servono più. Le arance che raccoglievano nelle campagne attorno a Rosarno, per pochi euro al giorno vengono pagate troppo poco, meglio lasciarle cadere e usarle per concimare il terreno. Nessuna parola può bastare a raccontare quello che gli occhi vedono, il naso respira, le orecchie ascoltano arrivando in questa desolata periferia di San Ferdinando, a pochi chilometri da Rosarno. Arrivano dal Burkina Faso, dal Mali, dal Congo. Alcuni hanno il permesso di soggiorno, ci sono rifugiati, altri irregolari.
 HANNO la pelle nera e la luce nello sguardo ferito a morte. Molti sono giovani altri meno. Uomini di colore che non credono più alle promesse dei bianchi. E neppure a quelle di chi ha il loro stesso colore come la ministra Cécile Kyenge, del Pd, che quando è venuta da queste parti a ritirare un premio non ha trovato il tempo per donare un sorriso a questi fratelli; e alla richiesta di aiuto, rivoltale dal sindaco Domenico Madafferi, ha risposto con un “non posso fare nulla sono un ministro senza portafoglio”. Senza portafoglio e senza umanità, come se fosse stata nominata solo per rompere la monotonia del bianco nella compagine di governo. Alle promesse della presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, candidata blindata in Calabria che qui è venuta in campagna elettorale e una volta eletta ha dimenticato i loro volti e le loro storie. Almeno il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di promesse non ne ha fatte. Senza rispondere all’accorata lettera inviatagli, un anno fa, dal sindaco ha incaricato una ditta di Firenze di consegnare 450 coperte. Gli altri 550 possono anche morire di freddo, chi se ne frega. Così, mentre a Roma trascorrono il tempo a pesare sul bilancino dell’interesse personale un grammo di preferenze, due etti di soglia di sbarramento, qui a solo un’ora di volo dalla Capitale, nella bellezza struggente del Mediterraneo, mille esseri umani vivono in un lager. Non ci sono i forni crematori, certo. Non hanno sulle braccia numeri impressi a fuoco. Ma il diritto negato alla dignità ce l’hanno tatuato nell’anima. Non sono stati condannati da leggi razziali, ma vivono in una terra senza legge. Sono liberi ma non di vivere. “Da poco sono riuscito a fargli arrivare la luce abusivamente”, spiega il sindaco Madafferi. Un signore di 74 anni che ha strappato la tessera del Pd, eletto con una lista civica arrivato dopo che per ben due volte il Comune (governato dalla destra e dalla sinistra) era stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Un rappresentante delle istituzioni costretto all’illegalità per far tacere il suo cuore che non ce la fa più a sopportare il grido d’aiuto di queste persone. “Fai qualcosa per noi almeno tu, ti prego”, dice Akin quando vede passare davanti alla sua baracca con la bocca coperta dalla sciarpa per proteggere dal cattivo odore che sale dalle montagne di rifiuti, dalle pozzanghere putride, dai bagni biologici – anche questi allestiti dal ministero dell’Interno – che scaricano a cielo aperto. Non sa che il mio potere sta solo nella penna, magari mi confonde con Laura Boldrini, l’ex portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati, come molti di loro, che da presidente della Camera qui non si è ancora vista.
 EPPURE basterebbe così poco per restituirgli umanità. Poco più giù Geteye prepara il pranzo. Due pezzi di legna per riscaldare una piastra di ferro arrugginito, sopra due polli. Dentro la baracca, dove dorme, polli vivi chiusi nelle cassette della frutta. L’odore rende l’aria irrespirabile. Nella baracca accanto pezzi di carne coperti dalle mosche. Non hanno forchette. Non hanno piatti. Mangiano con le mani seduti per terra o su sedili di macchine abbandonate. Non hanno acqua potabile. E quella che c’è è gelida come l’aria che di notte spezza le ossa. Qualcuno lavora ogni tanto e ha bisogno di lavarsi. A vendergli per qualche euro acqua riscaldata dentro ai bidoni provvedono i fratelli più poveri. La povertà che aiuta la povertà più povera. Eh sì perché alla povertà, come alla vergogna e alla disumanità, non c’è limite.



