Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

18 marzo 2010

«Pallone e razzismo lo non mi arrendo»
Avvenire 18-03-2010
MASSIMILIANO CASTELLANI
Finché nel pianeta football ci sarà almeno un Lilian Thuram, allora si potrà ancora credere in un calcio e in un mondo migliore. A 38 anni, appena lasciato il campo ha creato una sua Fondazione, "Educazione contro il razzismo", per marcare rigorosamente a uomo le coscienze degli uomini, specie quelli che hanno problemi con gli «altri» e che non riescono proprio ad accettare chi è diverso da loro. Insomma, quelli che comunemente indichiamo come "razzisti", non sono diventati i suoi nemici, ma uomini ai quali Thuram tende la mano e soprattutto intende parlare. E ora, per spiegarsi ancora meglio, li invita alla lettura del suo libro, Mes étoiles noires, "Le mie stelle nere". Un libro in cui lei racconta i "neri" che hanno fatto la storia e che comincia con Lucy, per arrivare a Barack Obama... «Comincio da Lucy, dalla creatura "preumana" per spiegare che proveniamo dalla stessa famiglia. Che nella storia è esistita una civiltà egiziana in cui i sovrani erano neri, così come Jean de La Fontaine per le sue favole si ispirava a quelle di Esopo che era anche lui di colore. Due esempi dei 45 ritratti che riporto nel mio libro per dire che siamo partiti tutti dall'Africa e poi ci siamo semplicemente sparsi per il mondo, ma la radice dell'uomo è unica».
Una verità inconfutabile, ma che sembra non entrare ancora nella testa di milioni di persone.
«La variabile in ogni cultura, è data dalla nostra capacità d'immaginare gli altri. Obama è un uomo che ha cambiato l'immaginazione del mondo che ora sa che avere un Presidente americano di colore è possibile. Ma questo ancora non basta... Per fare arrivare certi messaggi, bisogna educare le persone, lavorare sulla loro immaginazione, perché è da lì che nasce il razzismo. Io non mi stanco mai di ripetere che non si nasce razzisti, ma si diventa, proprio per una carenza d'immaginazione, accettando il luogo comune che vuole l'umanità divisa per razze». Lei ha detto che il razzismo degli stadi italiani è lo specchio di un Paese razzista. «Meglio chiarire. Il razzismo è ovunque e non c'è un Paese più razzista dell'altro. Quelli più a rischio, sono i Paesi in cui diminuisce la capacità di immaginare e di conseguenza aumenta il pregiudizio nei confronti di chi è diverso per il colore della pelle, per il suo credo religioso, per chi è straniero e povero. I poveri fanno sempre paura, ma spesso non ci si domanda: perché qualcuno ha lasciato la propria terra lontana per venire a lavorare qui in Occidente? Alla maggior parte delle persone viene spontaneo immaginare che quel povero e straniero è arrivato a "invadere" il nostro spazio e a portare un cambiamento nelle nostre vite. Ecco, il cambiamento, anche il più piccolo, fa sempre terribilmente paura». Questi discorsi va a farli anche nelle scuole, ma come reagiscono i ragazzi? «Quando vado nelle classi di bambini, loro mi dicono che riconoscono quattro tipi di razze: nera, gialla, bianca e rossa. Dei neri sanno che sono i più veloci, più forti fisicamente e cantano meglio di tutti. I gialli sono forti in matematica e campioni di ping-pong. Ai bianchi riesce bene un po' tutto quello che sanno fare le altre due razze, mentre dei rossi non sanno niente, anche perché in Francia non si vedono più film alla tv sugli indiani d'America. Ma qualcuno, ha detto loro che quelli sono i rossi... Noi dobbiamo cambiare questa prospettiva della divisione, dobbiamo educare le persone fin da piccoli, anche perché i bambini sanno stare insieme senza pro¬vare paura per le loro differenze. E poi i bimbi vedono cose che noi ignoriamo...». Cosa vedono gli occhi dei bambini? «A mio figlio Chefren un giorno quando vi¬vevamo a Torino e io giocavo nella Juventus, ho detto: "Tu sei l'unico nero nella tua clas¬se, gli altri sono tutti bianchi". E lui mi rispose: 'No papà, io sono marrone e i miei compagni hanno la pelle rosa". L'immaginazione dei bambini vede la realtà com'è e sa dargli i giusti colori, cosa che molti adulti purtroppo non hanno mai imparato a fare». Quegli adulti che frequentano le Curve dei nostri stadi urlano "buu-buu" ai giocatori di colore e cantano a Mario Balotelli che "non esiste un nero italiano"... «Anche a me facevano i "buu-buu" quando sono arrivato al Parma, così come a Fabio Cannavaro gridavano "terrone" negli stadi del Nord. Una volta un avversario mi ha detto in faccia "sporco negro", eppure io sono un europeo, un francese. In Francia il primo gio¬catore di colore in nazionale è stato Raoul Diagne, i suoi venivano dalla Guyana. Venne convocato nel 1931, ma la storia francese è fat¬ta di colonie, quella dell'Italia no. E ora im¬magino che ci sia chi si stupisce che Balotelli e gli altri due giocatori di colore (Ogbonna e Okaka) abbiano giocato insieme nella stessa partita con la vostra nazionale Under 21. È un fatto puramente culturale che ci sta, inaccettabile invece, è il non considerare Balotelli italiano».
Il ragazzo infatti spesso reagisce male in campo. Ma è comprensibile? «Quei cori non devono fargli né caldo né freddo, perché né io né lui siamo delle "scimmie". È quello che avrei voluto dire a Balotelli quando l'ho chiamato per parlargli, ma come molti calciatori famosi, non risponde mai al telefono... Lui comunque è una vittima del razzismo e sbagliano molti suoi colleghi e lo stes¬so presidente Moratti a sminuire certi episodi che si sono ripetuti. Per affrontare e superare un problema, bisogna riconoscerne l'esistenza. E ha sbagliato anche la Federcalcio che dopo la gara con il Chievo, in cui Balotelli era stato insultato, non doveva multarlo per la sua reazione, ma avrebbe fatto bene a convocare il ragazzo e a dirgli pubblicamente: guarda, noi siamo dalla tua parte, capiamo che è molto ingiusto quello che ti sta capitando e non possiamo più accettare che queste cose accadano. Ma nessuno l'ha fatto...». Nessuno, nonostante le continue minacce, finora ha avuto il coraggio di fermare una partita per i cori razzisti nonostante si sentano ogni domenica in quasi tutti gli stadi. «Le società spesso si difendono con il dire che non è possibile chiudere la bocca ai loro tifosi. Allora io penso che è ora di agire. La partita non va interrotta, facciamola finire, ma se quei cori arrivano dalla Curva della squadra di casa, il giorno dopo cominciamo con il toglierle 3 punti. Qualche presidente comincerà a riflettere e sono sicuro che a quel punto prenderanno provvedimenti molto rapidi».
Cosa ne pensa del suo amico Zidane che giorni fa ha detto che piuttosto che fare la pace con Materazzi preferirebbe morire? «Conosco bene Zidane e la sua intelligenza e mi sembra molto strano che possa aver detto una frase del genere. Forse a qualcuno ha fatto comodo far passare quel tipo di messaggio che certo fa notizia. Io ero in campo in quella finale Italia-Francia del 2006 e conosco la storia e i due giocatori. Di Materazzi mi ha sempre colpito una cosa: fuori è un'altra persona, poi appena scende in campo si trasforma e questo non lo trovo giusto perché il calcio è un divertimento e non una 'guerra". E questo non dobbiamo mai dimenticarlo, perché il mondo ci guarda». Il calcio quest'anno vola per la prima volta in Sudafrica, un'edizione storica dei Mondiali. Che significato può avere? «Prima di scrivere il libro ho fatto un sondaggio e l'80% delle persone associava la parola 'nero" all'Apartheid. Nero quindi nell'immaginario comune indica un uomo emarginato, inferiore e quindi la società in cui vive ha il timore che ciò che non è al suo livello, possa trascinare tutti ancora più in basso. Sudafrica 2010 per prima cosa può dire al mondo che questo non è mai stato vero, che l'Apartheid era ieri. Oggi Mandela e le generazioni a venire devono sentirsi non più razza o nazione, ma un'unica comunità umana in cui il primo diritto per tutti è quello alla vita». Che cosa rappresenta oggi il calcio per Thuram?
«Tempo fa ero a Parma con i miei figli Marcus e Chefren e a un certo punto in una piazza c'erano due ragazzi che giocavano con un pallone. Dopo qualche minuto sono arrivati altri due e con loro c'era una ragazza che ha messo la sua borsa a terra a fare da palo. Poi altri due ancora, ed erano di colore e di nazionalità diverse. Alla fine, sotto i nostri occhi hanno giocato per un'ora una partita 6 contro 5. Ecco, per me rimarrà sempre l'immagine vera di questo sport. Un linguaggio universale che esprime la voglia di condividere, da quando sei bambino fino al giorno in cui avrai ancora voglia di giocare insieme agli altri. E in questo, il calcio è davvero lo specchio della vita».
Lilian Thuram
L'ex nazionale francese e difensore di Juve e Parma ora si dedica a tempo pieno all'anrirazzismo e ha appena scritto un libro che presenta nelle scuole
Un "campione del mondo" dell'impegno
È il giocatore con il maggior numero di presenze nella nazionale francese, campione del mondo nel '98 e d'Europa nel 2000. Lilian Thuram nato in Guadalupa nel 1972, è cresciuto calcisticamente nel Monaco, prima di arrivare in Italia (Parma e Juve). A 36 anni ha chiuso la carriera nel Barcellona. «Prima di sfondare nel calcio volevo diventare sacerdote», confessa. Oggi ha creato la Fondazione "Educazione contro il razzismo" e appena pubblicato il libro "Mes étoiles noires""Le mie stelle nere" lEdicion Phlippe- Rey)





