Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri
Bonino: le donne arabe sono in buona compagnia
nostra intervista a Emma Bonino, vice presidente del Senato.
Valentina Brinis

Lei segue da anni la condizione femminile nei paesi arabi. Quanto di questa condizione viene riportata, attraverso i flussi migratori, nella concreta situazione delle donne straniere nella nostra società?
Partiamo dall’episodio di Sanaa. La migliore risposta per contestualizzare la vicenda è un bellissimo libro, uscito da poco, “Amorosi assassini”. Storia di violenza sulle donne (ed. Laterza, ). Una raccolta documentata di 4500 storie di violenze sulle donne, che in Italia hanno denunciato aggressioni, stupri, molestie e maltrattamenti. 112 di loro sono state uccise. È la cronaca di un anno, ma niente più che la punta di un iceberg, il numero delle vittime è agghiacciante. Il problema è che questa focalizzazione a partire dall’ episodio di Sanaa, fa sembrare la violenza sulle donne tipicamente arabo-musulmana. Ma questa  è una balla monumentale, è uno stereotipo perché la violenza sulle donne è una cosa antica, trasversale ai passaporti, alle culture e alle religioni. Quindi questa idea non solo è ovviamente inaccettabile,  Sanaa è una di quelle  4500 donne uccise in Italia nel corso di un anno. Ma se noi dicessimo che quella cultura musulmana è più foriera di violenza rispetto alla nostra, per quanto risulti   un’analisi consolatoria, non è vera. È uno stereotipo. Non è che non esista la violenza sulle donne musulmane (dal crimine d’onore, alle botte in casa…) però, queste sono in buona compagnia. Questo libro infatti, è la raccolta di testimonianze di italiane, che subiscono violenza quasi tutte per lo stesso motivo: il sesso, l’onore etc. Il punto focale è che l’accanimento sul corpo femminile non conosce confini: non si deve alla cultura o all’etnia. È un fenomeno grave nel nostro paese come altrove. E va combattuto senza cedere alla  tentazione  consolatoria di pensare che la violenza non riguarda noi, ma gli altri. Insomma, quella della violenza non è solo una questione musulmana,  e noi non ci siamo affrancati da quel rischio. Cifre, date, nomi, cognomi episodi, lo dimostrano.
Quanto allora si può parlare di motivazione legata alla religione?
Quando ero piccola io, che sono di un paesino del nord, c’erano grandi cartelli alle finestre: “non si affitta ai meridionali”. Sposare un meridionale non era assolutamente ben visto dai genitori della ragazza settentrionale. Ognuno ha il suo sud…però tutto poi si riflette sul corpo delle donne. Credo ci sia una cultura patriarcale, possessiva prima ancora che religiosa. “Non si sposa un meridionale” è un’affermazione di proprietà, non di fede. Prendiamo il crimine d’onore. Sembra che l’onore debba essere difeso solo dalle donne e che si materializzi solo nel loro corpo. Il cervello pare non c’entrare con l’onore ma il corpo si. Noi abbiamo abolito il delitto d’onore nell’80, dopodiché è esplosa la violenza domestica. Poi, ovviamente, come sempre e come in tutte le società, ci sono persone più aperte e persone più reazionarie. Il padre di Sanaa era una persona meno aperta. Ma non bisogna stigmatizzare. È di sicuro un episodio da non sottovalutare, ma non ne farei il segno della loro barbarie, contrapposta alla nostra civiltà.