Così 500 persone (la metà bambini) vivono nella discarica di Giugliano
Corriere.it, 02-02-2014
Stefano Pasta
Come può crescere un bambino letteralmente buttato in discarica? Alla domanda prova a rispondere il documentario “Terrapromessa” che Mario Leombruno e Luca Romano hanno presentato al Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli. È la storia delle famiglie rom bosniache fuggite anni fa dalla guerra jugoslava che vivono nel “campo attrezzato” accanto a Masseria del Pozzo, una delle discariche più inquinate dell’Area Vasta di Giugliano (Na). Siamo nella Terra dei Fuochi e qui ci sono anche i geyser. 500 persone, di cui oltre 200 bambini, vivono sopra fumarole di gas tossico che esce dal terreno nero e rende nauseabonda l’aria, facendo scappare anche i topi.
Nell’Area Vasta, ci sono ben sei discariche, in cui secondo le rivelazioni del pentito Vassallo sono stati sversati, oltre a quelli solidi urbani, grandi quantità di rifiuti speciali e pericolosi. Il campo rom sorge in un fazzoletto di terra stretto tra Taverna del Re, il più grosso sito di stoccaggio per finte ecoballe d’Europa, e la Resit di Cipriano Chianese, dove ad ogni sversamento morivano pure i topi. «Qui scaricavano rifiuti industriali e tossici, questa è la zona più pericolosa», dichiara nel documentario Mario de Biase, il commissario governativo alle Bonifiche. A suo avviso, l’area non è bonificabile e le esalazioni di biogas provenienti dalla discarica sono estremamente pericolose per la salute delle persone. «Il gas – spiega il comboniano Padre Alex Zanotelli – esce alla sera, intontisce e ha influenza sui volti dei bambini». Infezioni, asma e herpes da un lato, il triplo delle patologie tumorali registrate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità dall’altro.
    E come ci sono finite 500 persone in un posto che è tutto tranne la “Terrapromessa” (dalla beffarda scritta realizzata all’esterno del campo)? Per decisione del Comune di Giugliano, cioè della terza città più grande della Campania, sciolto per infiltrazione della Camorra. Secondo i registi del documentario, «è la storia di un “crimine nascosto” perpetrato dall’Amministrazione che ha identificato proprio quell’area per allestire un campo, dopo quattro sgomberi che si sono susseguiti nel corso degli ultimi venti anni». Costo dell’allestimento: circa 400mila euro, soldi con cui è stata costruita una recinzione in metallo e sono stati installati alcuni container per i servizi igienici, ormai intasati e praticamente inutilizzabili.
La soluzione doveva essere provvisoria, ma dopo un anno non si vedono alternative; così, le telecamere di “Terrapromessa” mostrano donne che passano le giornate a spazzare il fango e bambini che si passano la palla tra pozzanghere puzzolenti. Non sono forniti servizi pubblici, né assistenza sanitaria, e anche la scuola non è un diritto. Talvolta, nelle città italiane i minori rom delle baraccopoli sono respinti dalla scuola «perché non c’è posto», o perché servirebbero ipotetici documenti. Illegalmente: per la legge italiana, la scuola accoglie tutti, indipendentemente dallo status giuridico dei genitori, nella convinzione che negarla vorrebbe dire rubare il futuro a un giovane.
Quest’anno, i bambini di Giugliano – di un campo “attrezzato” e “regolare” – non vanno alla “scuola normale”: il Comune ha deciso che per loro è necessario un prescuola, perché in futuro (!) possano magari andare nelle scuole pubbliche. «Più che un progetto di integrazione e socialità, è l’ennesima ghettizzazione», secondo Leombruno. «I bambini frequentano un centro per soli rom, senza incontrare coetanei non rom. A turno, ciascuno va uno o due giorni alla settimana, in base alla lista redatta dalle “maestre” – non quelle della “scuola normale”, quelle “del prescuola speciale per i rom”». Qualcuno va «tehara» (domani), qualcuno spera che dopodomani sia il suo turno, qualcuno va «forse».