LE CAUSE DEI VIOLENTI SCONTRI TRA PASTORI I SUMICI E CONTADINI CRISTIANI
IN NIGERIA I POVERI PACANO PER LE COLPE DEI POTENTI

di Giulio Albanese missionario comboniano
18 marzo 2010
E inconcepìbile che ancora oggi debbano morire centinaia di persone, quasi fossero carne da macello. Eppure, l'ennesima ignobile mattanza nigeriana è avvenuta il 7 marzo scorso nello Stato del Plateau. Poco prima dell'alba, bande estremiste di pastori nomadi musulmani hanno massacrato 500 contadini stanziali cristiani, assieme ai loro familiari nei villaggi di Dogo Nahawa, Zot e Ratsat.
Da quelle parti, purtroppo, questi fatti aberranti sono diventati una macabra consuetudine. Nel solo Stato del Plateau, già nel 2001, nel 2004, nel 2008 e nel gennaio scorso, hanno perso la vita, in circostanze simili, centinaia e centinaia di persone.
Col risultato, tra l'altro, che i re-sponsabili e i mandanti, ben noti alle forze dell'ordine e all'esercito, come anche ai politici di turno, sono puntualmente tornati a piede libero. Una grave ingiustizia, foriera di sventure sul destino della più popolosa nazione africana con i suoi quasi 140 milioni di abitanti.
Stiamo parlando della Nigeria, un Paese che galleggia sul petrolio, nel quale l'un per cento della popolazione detiene oltre due terzi della ricchezza nazionale e le disparità sociali rappresentano il terreno fertile del fanatismo religioso. Ecco perché le stragi di cui sopra rappresentano un dato inquietante sul quale occorre riflettere con imparziale lucidità per evitare fraintendimenti. Anzitutto sarebbe fuorviarne dividere lo scenario tra "buoni" e "cattivi": questa volta, infatti, gli attori delle violenze sono stati pastori musulmani dell'etnia Fulani, la volta precedente, in gennaio, gli scontri erano iniziati per colpa di cristiani pseudo evangelici.
Ma stando agli analisti, questo straripante fiume di sangue è in gran parte imputabile a certi poteri, più o meno occulti, ten-denzialmente avvezzi al denaro, i quali, utilizzando la riottosità di questa o quella frangia, hanno lo scopo di destabilizzare l'autorità statuale e più in generale il Governo centrale di Abuja, in vista delle presidenziali in programma il prossimo anno. Sarebbe pertanto riduttivo scagliarsi solo contro certi predicatori fautori della Sharia, la legge islamica, o sui leader delle sette pseudo evangeliche che pullulano in Nigeria.
Come già denunciato in più circostanze dall'episcopato cattolico locale, vi sono responsabilità condivise anche nelle alte sfere, da parte di coloro che avrebbero dovuto fare ogni sforzo per scon-giurare questi massacri.
Il riferimento è indirizzato a esponenti delle classi dirigenti, delle forze dell'ordine e dei servizi di sicurezza che, pur dispo-nendo di informazioni preventive, hanno fatto poco o niente, quasi vi fosse un copione da eseguire a tutti i costi. Emblematico è il caso dell'applicazione della legge islamica, entrata in vigore da un decennio negli Stati settentrionali del Paese, un'imperdonabile debolezza dell'allora presidente Obasanjo che non tutelò sufficientemente la laicità del dettato costituzionale federale di un Paese che non è mai stato una Repubblica islamica.
Di converso il proliferare di sette cristiane fondamentaliste, soprattutto nelle baraccopoli e nelle zone rurali, è anch'esso sintomatico di strumentalizzazioni di parte che vedono coinvolti personaggi legati alla politica o addirittura alla malavita organizzata.
Sarebbe un errore, pertanto, estendere le responsabilità di quanto accaduto solo alle due comunità religiose, trattandosi di un fenomeno che tocca frange violente giovanili, dei ceti meno abbienti, disperati e quindi manipolabili. E a pagare il prezzo più alto è sempre la povera gente.