Come smontare questo stereotipo?
È un problema di informazione, di conoscenza della realtà di quei paesi e della nostra. Se noi non vogliamo vedere la nostra realtà è chiaro che allora quelli di passaporto italiano sono bravi, belli buoni etc. i romeni sono di per sé cattivi, stupratori.. i musulmani sono a maggior ragione violenti. A rotazione vengono individuate come bersaglio etnie diverse. Tutto questo non è d’aiuto a nessuna politica di integrazione e accresce l’idea di un “va de retro perché siete incivili, non degni della nostra società”. Invece quando noi ci comportiamo da assoluti incivili, nessun problema. Per esempio i respingimenti in Libia vanno benissimo, sono impuniti. Se massacriamo donne incinta va bene, l’importante che se ne vadano. Insomma a me sembra un’involuzione politica e culturale. La classe politica deve tener conto del grande mutamento in atto, quando una società che ha avuto milioni di emigrati diventa una terra di immigrazione. Ma un conto è riconoscere che siamo di fronte a un fenomeno millenario e capire come gestirlo per i prossimi mille anni. Altro è dire no, noi questo fenomeno non lo vogliamo. È come dire c’è il temporale e non lo vogliamo. È più utile comprare un ombrello, che poi, magari, non riparerà del tutto dalla pioggia, ma aiuta ad attraversare una precipitazione ed affrontare un fenomeno che sia climatico o sociale. La nostra risposta invece è un NO secco, non li vogliamo. Cosa, tra l’altro irrealistica, viste le esigenze economiche del nostro paese, non dico le loro, tanto quelle non interessano. Noi non possiamo più, per mille motivi farne a meno e questa crisi economico-finanziaria, tenderà ad aumentare questa necessità. La conseguenza sarà che tutti i paesi, per esempio quelli del Golfo, che erano un cuscinetto capace di attrarre un sacco di poveracci da Pakistan Bangladesh, Egitto etc. con la crisi economica con la crisi economica non saranno più in grado di accogliere: e quei migranti si riverseranno nei paesi occidentali. Capisco che questo non sia un buon argomento in vista delle elezioni, non porterà voti ma la responsabilità delle leadership è quella di essere anche impopolari per evitare di essere, nella sostanza, antipopolari.

L’Italia è l’ultimo dei paesi europei a confrontarsi con la questione delle seconde generazioni. Lei crede che queste siano importanti nel mutamento dell’immagine delle donne immigrate agli occhi degli italiani?
Questo è sicuro, ma credo anche che con i giovani andrebbe aperto un discorso meno paternalista e più responsabile. C’è stata una bellissima inchiesta di Fare Futuro, che diceva giustamente che l’enterpoint, il tentativo migliore di integrazione, erano esattamente le donne arabo-musulamane o in generale quelle immigrate. Proprio perché queste hanno più a che fare con la società italiana per gli asili, le scuole, gli ospedali, la burocrazia. Sono proprio loro la via di ingresso per un dialogo diverso. Questa è una politica che andrebbe assolutamente perseguita, prevedendo anche un cambiamento della nostra legge sulla cittadinanza che ormai strilla vergogna da tutti i punti di vista. Quindi bisognerebbe che i giovani, maschi e femmine,  ci aiutassero anche a superare gli stereotipi. Per esempio noi in Occidente abbiamo una focalizzazione assolutamente ossessiva sul foulard. Non mi riferisco al burqa per cui sono molto rigorosa, e non per motivi religiosi ma perché siamo in un paese a responsabilità individuale. In luoghi pubblici bisogna essere immediatamente riconoscibili. Lo dice la legge. Su questo io non transigerei. Dopodiché, se è un foulard o un cappello, si tratta di una questione identitaria o di stile. Penso che dovremmo mettere dei paletti chiari in termini di regole di convivenza. Poi se è un velo corto, lungo, bianco o giallo, non ha importanza. Le nostre nonne, uscivano se erano ricche con il cappellino e i guanti, se erano poveracce con il foulard nero. Quindi se la smettessimo di essere ossessionati dai veli…e poi, mi chiedo, che dire delle suore che vanno in  giro tutte velate?



Lubna Ammoune
Vita.blog
Prego per te, Sanaa, prego per te come vittima di un’ingiustizia, prego per te, come vittima di un atto orribile, disumano, ingiustificabile. Non ci sono parole per descrivere la tua tragedia. E provo rabbia e dolore nel leggere i commenti, le spiegazioni, le banalizzazioni, le analisi, le opinioni. La prima notizia che mi permette di apprendere la tua scomparsa è un trafiletto:

È stata accoltella­ta dal padre mentre si trovava in auto con il fidanzato. La ra­gazza, una 18enne di origine marocchina, è morta dissan­guata in un boschetto di Monte­reale Valcellina, in provincia di Pordenone, dove cercava di sfuggire alla furia del genitore.