    La vicenda del campo “regolare” di Giugliano è quella di un “trasferimento fuori”, ai margini della città. È la rimozione operata dalla comunità cittadina: in senso psicanalitico, è la censura dei propri lati oscuri e delle proprie ansie, della marginalità che provoca panico morale ed è individuata come una minaccia. Nel campo dell’edilizia, la rimozione è invece lo spostamento fisico dei detriti, buttati in discarica. Qui coincidono.
Intanto, i ragazzi della “Terrapromessa” di Giugliano crescono in un ghetto, buttati anche loro in discarica, soffrendo maggiormente l’esclusione sociale di cui è vittima il gruppo a cui appartengono. Magari in attesa che gli si faccia la predica sulla volontà di integrarsi



Case popolari, offensiva Lega Solo a chi è qui da 15 anni"
la Repubblica Milano, 03-02-2014
ANDREA MONTANARI
LA LEGA in Lombardia chiede di innalzare da cinque a quindici anni di residenza sul territorio regionale il limite per poter asse- gnare una casa popolare. La proposta di legge del Carroccio chiede di modificare l'attuale regolamento. «Troppi stranieri ormai fanno concorrenza ai nostri Cittadini». L'opposizione di centrosinistra insorge: «Solo propaganda, è una norma incostituziona- le» attacca il Pd. Riserve anche da Forza Italia e Nuovo centrodestra. Nel frattempo, i leghisti propongono anche un sostegno ai pensionati al minimo.
LA LEGA in Regione chiede di innalzare da cinque a quindici anni di residenza in Lombardia il limite per l'assegnazione delle case popolari. La richiesta di modificare il regolamento che fissa i criteri per la redazione delle graduatorie è contenuta in un progetto di legge composto da un solo articolo. Il testo è ormai pronto e riassume il diktat lanciato dieci giorni fa dal segretario federale del Carroccio durante l'incontro a Milano tra i tre governatori del Nord, Roberto Maroni, Roberto Cota e Luca Zaia. «Ci sono molti stranieri che hanno la residenza da diversi anni in Lombardia e fanno concorrenza ai Cittadini lombardi nelle graduatorie per avere una casa —spiega il capogruppo della Lega in Regione Massimiliano Romeo—. Il limite del cinque anni ormai è superato. Non si tratta di violare la Costituzione, ma di garantire il diritto alla casa ai lombardi».
Il nuovo regolamento sarebbe solo il primo passo di una serie di restrizioni per i non residenti da almeno quindici anni sul territorio regionale, che la Lega vorrebbe introdurre anche per ottenere altri contributi regionali.
Pronta e duríssima la reazione dell'opposizione di centrosinistra. «La Lombardia non può essere governata con le sparate elettorali della Lega —attacca il capogruppo del Pd in Regione Alessandro Alfieri — . Fissare il criterio dei quindici anni di residenza per accedere ai contributi regionali significa intraprendere una Strada impraticabile e contraproducente, perché è in contrasto con la Costituzione, come già più volte sperimentato. Siamo alla pura propaganda».
Il Carroccio, però, non sente ragioni e contro replica. «Il criterio della residenzialità nelle assegnazioni di case popolari è stato giudicato ben tre volte dalla Corte costituzionale. La Corte ha sempre escluso l'illegittimità costituzionale della norma della Regione Lombardia che prescrive, ai fini dell'accesso a gli alloggi di edilizia residenziale pubblica, il requisito della residenza in Regione da almeno cinque anni».
Nonostante queste rassicurazioni, la sortita della Lega sembra lasciare perplessi anche gli altri partiti della maggioranza di centrodestra. «non contestiamo il principio che i servizi debbano andare ai lombardi — osserva il capogruppo dell'Ncd Mauro Parolini — ma serve attenzione. Sappiamo che presto si voterà per le elezioni europee e la Lega per questo sta assumendo posizioni esasperanti. Su questo terreno noi non ci stiamo. Non ci interessa sventolare bandiere che poi vengono impugnate dal governo. Se vogliono fare propaganda, la facciano, ma non contino su di noi». Frena an che il capo grupp o di Forza Italia in Regione Claudio Pedrazzini: «Un provvedimento del genere va verificato dal punto di vista normativo. Non si può negare un diritto a chi vive perfettamente integrato in Lombardia da diversi anni e paga regolarmente le tasse».