Clandestini Cassazione senza pietà
il Fatto quotidiano  12-03-2010
Enrico Fierro
Un Paese che non ha più pietà. Un Paese che si batte il petto per la famiglia e per la sua unità, ma solo se mamma e papà hanno la pelle bianca e sono cittadini di pura "razza italica". Una brutta Italia ossessionata dall'incubo delle sue frontiere assediate da orde di barbari. Annibale è alle porte e allora prevalga, sempre e comunque, l'esigenza di tutelare i sacri confini. Anche quando a minacciarli è un povero cristo con regolare permesso di soggiorno e in trepi¬dante attesa della cittadinanza italiana. Che ha i figli a scuola. Bambini che parlano bene la lingua, che hanno legato con i loro amichetti italiani, che studiano con profitto. E che hanno bisogno come l'aria di un padre presente, affettuoso sempre, severo quando serve. Un padre. Come tutti gli altri bambini. Ma la Corte di Cassazione non la pensa cosi: su tutto, sui bambini, sul loro equilibrio, sul loro sistema affettivo, prevalga l'esigenza di tutelare i sacri confini. Ecco quindi la sentenza: i clandestini vanno espulsi anche se hanno figli a scuola. Quanti danni, quante lesioni profonde del vivere civile e finanche dei sentimenti minimi che devono dare anima ad una comunità hanno prodotto anni e anni di razzismo. Si, razzismo, altre parole non ci sono e non servono. Razzismo agitato come arma propagandistica, che ha truccato numeri e statistiche, ha piegato la realtà a suo uso e consumo, fino a diventare una vera e propria ideologia. Mai sufficientemente contrastata, né da una cultura spesso distratta, né da una opposizione sempre flebile. Che ha sorriso giudicando stravaganti alcune iniziative di sindaci leghisti (il divieto di sedere sulle panchine, gli ostacoli ad aprire moschee e luoghi di culto non cristiani, l'ossessiva propaganda), senza capire il male che stava divorando l'Italia. "Tolleranza zero", quante volte abbiamo sentito questa pessima formuletta senza accorgerci che migliaia di uomini e donne che vivono nel nostro Paese sono invece a "diritti zero". Poveri cristi utili a tirar su le nostre case nei cantieri, ad assistere i nostri vecchi malati e soli, a raccogliere le nostre arance a Rosarno, a muovere le fabbriche del Nord, ma senza uno straccio di diritto. Neppure quello di sognare un futuro.






HASTA LA VICTORIA!