Cosa posso aggiungere come pensiero a un orrore come questo? Superflua ogni osservazione, inutile ogni tentativo di capire il motivo che ha portato tuo padre a commettere un atto simile. Ma che colpa avevi? Quella di amare? Quella di essere libera di scegliere con chi trascorrere la tua vita? Sei forse colpevole di aver convissuto col tuo ragazzo? Forse avresti dovuto subire in silenzio le minacce che costantemente ricevevi? Il mio cuore è fermo, senza parole, eppure la ragione continua a porsi delle domande. Vorrei rimanere in silenzio, ma poi mi sale alle labbra un interrogativo: perché? Perché tutto ciò? Come può arrivare un padre a fare questo alla propria creatura? E qui mi fermo, perché non ho risposte e forse non ce ne sono neanche. Sei stata vittima di un’ingiustizia, di un uomo senza scrupoli, sei stata vittima di un’azione inconcepibile. Continuo a leggere articoli a te dedicati, spazi su quotidiani e blog e il cuore mi sale alla gola. Ho i brividi nel leggere queste frasi:

Una tragedia dietro alla quale potrebbero esserci anche dei motivi religiosi.

Il sindaco di Azzano Decimo, il leghista En­zo Bortolotti, si dice sdegnato: «Un altro caso Hina che dimo­stra l’impossibilità di integra­zione con la cultura islamica».


I rapporti fra Sanaa e Massimo e il padre della ragazza, già molto tesi - secondo le testimonianze - erano peggiorati dopo la decisione della 18enne di andare a vivere con il giovane, una scelta che per suo padre era in contrasto con lo stile di vita musulmano

Viveva col fidanzato. “Vietato dalla tradizione”

In Marocco, dove Sanaa Dafani era nata, la tradizione non permette di convivere con un uomo senza sposarsi. E invece la sua “bambina”, da tre mesi, era andata a vivere a Montereale Valcellina con Massimo, “il suo grande amore”, come ripeteva alle amiche.

Non posso continuare a leggere quanto sopra scritto, non capisco come una persona sia in grado di trovare nella religione una giustificazione a un omicidio che merita la condanna massima. Siamo ancora qui a discutere e a ragionare su quali siano le ragioni culturali e antropologiche che hanno mosso la persona che ti ha uccisa. Se tuo padre trovava questo nella religione e nella sua tradizione, non la nostra o quella del mondo musulmano, non dobbiamo fare lo stesso errore. Non possiamo definire la tua scomparsa come un orrore religioso. E’ un omicidio, ripeto, da condannare, con condanna massima. L’errore piu’ grande che possiamo commettere ora è quello di fondere religione e tradizione, tradizione di una civiltà con la barbaria di una persona. Accostare la questione dell’integrazione della cultura islamica nella società italiana alla tua uccisione è quanto di piu’ stupido, incosciente e irragionevole possiamo fare. Nel momento in cui un fedele uccide, musulmano, ebreo o cristiano poco importa, non è piu’ tale. E se anche cerca appoggio nella religione, i suoi non saranno mai motivi della religione, ma della religione che lui si è costruito. Questo è ciò che penso. E diventiamo colpevoli anche noi se ci nascondiamo dietro la tradizione per capire il tentativo disperato di un uomo di salvare il proprio onore, portando le sue azioni all’estremo.

Ancora, prego per te, Sanaa. Come giovane donna che ancora non ha vissuto il fiore dei suoi anni.


Chiara Geloni

Non so quasi niente di Sanaa, i giornali già non ne parlano più. So ben poco della sua religione e della sua cultura. Mi pare che la tragedia della sua morte sia difficilmente imputabile all'Islam. Una cosa così bestiale e mostruosa, un padre, la fa per follia. Folle interpretazione dell'insegnamento di una religione, forse. Ma sempre follia. Non è il Corano, non c'entra, non è possibile. E forse avrebbe potuto accadere, potrebbe accadere, è accaduto anche a un padre cristiano di arrivare ad ammazzare sua figlia per la rabbia e per la vergogna di saperla con un uomo che non è suo marito, di saperla ribelle e ai suoi occhi perduta.

Mi impressiona sua madre. L'ho vista in tv capire perfettamente le domande in italiano e rispondere in arabo, in modo che un uomo, un capo, traducendo una lingua agli italiani ignota, potesse parlare liberamente in suo nome. Non è una donna libera, dicevano. Certo che non è una donna libera, pensavo. Ha altri figli, è sola, non ha idea di cosa significhi cercarsi un lavoro, mantenere la famiglia. Come potrebbe ribellarsi alle regole della comunità?