Germania, la destra contro i rom: «Ci invadono»
l'Unità, 02-02-2014
Paolo Soldini
«La Romania è entrata nell’Unione europea con tutti i suoi Rom». Il capo del governo di Bucarest Traian Basescu è stato chiarissimo: la Romania non accetterà discriminazioni etniche nell’accettazione dei suoi cittadini in Germania, in Gran Bretagna e in tutti gli altri stati dell’Unione. È caduta così l’assurda pretesa avanzata da più parti sia a Berlino che a Londra di distinguere legalmente tra immigrati rumeni (e bulgari, perché il problema è comune) «normali» e immigrati di etnia rom: sono tutti cittadini con uguale dignità e uguali diritti, anche quando si recano in altri Paesi. Il principio dovrebbe essere pacifico, ma – fino alle perentorie parole che Basescu ha pronunciato a Berlino (e presumibilmente nei colloqui che aveva avuto prima con i dirigenti tedeschi) – non lo era affatto. L’idea che si possano discriminare i Rom inventando per loro regole e divieti che non valgono per i loro connazionali è abbastanza diffusa e il premier rumeno ha ricordato che qualcuno questa politica ha provato pure a metterla in pratica: l’Italia, al tempo del non rimpianto ministro dell’Interno Maroni, provò a rimpatriare d’autorità gli «indesiderati» di etnia rom e cittadinanza rumena. Con l’unico risultato che quasi tutti, appena scesi dagli aerei su cui erano stati caricati a forza, ripartirono per il Bel Paese, al cui governo le autorità di Bruxelles ricordarono con una certa rudezza gli obblighi derivanti dalle regole della libera circolazione all’interno dell’Unione. Dal 1° gennaio scorso sono caduti i limiti per i cittadini di Bulgaria e Romania, fissati al momento del loro ingresso in Ue nel 2007.
Timori d’invasione
Proprio questa scadenza ha sollevato in vari Paesi, ma soprattutto in Germania e nel Regno Unito, una sindrome da invasione del tutto irrazionale e ingiustificata, o meglio: spiegabile con le pulsioni populistiche delle destre dei due Paesi. Nella Repubblica federale a cavalcare la tigre è stata ed è prevalentemente la Csu, la sorella bavarese della Cdu della cancelliera Merkel. Da settimane è in corso una campagna contro gli «immigrati per povertà», che arriverebbero in Germania dai due Paesi balcanici con l’unico obiettivo di approfittare indebitamente delle misure del welfare tedesco: sussidi di disoccupazione, contributi per la maternità e via elencando. Sui muri di Monaco e delle altre città del Land compaiono manifesti in cui si minaccia: «Chi imbroglia vola via». La realtà è molto diversa. Secondo l’Ufficio federale del lavoro i cittadini rumeni e bulgari che vorrebbero emigrare in Germania sono non più di 180mila, oltre un quarto dei quali con titoli di studio alti: soprattutto medici e ingegneri, ma anche informatici, infermieri, operai specializzati. Secondo i ricercatori dell’Istituto per gli studi economici di Colonia il saldo tra la spesa per le prestazioni sociali che verrebbero erogate agli immigrati balcanici e gli introiti per lo Stato in termini di tasse e contributi sarebbe largamente positivo. D’altra parte, tutti gli istituti di ricerca concordano sul fatto che l’economia tedesca è in una fase in cui ha un forte bisogno di manodopera e il governo federale ne è ben consapevole, visto che promuove continue campagne di richiamo di stranieri, qualificati o meno.