I dissidenti cubani in sciopero della fame, quelli che muoiono in carcere, la ribellione sul Web, le contromisure intimidatorie del regime in affanno
IL FOGLIO 18-03-2010
Maurizio Stefanini
Quando si cammina a Cuba, specie per le strade più vecchie, sono molte quelle case che tu le guardi, e ti chiedi: ma come farà a stare in piedi? Mura che cadono, vernice scrostata, finestre rotte... Eppure, reggono. Un giorno, qualcuno, con un po' di buona volontà, decide che è ora di dare una risistemata, e comincia col risistemare una vite. In quel momento, crolla tutto". Dopo la morte, il 23 febbraio scorso, di Orlando Zapata Tamayo, do¬po ottantatré giorni di sciopero della fame, anche il dissidente Guillermo Farinas Hernàndez è finito in ospedale, 111 marzo scorso. E il 10 marzo Felix Bonne Carcassés, un terzo dissidente, ha annunciato che se Farinas muore si metterà a sua volta a fare sciopero della fame a oltranza al suo posto. "Questa è Cuba. La vite che fa crollare tutto potrebbe essere Zapata, Farinas, o semplicemente la rissa a un mercato durante la coda a un banco di pomodori".
L'apologo lo racconta al Foglio Yoani Sànchez: l'ormai leggendaria blogger che, dopo aver lasciato gli studi di filologia per andare in esilio in Svizzera, ha deciso di tornare in patria "per non darla vinta al regime", e ha utilizzato la pratica di Internet che si era fatta tra le Alpi per lanciare Generazione Y. "Un Blog ispirato da gente come me, con nomi che iniziano con o contengono una y. Nati nella Cuba degli anni Settanta e Ottanta, marcati dalle scuole al campo, dalle bamboline russe, dalle uscite illegali e dalla frustrazione". Il suo sito è arrivato a quattordici milioni di visitatori al mese, mentre altre 68 mila persone la seguono tra Facebook e Twitter, contro i diecimila appena che frequentano il sito di Fidel Castro. Time l'ha classificata tra "le cento persone più influenti del 2008", anche se per sopravvivere fa la guida turistica non autorizzata. E ha avuto in Spagna un premio Ortega y Gasset del giornalismo e negli Stati Uniti un Maria Moors Cabot Award, che però non le è stato concesso di andare a ritirare. Così come non le è stato consentito di andare né alla Fiera del Libro di Torino, né al Congresso internazionale della lingua spagnola a Valparaiso, in Cile. Anzi, lo scorso 6 novembre è stata per la prima volta aggredita fisicamente. "Niente sangue ma lividi, colpi, capelli strappati e botte in testa, reni, ginocchia e petto", raccontò do¬po essere stata liberata: o meglio, but¬tata giù da una macchina. A tirarcela dentro a forza, trattenercela per venti minuti e picchiarla a colpi di judo e karaté, mentre stava dirigendosi a una marcia-performance musicale pacifica, tre agenti della Sicurezza di stato in abiti civili.
Botte in quantità erano state distribuite anche durante lo sciopero della fame di Zapata, quando vari oppositori avevano cercato di scendere in piazza per appoggiare la sua protesta. E almeno trenta persone sono state arrestate dopo la sua morte, per impedir loro di recarsi al funerale. L'analisi di Yoani Sànchez è che sia proprio in questo diverso tipo di repressione la principale differenza tra Fidel Castro e suo fratello Raul: "In passato - ci spiega - il governo cercava di infliggere ai dissidenti la morte civile. Non c'era possibilità di esprimersi, non c'era possibilità di organizzarsi, tutti i percorsi di una possibile critica e protesta erano sistematicamente tagliati. Grazie a Internet e alle nuove tecnologie, però, i cittadini sono riusciti lentamente a ricostruire alcuni percorsi, E così ora si sta passando a un tipo di repressione diversa: secca, molto intimidatoria. C'è una paramilitarizzazione della polizia, ci sono agenti dei Servizi che si presentano in borghese a pretendere di agire come se fossero agenti in uniforme". Se vogliamo, insomma, dal modello totalitario sovietico, Cuba sta tornando al più normale autoritarismo arbitario della tradizione latinoamericana. "Sì: da una repressione asettica a una repressione brutale".
Eppure, segnali di apertura non sono mancati, da quando è al potere Raul. La stessa Yoani Sànchez si è trovata il suo lavoro di blogger un po' semplificato, quando il regime ha concesso anche ai cittadini cubani di acquistare tessere prepagate per accedere ai punti internet degli hotel per stranieri: anche se a prezzi di sette-dodici dollari all'ora, in un paese dove il salario medio è di 17 dollari al mese. La povertà limita anche la portata della prima grande riforma di Raul: la liberalizzazione dell'acquisto di elettrodomestici. Di questi giorni è poi l'annuncio della prossima chiusura di cento imprese agricole considerate inefficienti, con la ricollocazione di quarantamila lavoratori: una notizia che va messa assieme, da un lato, alla progressiva chiusura dei "comedores obreros", le mense che davano un pasto gratis ad almeno 3,5 degli 11,2 milioni di cubani; dall'altro, all'iniziativa di affittare a privati 1,7 milioni di ettari di terre demaniali, i cui affittuari avrebbero il permesso di assumere braccianti e di stipulare altri tipi di contratti.
Oltre a qualche abbozzo di Perestroika, c'è stato qualche esperimento di Glasnost. Ad esempio "Juventud Rebelde", organo ufficiale della Union de Jóvenes Comunistas de Cuba, che ha inaugurato una moderata fronda: attaccando la censura, criticando la "verticalità sociale", chiedendo di "cambiare tutto ciò che deve essere cambiato". E il 21 gennaio
alla tv c'è stata una clamorosa puntata di "Mesa Redonda", una specie di "Porta a Porta" locale, che aveva infranto un tabù clamoroso. "A Cuba c'è razzismo, anche se di bassa intensità e di tipo psicologico e non istituzionale", avevano riconosciuto gli intervenuti. L'antropologo Pablo Rodriguez aveva ammesso che "sebbene non vi siano ghetti neri, esista una coesistenza e la violenza razziale non sia su grande scala", tuttavia "esiste una no-tevole violenza verbale". L'economista Esteban Morales aveva spiegato che dopo il 1962 qualsiasi dibattito sul tema era stato rimosso "per non mostrare divisioni della società cubana di fronte agli Stati Uniti". E lo storico Heriberto Feraudy dopo aver detto che "a molti sarebbe sembrato impossibile che si realizzasse un dibattito in tv su questo tema" aveva aggiunto che le leggi e le "missioni internazionaliste" non bastano contro il "male che sussiste nelle menti", se non le si accompagna con "l'azione culturale". Insomma, "il razzismo esiste: non solo per eredità della società anteriore, ma per imperfezioni della società attuale".
Intanto era già in corso la protesta che avrebbe portato alla drammatica morte del "negro" Zapata. E se Raul l'ha deplorata, la stampa ufficiale non ha mancato di insistere sul fatto che il defunto era un "delinquente comune". Di professione muratore e idraulico, Zapata era stato in effetti proces¬sato nel 1993 per violazione di domicilio; nel 2000 per lesioni non gravi, truffa e possesso di arma bianca; nel 2002 per alterazione dell'ordine e disordine pubblico. Incarcerato il 6 dicembre del 2002, era stato posto in libertà condizionata il 9 marzo del 2003. Ma a quel punto si era unito a uno sciopero della fame di dissidenti, e il 20 marzo 2003 si era ritrovato tra i 75 arrestati della cosiddetta "Primavera nera". Disadattato radicalizzatosi in carcere nel contatto con i detenuti politici, come spesso accade nelle rivoluzioni, o oppositore diffamato, come pure accade nei regimi autoritari, Zapata aveva continuato a ribellarsi e ad accumulare condanne. Anche qui, il dissenso e la famiglia sostengono che erano le guardie del carcere a picchiarlo in continuazione. La stessa decisione di intraprendere lo sciopero della fame che l'ha portato alla tomba sarebbe stata dovuta ai tre ultimi pestaggi ricevuti. Un'ulteriore denuncia è sui diciotto giorni di privazione dell'acqua cui il "ribelle" sarebbe stato sottoposto, per costringerlo a mangiare. Quando è arrivato in ospedale aveva la schiena piagata, ed era talmente consumato che hanno dovuto mettergli le flebo sul collo.
Farinas, a differenza di Zapata Tamayo, non è un proletario, ma un intellettuale, con un passato di integerrimo rivoluzionario. Entrambi i suoi genitori lottarono contro Batista, suo padre accompagnò il Che in Congo nel 1965. E lui, dopo aver frequentato una scuola militare in Unione sovietica, combatté nella "missione internazionalista" in Angola. Ferito diverse volte in combattimento, nel 1980 era tra i militari di guardia all'ambasciata del Perù, nel tentativo di impedire la fuga di massa dei cosidetti "marielitos". Costretto a lasciare le Forze armate per i postumi delle ferite in Angola, si iscrisse all'università e ottenne una laurea in Psicologia. Ma dopo la fucilazione del generale Ochoa, suo antico comandante, lasciò per protesta il Partito comunista. In galera finì una prima volta nel 1995, dopo aver denunciato per corruzione la direttrice dell'ospedale pediatrico in cui lavorava. Creatore di un'agenzia di stampa indipendente, più volte aggredito da agenti del regime, dal 1995 in poi si è messo diciannove volte in sciopero della fame. Nel 2005 addirittura per sette mesi, chiedendo la libertà di accesso a Internet per tutti i cubani. L'ultima protesta è iniziata il giorno dopo la morte di Zapata, e ha come obiettivo la liberazione di ventisei prigionieri politici in gravi condizioni di salute. "E' ora che il mondo si renda conto di quanto questo governo è crudele, e ci sono momenti nella storia dei paesi in cui ci debbono essere martiri". Anche Farinas è negro.
E' negro anche Bonne: ingegnere e professore, fu uno dei quattro arrestati nel 1997 per "azioni contro la sicurezza nazionale dello stato cubano" e "sedizione": aveva diffuso uno scritto sul quinto congresso del Partito comunista cubano. E' negro Manuel Cuestua Morta: un leader del dissenso di ispirazione socialdemocratica vicino alle sinistre europee, in passato accusato da altri dissidenti di essere troppo morbido col regime. Ma sul caso Zapata è stato durissimo: "Se la sono presa con lui perché era negro!" E' negro Juan Carlos Gonzàlez Mareos "Panfilo": disoccupato e alcolista, nei mesi scorsi, grazie a YouTube, aveva fatto ridere mezzo mondo per come aveva cominciato a irrompere sugli schermi, reclamando in modo sconclusionato contro la fame dei cubani:condannato a due anni, è stato rilasciato ma sotto stretta sorveglianza. E' negro il medico Oscar Elias Biscet: cattolico antiabortista condannato a venticinque anni, perennemente m cella di punizione. E' negro Darsy Ferrer, condannato con la pretestuosa ira putazione di "acquisto illegale di cemento al mercato nero". Ed è negro Jorge Luis Perez "Antunez": dopo diciassette anni di carcere per "propaganda nemica orale" vive tuttora assediato dalla polizia politica. "Come Zapata, anch'io sono stato torturalo per il colore della mia pelle", denuncia.
"Questa rivolta dei negri è l'aspetto nuovo", spiega al Foglio Carlo:; Carralero, scrittore esule in Italia e presidente dell'Unione per le libertà a Cuba, che ha inviato all'Unione europea una protesta sulP"intolleranz,a feroce del regime dei fratelli Castro". Carralero ricorda tra questi "negri ribelli" anche Juan Almeida Garda: ora coordinatore del suo gruppo, lì glio di quello che fu il numero tre e il negro più illustre del regime, il comandante Juan Almeida Bosque. Carralero dice che "a Cuba, in questo momento, ci sono sei-settemila dissi denti dichiarati. I prigionieri politici nessuno sa quanti siano veramente, neanche Elizardo Sànchez". Ovvero il promotore di quella Commissione cu bana dei diritti umani e riconciliazione nazionale, che cerca affannosa mente di tenere il conto basandosi sulle testimonianze dei detenuti liberati. "L'ultima stima era di 211". Carralero ce ne ricorda un altro in pericolo di vita: Ariel Sugler Tamayo, cui tre anni di detenzione hanno fatto perdere sessanta chili. "Ha terribili problemi di reni, emorragie intestinali, tonsillite cronica, il fratello dice che ha tutti gli organi compromessi".
"Il sacrificio di Orlando Zapata ha segnato un prima e un dopo nella lotta per i diritti umani", dice Antunez. "Molti che hanno sempre appoggiato il sistema totalitario adesso si interrogano su che tipo di regime è questo che definisce terrorista chi muore di sciopero della fame". "La gioventù sa che in questo sistema non ha più fu¬turo". "La supposta liberalizzazione di Raul non è stata che un'illusione creata dai media stranieri", ci dice infine Yoani. "I pochi ritocchi cosine tici non hanno potuto influire veramente nella vita privata. La gente, che pure aveva molte aspettative, è
rimasta delusa. E per questo la re pressione è aumentata". D'altronde, ogni tentativo autentico di riforma non farebbe che precipitare la crisi. "Raul non è stato eletto dal popolo, ma ha ricevuto un feudo per il quale risponde a chi glielo ha dato. Al fon do, il suo obiettivo è solo guadagnare il tempo che gli serve per concludere la sua vecchiaia in pace e morire nel suo letto, senza dover fuggire in esilio o essere chiamato in tribunale a rendere conto".
Molti attribuiscono a Raul Castro una propensione per il modello cinese: un'apertura economica accompagnata dal mantenimento dell'autoritarismo politico. "E' un'alternativa che avrebbe potuto essere costruita a partire dalle riforme economiche del 1994, quando fu consentito ad esempio di aprire i ristorantini privati", spiega Yoani. "Ma poi, su chi aveva guadagnato qualcosa con il proprio lavoro si sono sempre abbattute pe-riodiche sfuriate 'antiborghesi', l'economia è tornata a essere centralizzata, e anche sull'ultima apertura in agricoltura pesano questi precedenti. Non c'è certezza del diritto, la gente non sa se guadagnando e comprandosi così una macchina o una casa non finirà per essere punita e riespropriata come 'profittatrice'. D'altra parte noi siamo cubani, non cinesi. A Cuba non c'è una cultura che possa continuare a tenere la gente sottomessa, una volta che le forze produttive vengano liberate".







La svolta è arrivata con il reato di clandestinità
il Giornale,18-03-2010
" La questione dell'immigrazione clandestina è di grande importanza e delicatezza. Distinguere l'immigrazione clandestina dagli immigrati regolari è la prima forma di tutela per questi ultimi e per accelerare il loro processo di integrazione nella società italiana. L'Italia non è un Paese razzista ed è intenzione del governo agire affinché non lo diventi. Proprio per evitare questo pericolo e per colpire lo sfruttamento dei clandestini da parte della criminalità, sono state approvate nuove leggi e messe in atto nuove iniziative nazionali e internazionali. Come notato da diversi osservatori non di parte, il reato di clandestinità è la rivendicazione da parte dello Stato del suo diritto al pieno controllo del territorio e dei suoi confini, il «tratto fondante» delle prerogative di uno Stato: il principio della sovranità territoriale. Il reato di clandestinità, le norme più dure contro i trafficanti di uomini e contro chi favorisce la permanenza dei clandestini in Italia, l'attuazione a partire da maggio 2009 dell'accordo con la Libia che ha di fatto portato alla cessazione degli sbarchi, sono misure che hanno cominciato a dare frutti nel 2009.
ACCORDO ITALIA- LIBIA PER BLOCCARE I CLANDESTINI
Dal 6 maggio 2009 sono iniziati i pattugliamenti italo-libici per prevenire la partenza degli immigrati clandestini verso l'Italia. Le imbarcazioni intercettate in acque internazionali sono dapprima soccorse e poi subito riaccompagnate ai porti di partenza in Libia. L'obiettivo di bloccare gli sbarchi è stato raggiunto. Gli sbarchi da maggio a dicembre 2009 sono diminuiti del 90% rispetto allo ste¬so periodo dell'anno precedente.
LA CLANDESTINITÀ È REATO
Rendere la clandestinità reato ha anche lo scopo di facilitare l'effettiva espulsione del clandestino: per le norme europee sui rimpatri, l'espulsione con accompagnamento nel Paese d'origine è possibile solo se c'è condanna per un reato. L'immigrato irregolare è punito con una ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Da agosto 2009 sono stati denunciati 12.500 immigrati irregolari. Inoltre è prevista l'espulsione anche per i cittadini stranieri comunitari privi di reddito o che siano stati condannati a una pena di due anni di reclusione (fino al 2008 per essere espulsi la pena doveva essere di dieci anni).







SEI MESI DI TEMPO PER IDENTIFICARE ED ESPELLERE I CLANDESTINI
Il Giornale 18 marzo 2010
I Centri di permanenza temporanea (Cpt) sono diventati Centri di identificazione ed espulsione (Cie).La permanen-
za nei centri è stata triplicata (da due a sei mesi) per permettere l'identificazione e organizzare il rimpatrio. Questa norma è in linea con la direttiva dell'Unione Europea del 24 dicembre 2008, che afferma che i clandestini possono essere trattenuti fino a sei mesi quando vi sia pericolo di fuga o se il Paese di provenienza ostacola il rimpatrio. Il datore dilavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno o con permesso scaduto e del quale non sia stato chiesto il rinnovo nei termini di legge, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5mila euro per ogni lavoratore irregolare impiegato.
Carcere fino a tre anni per chi affitta casa allo straniero senza permesso di soggiorno. Con la condanna scatta anche la confisca del bene. A fine maggio 2009 sono 796 le persone denunciate per questo reato: 533 nel 2008 e 263 nel 2009.









«Razzisti? Prima non lo eravamo perché non c’erano gli stranieri»
Il sociologo Domenico De Masi: nessuna gradualità negli arrivi
il Corriere della Sera edizione Roma 18 marzo 2010
«Purtroppo ci stiamo scoprendo come un Paese razzista perché fino a 20 anni fa eravamo monoetnici: gli episodi che testimoniano questi comportamenti sono talmente tanti...». Esprime preoccupazione e disagio la voce del sociologo Domenico De Masi nel commentare il raid avvenuto domenica sera in un bar di bengalesi alla Magliana.

Gli atteggiamenti xenofobi sono circoscritti o il fenomeno, in modo più o meno palese, sta dilagando?

«Ci sono chiari segnali che il fenomeno stia contagiando larghi strati di popolazione: dai giudizi espressi sull’autobus o in metropolitana alle aggressioni vere e proprie, come quella alla Magliana, dimostrano che il problema c’è».

Ma si tratta più di razzismo o di teppismo?

«Al di là dei singoli episodi, assistiamo alla fusione del disagio giovanile, tipico delle periferie, povere di centri di aggregazione e di punti di riferimento, con l’incapacità di gestire la polietnicità».

Secondo lei, quindi l’essere rimasti monoetnici fino a circa 20 anni fa ci ha danneggiato?

«Eccome: quando negli anni ’60 studiavo in Francia, a Parigi, c’era già una società multietnica. Stesso discorso in Gran Bretagna, in Olanda e in Spagna dove l’integrazione tra bianchi e neri, tra etnie è stata assorbita in modo graduale».

In Italia invece non siamo stati capaci di affrontare questo tema. Perché?

«Avevamo creato uno stereotipo:

"noi non siamo razzisti". Ci credevamo immuni. In parte era vero perché non c’erano stranieri. Quando, però, sono arrivati in massa, abbiamo avuto la stessa reazione che è stata vissuta negli Stati Uniti. E l’ondata ci ha colto di sorpresa: così mentre attualmente negli Usa sta diminuendo, da noi avviene il contrario...».

Eppure in Italia l’opinione pubblica si è formata nel dopoguerra sul cattolicesimo e sul comunismo.

«Queste ideologie dell’accoglienza e della solidarietà umana, di cui noi siamo portatori, purtroppo non ci hanno salvaguardato e abbiamo subito abiurato».

Come si deve reagire di fronte a quest’ondata xenofoba?

«Le strade sono due: chi è razzista, rimane razzista. Quindi si deve puntare sui giovani, attraverso la scuola e i mass media per combattere la xenofobia e l’intolleranza, e diffondere messaggi di uguaglianza, rispetto del diverso, cooperazione tra popoli, solidarietà e carità umana».

Ma a volte dal mondo politico arrivano messaggi contrastanti all’opinione pubblica.

«Certe battaglie che porta avanti la Lega a difesa della razza padana giustificano la caccia al diverso».