Non si sa quanti dei 180mila in arrivo da Bulgaria e Romania sarebbero di etnia rom: numerose missioni inviate nei mesi scorsi in Romania per indagare sulla quantità di Rom intenzionati a partire per la Repubblica federale non hanno permesso di accertarlo. Certo, nessuno nega che qualche problema di integrazione delle comunità nomadi rumene e bulgare, comunque, si porrà, come peraltro si è già posto in altri Paesi, come l’Italia e la Francia, ma anche in Germania e in Austria, dove un certo flusso migratorio di gitani orientali si registra da anni. Ma i problemi sono del tutto gestibili e, soprattutto, le autorità dei due Paesi sono intenzionate a farsene carico. Basescu ha proposto a Berlino un programma di sostegno alle comunità rom in Germania. Bucarest potrebbe inviare forze di polizia, medici, assistenti sociali e soprattutto educatori e insegnanti che si prenderebbero cura degli emigrati di origine rom. Esperienze simili sono state già compiute, per esempio in Italia per quanto riguarda la collaborazione delle polizie, e hanno dato buoni risultati.
    


Il tacito esaurimento dei centri di identificazione
l'Unità, 31-01-2014
Italia-razzismo
La settimana scorsa il Senato ha approvato un emendamento al disegno di legge in materia di sanzioni penali, che delega il governo ad «abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’articolo 10-bis del Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia». Parafrasando: se non è stato adottato alcun provvedimento di allontanamento nei confronti di una persona straniera presente in Italia, l’irregolarità di soggiorno non ha rilievo penale. Se invece un tale provvedimento c’è, non decadono i reati attualmente previsti.
Nell’emendamento viene riaffermato il concetto per cui il reato di immigrazione irregolare è, di fatto, un «illecito amministrativo» che incrimina qualunque tipo di ingresso e soggiorno irregolare. La sanzione penale è prevista per le ipotesi di reingresso dopo un ordine di espulsione. Ciò, in teoria, potrebbe ancora contrastare la Direttiva Rimpatri 2008/115/CE, da cui derivava la sentenza El Dridi (C-61/11/PPU del 28 aprile 2011), perché non garantisce un’esecuzione più rapida dell’espulsione ma pare piuttosto finalizzata ad infliggere una pena.
Nella sentenza El Dridi, la Corte sosteneva che «gli stati membri non possono introdurre, al fine di ovviare all’insuccesso delle misure coercitive adottate per procedere all’allontanamento coattivo una pena detentiva, come quella prevista dall’art. 14, comma 5 ter del d.lgs 286/98, solo perché un cittadino di un paese terzo, dopo che gli stato notificato un ordine di lasciare il territorio di uno stato membro e che il termine impartito con tale ordine è scaduto, permane in maniera irregolare nel territorio nazionale».
Ecco perché quella sentenza, non permettendo l’ingresso in carcere a chi non aveva ottemperato all’ordine di allontanamento, si è rivelata un intervento assai significativo dal punto di vista della criminalizzazione degli stranieri.
L’abolizione del reato di clandestinità nonostante le criticità appena rilevate, incide profondamente nel cambiamento dell’opinione pubblica su questo tema. Fino ad ora, l’esistenza di quel reato aveva proprio costituito la «giustificazione» della sopravvivenza dei Cie: se lo straniero rappresenta una minaccia sociale e un pericolo per l’incolumità e la sicurezza dei cittadini, essi vanno «contenuti», classificati come criminali, reclusi. Nei Cie, appunto.
Nel corso del 2013, quei centri hanno subito un’accelerata decadenza, rivelandosi inefficaci rispetto allo scopo prioritario (appena quattro su dieci dei trattenuti vengono effettivamente espulsi), troppo onerosi e gravemente lesivi della dignità umana. Sembra che si vada verso un loro tacito esaurimento (già chiusi o in via di chiusura quello di Crotone, Bologna, Gradisca, Modena, Milano e Bari), che pure non ne annulla l’attuale funzione di abbruttimento della persona e di mortificazione dei suoi diritti.
Ciò dimostra quanto ci sia ancora da fare.


    
Migranti, 80mila i bimbi nati in Italia da genitori stranieri

Presentato il Rapporto 2013 di Caritas e Migrantes che fotografa la situazione degli immigrati in Italia. Dal 2011 al 2012 leggera ripresa dei matrimoni in cui uno o entrambi gli sposi sono di origine straniera (30.724 nozze). Nel mondo oltre 232 milioni di persone hanno lasciato la loro casa nel 2013
la Repubblica, 31-01-2014
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Quante persone hanno lasciato il proprio Paese nel 2012? Tante, oltre 232 milioni (cioè più del 3% della popolazione mondiale). È un flusso inarrestabile, che continua a scorrere. Nel 2000 erano state "solo" 175 milioni. È uno dei dati globali citati dal Rapporto Immigrazione 2013 di Caritas e Migrantes, che analizza ogni anno la situazione dell'immigrazione in Italia e che è stato presentato oggi a Roma.
I nuovi italiani. All'inizio del 2013 risiedevano in Italia 59.685.227 persone, di cui 4.387.721 (7,4%) di cittadinanza straniera. La popolazione straniera residente è aumentata di oltre 334mila unità (+8,2% rispetto all'anno precedente). L'incremento registrato negli anni è dovuto principalmente all'apporto alla natalità dato dalle donne straniere. Quanto alle provenienze, l'immagine che si ottiene all'inizio del 2013 è simile a quella degli ultimi anni: tra gli stranieri i cittadini romeni sono la principale collettività con un numero che si avvicina al milione di residenti, pari al 21% del totale. Gli altri cittadini comunitari, invece, hanno percentuali molto più basse che non superano il 2,4% della Polonia. Quindi, in Italia ogni 10 cittadini stranieri residenti circa 3 sono comunitari.
Matrimoni misti e culle. Dal 2011 al 2012 si è registrata una leggera ripresa dei matrimoni in cui uno o entrambi gli sposi sono di origine straniera (pari a 30.724 nozze). Anche i nati da entrambi i genitori stranieri sono aumentati nel 2012 raggiungendo quasi le 80mila unità (il 15% del totale delle nascite in Italia). Se poi a questi si aggiungono i figli nati da coppie miste, si arriva a poco più di 107mila nati da almeno un genitore straniero (il 20,1% del totale delle nascite nel 2012). E soprattutto su questa popolazione che in prospettiva, ruota il dibattito sullo Ius soli e la cittadinanza.
Stranieri e crimini. Quanto gli stranieri incidono sulla criminalità? "Gli stranieri occupano nella criminalità - si legge nel Rapporto - posizioni di prevalente manovalanza commettendo i reati meno remunerativi, ma più visibili; si tratta, per lo più, di una devianza ricollegata alla precarietà delle condizioni di vita; la maggior parte delle azioni criminose commesse da stranieri appartiene alla sfera della criminalità diffusa, quella che si sviluppa in strada, nei luoghi pubblici o all'aperto; gli stranieri sono anche sottoposti a un maggiore controllo delle forze dell'ordine e ciò porta a una loro significativa incidenza fra le persone denunciate".
Le denunce. "Al 1.1.2013 si registra una tendenza all'incremento tutto sommato contenuto sia fra le denunce ascritte agli stranieri (276.640 nel 2011), che tra il numero dei detenuti (23.000)".
I Cie. Per la gestione dei centri lo Stato destina non meno di 55 milioni di euro l'anno, mentre per la gestione di tutto l'apparato relativo al trattenimento e all'allontanamento dei cittadini stranieri irregolari ha speso, tra il 2005 e il 2012, oltre un miliardo di euro (fonte Lunaria). Su 169.126 persone internate nei centri tra il 1998 e il 2012, sono state soltanto 78.081 (il 46,2% del totale) quelle effettivamente rimpatriate. In compenso, i costi sono molto alti: per fare qualche esempio, la gestione dei servizi nel Cie di Ponte Galeria a Roma per tre anni è stata appaltata per 18 milioni di euro complessivi; 15 milioni sempre per tre anni era l'appalto del Cie e del Cara di Gradisca d'Isonzo.


 

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