Raid, la banda dei «due fratelli»
il Corriere della Sera edizione Roma 18 marzo 2010
In via Murlo contro il fast food bengalese hanno agito soprattutto ragazzi Ma a guidarli c’erano due trentenni, nipoti di un boss della Magliana
Due fratelli di 35 e 28 anni, poi uno stuolo di ragazzi più giovani. Molti dei quali minorenni. Il gruppo che domenica sera ha assaltato il fast-food bengalese alla Magliana ha una fisionomia. E molti dei partecipanti alla spedizione contro il «Brother» di via Murlo, dove tre immigrati sono stati feriti a bastonate, sono stati identificati dai carabinieri. All’appello ne mancherebbero alcuni, ed è per questo che anche la scorsa notte gli investigatori dell’Arma hanno proseguito con gli interrogatori, i riscontri, le testimonianze e i riconoscimenti.
Uno degli ultimi a essere fermato è proprio il più grande. Un pregiudicato, sorvegliato speciale. E anche sottoposto all’obbligo di firma. Forse proprio domenica è andato a firmare dalle forze dell’ordine e poi ha preso parte al raid. Con lui è finito nei guai anche il fratello. Sono i nipoti di un boss della Banda della Magliana. Un’ombra che ritorna anche su questa storia. E poi ci sono un ventenne, e tre minorenni fra i 16 e i 17 anni. Altri due sono stati denunciati. Su di loro pesano accuse gravi: rapina, danneggiamento, lesioni, aggravati dall’odio razziale. A incastrarli sono state le impronte lasciate sulle mazze. Una comitiva composta da giovani della Magliana. Ragazzi che abitano a poche decine di metri dal negozio bengalese: piazza Certaldo, via dell’Impruneta, via della Pescaglia. Un triangolo d’asfalto che costeggia i bar frequentati dai ragazzi messi sotto torchio dai carabinieri, le piazze del quartiere, il fast food assaltato e devastato. E anche i luoghi che sono stati teatro di altre aggressioni.
«Ormai la Magliana è anche casa loro - spiega qualche residente -, e per questo qui non c’è una condanna chiara per quello che è successo. Molti sopportano a malapena questa convivenza». Nei locali non si parla di bulli, ma di «ragazzi che forse hanno esagerato un po’. Ma il razzismo non c’entra proprio niente». Non è escluso che la Magliana sia uno dei primi quartieri romani dove inizierà il monitoraggio annunciato dal prefetto Giuseppe Pecoraro sulle bande giovanili. Che non agiscono soltanto a Roma. Proprio ieri due minorenni sono stati arrestati dai carabinieri a San Felice Circeo, in zona «La Cona». Un commerciante indiano di generi alimentari etnici è stato massacrato di botte per rapina poco prima dell’orario di chiusura da tre giovani armati di bastone. Uno ha precedenti proprio per rapina. I due, destinatari di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Tribunale dei minorenni di Roma, sono stati rintracciati e bloccati dai carabinieri. Ora si trovano in una comunità minorile. Anche a loro, e al complice ancora ricercato, viene contestata l’aggravante dell’odio razziale.







Permesso di soggiorno solo a chi se lo merita
laPADANIA, 18-03-2010
«Arriva il permesso di soggiorno a punti. Il principio è semplice: io ti suggerisco le cose da fare per integrarti nella comunità; se le fai puoi rimanere, se non le fai significa che non vuoi integrarti. La valutazione sarà a carico degli Sportelli unici per l'immigrazione. Il fallimento degli obiettivi comporterà l'espulsione». È questo il tema del nuovo numero di Lega Nord flash, ultimo dei tre realizzati per la campagna elettorale. Da questo fine settimana oltre 500 mila copie saranno disponibili in tutte le sedi regionali e provinciali del Carroccio. Il foglio, curato dal senatore Mario Pittoni, e cofirmato dal ministro alla Semplificazione e Coordinatore delle Segreterie Nazionali leghiste, Roberto Calderoli, stavolta si occupa delle difficoltà di integrazione degli immigrati. Una questione tornata d'attualità in seguito alle violenze di via Padova a Milano che «confermano la crescita incontrollata di un'immigrazione che occupa spazi senza integrarsi, trasformando vaste aree delle nostre città in una sorta di zona franca». L'opuscolo punta l'attenzione su «studi insospettabili, come le ricerche di Cnel e Caritas, che indicano località importanti amministrate dal Carroccio tipo Treviso e Verona -spesso associate dalle cronache a un alto tasso di intolleranza - quali laboratori d'integrazione degli immigrati». In effetti casi paragonabili a quello di Rosarno o di via Anelli a Padova nelle città governate dalla Lega non ce ne sono mai stati. Cosa offrono di più le amministrazioni leghiste? «Chiarezza, innanzi tutto - spiega Lega Nord flash - È benvenuta l'immigrazione regolare che desidera integrarsi e quindi rispetta le regole. Nessuno spazio per i traffici di
clandestini, che alimentano il circolo vizioso della criminalità. Qualcuno prova a diffondere cifre volte a dimostrare che non c'è rapporto fra presenza migratoria e reati. E però ampiamente provata la relazione tra clandestinità e aumento della criminalità». La pubblicazione si chiude sottolineando le parole del cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova (città a forte presenza di immigrati, con seri problemi), il quale riconosce che bisogna saper coniugare all'accoglienza «un altro principio, non meno necessario, quello della legalità, di cui tutti si avverte la necessità per la convivenza sociale».







Per il Pd burqa è libertà e va difeso per legge
Libero,18-03-2010
ANDREA MORIGI
Milano, Il Pd veste burqa. Quando si discute di indumenti islamici, alla commissione Affari costituzionali del Parlamento, i deputati di sinistra si indignano: vietare il velo integrale lederebbe l'articolo 19 della Costituzione che garantisce la libertà religiosa. Lo scrivono, nella relazione alla loro proposta di legge, personalità come Beppe Giulietti, Leoluca Orlando e Marco Minniti. Il primo firmatario è Salvatore Vassallo del Pd, ma lo schieramento trasversale comprende anche l'Italia dei Valori, passando dal gruppo misto. Fino a sconfinare idealmente in una "moschea" alquanto sospetta. Proprio quella dove andava a pregare Mohamed Game, il kamikaze libico che il 12 ottobre scorso aveva colpito una caserma milanese. Sono in viale Jenner, infatti, i consiglieri politici più influenti del legislatore progressista. È al-Husayn Arman Ahmad, direttore dell'Istituto culturale islamico di Milano, con una dichiarazione del 17 gennaio scorso, a fornire la giu-
stificazione dottrinale all'uso del niqab, per l'opposizione "laica" e "democratica" di sinistra. «Il niqab (che copre il volto della donna musulmana) fa parte della fede islamica ed è prescritto dalle fonti, sia il corano che la Sunna», scrive in un parere inviato alla Camera dei Deputati.
È una campagna di pressione. Si uniscono Ben Mohamed Mohamed, della moschea Al-Huda di Centocelle a Roma, il presi-dente della comunità islamica di Venezia, Wael Farhat, e Ouelhazi Touhami, presidente del centro culturale Ettawba di Vicenza, oltre al direttore del centro islamico San Salvarlo di Torino, Mahamed Abdelrahman (con un testo identico a quello di viale Jenner) e l'associazione islamica di Brescia, con il suo presidente Ismail Paolo Pelizzari.
Passa poca differenza, in effetti, fra le pseudo-fatwa scritte dai gruppetti fondamentalisti e il comma 2 del testo frutto dell'ingegno dei quindici parlamentari di opposizione. Non riescono a nascondersi fino in fondo che il niqab e il burqa «veicolano una concezione del ruolo della donna incompatibile con i valori oggi condivisi dai cittadini italiani ed europei». Eppure ritengono di poter fare un'eccezione per «l'uso di indumenti che coprono il volto», purché «sia motivato da ragioni di natura religiosa o etnico-culturale» e a patto che la persona nascosta sotto il sacco islamico si lasci identificare dalle forze dell'ordine.
Non tutti la pensano così, nel complesso mondo dell'immigrazione  italiana. Qualcuno, come il presidente del Movimento musulmani moderati, Gamal Bouchaib, accusa duramente: «I deputati del Pd stanno compiendo un massacro dei diritti della donna». In più, sorge un problema di sicurezza «snaturando la ratio della legge antiterrorismo del 1975». Perciò Bouchaib, che è anche membro del Comitato per l'Islam del Viminale, giudica l'iniziativa legislativa «un atto di inaudita gravità» perché «così si lede la dignità umana, l'essere donna, si giustificano i soprusi e le violenze che subiscono tante mogli e figlie di integralisti islamici. Ora è arrivato il momento di far sentire la nostra voce di moderati». È stato ascoltato, in un'audizione alla Camera sull'argomento, ha portato studi scientifici in cui si dimostra che le donne che indossano il burqa soffrono di carenza di vitamina D, sono più soggette a fratture e hanno gravidanze difficili. Evidentemente non l'hanno capito.
Alla sua voce si unisce quella del segretario della Confederazione dei Marocchini in Italia, Mustapha Mansouri, anch'egli membro del Comitato per l'Islam del ministero degli Interni: «La religione non c'entra niente, il burqa è un usanza solo di alcune comunità afgane e talebane, il Corano non parla di burqa come precetto islamico. In Italia stiamo dando voce e spazio a iniziative integraliste pericolose anche per il rischio terrorismo». E scandalizzato anche Saber Mounia, portavoce di Acmid - Donna Onlus: «Non accetteremo e non permetteremo invasioni nella sfera dei diritti umani. Invece di occuparsi di immigrazione, il Pd vuole metterci il burqa». Tutti preannunciano «una lunga resistenza contro l'oscurantismo estremista che vuole riportarci indietro» e «una lunga serie di manifestazioni a favore della libertà». Sì attendono adesioni dalla sinistra.








Pochi immigrati, siamo inglesi

Il Sole, 18-03-2010
di Guido Bolaffi
Sull'immigrazione anche il governo laburista inglese rischia di pagare un prezzo alto alle elezioni di maggio. I conservatori di David Cameron, sull'onda della campagna dei tabloid contro l'invasione straniera e il rischio di una mutazione demografica, hanno deciso di puntare sulla questione per riguadagnare il consenso vanamente rincorso per oltre un decennio. Come andranno le cose si vedrà.
È dall'espulsione comminata dai tory nei confronti di Enoch Powell, il leader della fazione più oltranzista del partito, che alla Conservative Association di Birmingham del 1968 con il discorso "River of blood" aveva proposto di usare il risentimento anti stranieri degli elettori per riconquistare Downing Street, che tra i partiti inglesi vige una regola: non usare l'immigrazione per prendere più voti. Restano da spiegare cause e ragioni che nel paese più aperto d'Europa e con una capacità amministrativa superiore a quella di molti altri, rischia di trasformarsi, per chi l'ha gestita, in una buccia di banana. Dal 1997, data di incoronamento di Tony Blair, sono arrivati, in media, in Inghilterra ìoomila immigrati l'anno. Saliti a 20omila dopo il 2000. Con un saldo netto di quasi 2 milioni. Una cifra ragguardevole soprattutto se si considera il fatto che è la differenza aritmetica di un più massiccio flusso fatto dai tanti che sono arrivati e dai tanti che sono usciti. Nello stesso periodo sono stati concessi 1,6 milioni permessi di soggiorno di lunga durata.
Ai numeri ufficiali vanno aggiunti quelli degli irregolari e dei clandestini: secondo gli esperti della London School of Economics, sono tra 500 e 8oomila, metà dei quali concentrati a Londra. Sul totale delle forze di lavoro gli immjgrati erano nel 2008 il 13% contro il 7% del 1998. Nello stesso anno sul totale dei nuovi nati in Inghilterra e Galles quelli con madri straniere erano il 24% e addirittura la metà nell'area londinese.
Un successo, direbbe qualcuno. Che ha fatto crescere insieme la Cool Britannia del New Labour e il popolò dell'immigrazione. Certo, ma non per tutti. Questo è il problema. Il risentimento e il rifiuto contro gli immigrati di molti inglesi, in particolare degli operai di una certa età con livelli di istruzione medio-bassa, dei pensionati delle periferie urbane che vedono calare il valore delle case comprate con i risparmi di una vita, delle madri di famiglia single, dei giovani precari che si confrontano ogni giorno con l'esuberanza dei coetanei figli di nuovi arrivati, non nascono dagli allarmi faziosi e strumentali del Migration Watch o del Daily Standard. Per la semplice ragione che nessuna manipolazione ideologica è grado di fare presa sul comportamento collettivo in assenza di fenomeni reali da questo percepiti come una minaccia e di conseguenza rifiutati.
L'immigrazione ha fatto ricca l'inghilterra. Ma non tutti gli inglesi. In sintonia più con il liberismo economico e con i ceti intellettuali metropolitani che con il mondo del lavoro. Ma la colpa è degli immigrati o dei politici? De te fabula narratur, dicevano i latini per eventi che per la loro emblematicità anticipavano ciò che più tardi si sarebbe verificato altrove. Come nel caso inglese dell'immigrazione. Nessuno può fermare i processi di modernizzazione come quello dell'immigrazione, ma molti possono reagire. Gli uomini, ricordava ai suoi studenti di Harvard l'economista Wassily Leontief, non sono come i cavalli che in silenzio si fanno rimpiazzare dalle macchine. Non avranno ragione, ma hanno le loro ragioni. Prima si ascoltano, meglio è.







Dai pescherecci alle fonderie, dalle cave alle corsie degli ospedali: in un nuovo libro il ruolo sempre più insostituibile degli immigrati
La Repubblica 18 marzo 2010
I tunisini integrati di Mazara "Senza di noi niente pesce"
RICCARDO STAGLIANO
Ecco il capitolo dedicato ai pescatori di Mazara del Vallo
riccardo staglianò
«Mancu lu bagnu je fazzu fari a li figghi me. Mancu lu pisci manciari. Piscaturi iddri? Vò babbiari?».Vuoi scherzare? Facciano qualsiasi cosa i miei figli, tranne che andar per mare. Hai l´impressione nettissima, osservando la smorfia rabbiosa che gli mette fuori squadra il volto, che se un giorno venissero a dirgli di esser diventati rapinatori sarebbe più comprensivo. È l´unica fatwa indiscutibile, per i tunisini di Mazara del Vallo, quella che la prole non segua le loro orme. Benur, 53 anni scavati dal sole e piallati dal salmastro, ha un motivo stringente per ribadirla: «Sono sei mesi che l´armatore non mi paga. L´ho denunciato ma sin qui non è successo nulla». Tranne che, a stagione iniziata, non aveva trovato ancora un imbarco. Anche Bazine, che invece ha smesso da qualche anno e va avanti da allora con una pensione di invalidità, non è meno perentorio: «Questo è un lavoro che, se l´hai fatto, non lo auguri neppure al tuo peggiore nemico. Figuriamoci alla carne della tua carne». Non dimentica l´ergastolo di quelle ore infinite, il giorno uguale alla notte, in un ciclo continuo di «cala la rete, ritira la rete», «cala la rete, ritira la rete». Gli italiani l´hanno capito prima e hanno lasciato che i maghrebini li sostituissero. Cinque per cento in città, oltre il cinquanta in mare. «Senza di loro» ammette candidamente l´assessore provinciale alla pesca Nicola Lisma, una testa di capelli rossi e occhi azzurri di qualche antenato normanno, «i motopescherecci non potrebbero salpare. Si fermerebbe tutto. Sarebbe la fine».
Forse non basteranno a scongiurarla, di certo sono serviti a posticiparla questi ultimi mohicani della pesca d´altura. Una specie molto più a rischio di estinzione della tracina, delle spigole, dell´«uvaro», come qui chiamano il pagello fragolino. Perché i conti che a un certo punto non tornavano più ai siciliani ora non convincono neanche loro. Sino a novanta giorni al largo, senza toccar terra, per mille euro al mese: è ancora lavoro o già pena alternativa? Senza considerare che dormire è spesso un optional, un po´ come a Guantanamo. E che lo strazio non finisce nemmeno una volta sbarcati, perché due volte su tre c´è da prendersi a brutte parole col padrone che dichiara sempre pesche meno fortunate di quelle testimoniate dai lavoratori. Nella guerra tra poveri che si è combattuta per anni nel canale di Sicilia e che ora ha allargato il campo di battaglia al resto del Mediterraneo, l´ultima trincea sembra oggi quella dei ghanesi. Da qualche tempo hanno cominciato a imbarcarsi, a imparare il mestiere. Ma quando si stancheranno anche loro su chi si potrà puntare?
Non si tratta di un problema circoscritto. Sicilia vuol dire metà dell´industria ittica italiana, Mazara metà di quella siciliana. Questo borgo marino a poche ore di scafista dall´Africa è, soprattutto, l´epicentro della pesca d´altura. Da nessuna altra parte, come qui, ci si spingeva - e sempre più ci si spinge - a largo per gettare le reti. In cerca del pregiatissimo gambero rosso, ad esempio, esportato in mezzo mondo. «Negli anni ‘70 si stava in mare una settimana, poi sono diventate due, e negli anni ‘90 le cose hanno cominciato a peggiorare ancora e ad allungarsi le bordate. Oggi si devono fare anche quattro-cinque giorni di navigazione, arrivare sino a Cipro o in Grecia, prima di gettare le reti. Perciò, per ammortizzare i costi di gestione, si deve stare fuori più a lungo» ammette l´assessore Lisma. Anche la sua famiglia, armatori da sempre, ha dovuto vendere tutto. «Il costo del gasolio, negli ultimi anni, è più che raddoppiato. Negli anni ‘90 poi si è diffusa l´acquacoltura che ha introdotto sul mercato pesci low cost. Per non dire della globalizzazione, del pescato che arriva dall´estero».
Per proteggersi da tutti questi marosi e far quadrare la sempre più fragile equazione economica gli imprenditori hanno agito sull´unica variabile indipendente a disposizione: la forza lavoro, contando sul fatto che i tunisini avrebbero masticato amaro ma non si sarebbero sottratti. Anche perché sapevano meglio di tutti che la nuova competizione delle flotte maghrebine limitrofe era terribile e che la miseria che prendevano in Italia era comunque quintupla di quella che avrebbero racimolato in patria. A rendere la partita ancora più difficile ci si è messa anche la Libia. Pur non avendo ancora una vera industria ittica la Jamairiya ha preteso la «tutela biologica» delle proprie acque per sessanta miglia oltre le dodici regolamentari. Una mossa che, di fatto, ha reso off limits ai pescherecci mazaresi tutto il pescoso golfo della Sirte, da punta a punta. Il «deserto», come ormai lo chiamano.





La grande truffa dei permessi stagionali
Immigrati beffati da caporali e mafie: a Napoli su 2300 domande 1358 false. Dai 6 mila ai 13 mila euro per un contratto. Denuncia alla Procura della Cgil: "Raggirati, restano in Campania da clandestini"
Metropoli, 18 marzo 2010
TIZIANA COZZI
Tredicimila euro per un contratto di lavoro stagionale e un nullaosta. Una cifra enorme eppure necessaria, se consente l'accesso a una nuova vita. È così che gli immigrati, mentre coltivano il sogno dell'Italia quando ancora vivono di stenti nel loro paese, pagano somme esorbitanti ai caporali.
Partono convinti di avere il futuro in tasca. Un lavoro, una casa. Ma, quando arrivano in Campania, scoprono di essere stati vittime di una truffa.

Il permesso acquistato in patria è falso. Le aziende spesso non esistono oppure, non hanno mai fatto richiesta di lavoratori stagionali. E loro, gli immigrati, appena mettono piede sulla terraferma, sono praticamente clandestini. Capitolo decreto-flussi: questa è l'ultima beffa, relativo ai lavoratori stagionali. A Napoli, su 2.300 domande presentate per il 2008 soltanto 44 si sono tradotte in regolari contratti firmati dai datori di lavoro. Le altre 1.358 sono state rigettate perché false, 262 non sono state ritirate dai datori di lavoro, 336 sono state inviate all'autorità consolare dei richiedenti. Per il 2009, le domande sono ancora al vaglio della prefettura. Ma su una quota di 1250 ingressi consentiti e su 2.424 domande pervenute, già 930 sono state respinte, 197 permessi non sono stati ritirati e soltanto 9 sono stati a tutt'oggi firmati. I dati sono della prefettura di Napoli.

La regolare procedura prevede che la prefettura, dopo aver controllato la richiesta dell'immigrato, prepari il nulla osta e lo invii all'autorità consolare del suo paese d'origine. È il consolato a consegnarlo al lavoratore straniero, perché lo porti con sé, una volta arrivato in Italia. Ma è una pratica seguita da pochi. In molti, infatti, si rivolgono a conoscenti spesso implicati in traffici illegali, con la complicità delle mafie internazionali. "Si tratta di una vera e propria truffa - spiega Jamal Qaddorah, responsabile per le politiche dell'immigrazione della Cgil Campania - Un fenomeno molto grave che in Campania riguarda almeno 3000 lavoratori, soprattutto marocchini e pakistani. I primi pagano 6000 euro per un permesso, i secondi arrivano a sborsarne anche 13 mila, vendono tutto, restano senza un centesimo. E quando scoprono di essere stati truffati, nessuno torna indietro. Restano tutti qui, con la speranza di un lavoro, come è successo a San Nicola Varco". Le "finte domande" arrivano copiose anche a Salerno. "Due anni fa su 9000 richieste, 8000 erano irregolari - denuncia Anselmo Botte, segretario provinciale Cgil Salerno - Abbiamo denunciato il fenomeno alla Procura della Repubblica di Salerno e chiesto l'applicazione dell'articolo 18 del testo unico sull'immigrazione. In caso di sfruttamento, la legge prevede la regolarizzazione per gli stranieri. Nessuna risposta è arrivata. Questo governo non è interessato al dialogo".


Share/Save/Bookmark
 


 

Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
leggi tutto>

Mappamondo
>Parole
>Numeri

Microfono,
la notizia che non c'è.

leggi tutto>

Nero lavoro nero.
leggi tutto>

Leggi razziali.
leggi tutto>

Extra-
comunicare

leggi tutto>

All'ultimo
stadio

leggi tutto>

L'ombelico-
del mondo

Contatti


Links