La comunità, ecco, quella è la sfida. Quelle ragazze nascoste dai veli, quegli uomini dallo sguardo impenetrabile. Quel sentire il bisogno di reagire a modo loro, di chiudersi. La sensazione che siano tutti convinti che a noi è inutile spiegare, se non lo stretto necessario. Come si entra lì dentro? Come si aiuta quella donna a liberarsi? Come si convincono quelle persone a confrontarsi? Come si fa poi a non pentirsi, come l'amica italiana di Sanaa. Che adesso si sente assurdamente colpevole perché ha paura di aver esagerato nel farle conoscere il nostro mondo, di averla condotta troppo lontano. Queste barriere, queste diffidenze mi fanno paura. Non la violenza bestiale di un uomo, di quel padre, che è uno di quegli orrori così indicibili che si può solo sperare di non incontrare. Ma il pensiero di come sono alti quei muri, di come siamo incapaci di farli abbassare.


Ida Dominijanni


La mirabile sintesi dei fatti è di Vittorio Feltri sul "Giornale" di ieri, eccola: «Altro che integrazione e società multiculturale predicata da chi ha la testa nelle nuvole; siamo all’allarme rosso. Tre o quattro giorni fa un cuoco marocchino ha ucciso a coltellate la figlia diciottenne colpevole di essere fidanzata con un cittadino italiano e di vivere all’occidentale; e ieri  l’onorevole Daniela Santanché è stata malmenata perché, al teatro Ciak di Milano, dove era in corso la cerimonia di fine Ramadan, protestava pacificamente contro il burqa indossato da numerose donne islamiche». La sequenza non fa una piega e porta alla inevitabile conclusione: primo, «le signore islamiche in burqa non sono in regola \[rispetto alla legge che vieta di coprirsi il volto in pubblico\] e dunque vanno punite»; secondo, è ora di smetterla   col buonismo di chi «preferisce subire culture esotiche piuttosto che conservare e difendere la propria», e di usare il pugno duro contro gli immigrati islamici.
Naturalmente, sulla veridicità della sequenza ricostruita à la Feltri non si trova su tutta la stampa una sola conferma: se la protesta dell’onorevole Santanché fosse davvero pacifica o se viceversa,  come sostiene la comunità islamica, fosse una provocazione bella e buona con tanto di turbativa di culto, non è dato saperlo  in base alle testimonianze. Quello che invece è finalmente chiaro è come l’onorevole intende portare avanti la sua «battaglia per la libertà delle islamiche». Presentandosi a una festa religiosa scortata da una decina (altri scrivono una trentina) di uomini, per esempio. Invocando   contro l’uso del burqa una legge emessa con motivazioni (controversissime) di ordine pubblico, come se fra chi si copre il viso per - poniamo - lanciare una bomba e rendersi irriconoscibile e chi se lo copre perché costretta da una consuetudine disumana non ci fosse nessuna differenza. Proponendo di elaborare, noi europei, una carta dei diritti delle islamiche che «sancisca il rispetto dei nostri valori», compreso, si suppone, il diritto a prostituirsi per l’ormai famoso divertimento dell’imperatore. Alzando il livello dello scontro di civiltà  fra Occidente e Islam nelle nostre città e nei nostri quartieri. E incoronandosi liberatrice delle altre, che «non osano ribellarsi, quindi dobbiamo farlo noi per loro».
Lo schema è quello, pari pari, delle guerre in Afghanistan e in Iraq: là si esporta democrazia con le bombe, qua si esportano diritti femminili con le incursioni virilmente scortate nei luoghi di culto (del resto, quelle guerre furono legittimate anche in base a questi diritti). Nell’un caso e nell’altro, in nome dell’universalismo.  Conosciamo l’antifona. Quello che non sapevamo, è che tanta professione di fede nell’universalismo dei diritti e nella solidarietà  femminile potesse valere per le diverse   ma non per le simili: qualcuno ricorderà che l’onorevole in questione è la stessa che si prestò, su "Libero" allora diretto dal solito Feltri, alla lapidazione di Veronica Lario tramite «rivelazione» della sua presunta tresca con una body guard. E qui  finisce la santificazione e martirizzazione dell’onorevole.
Quello che non finisce invece è il compianto  per l’assassinio di Sanaa Dafani per mano di suo padre, nonché l’esterrefazione per la dichiarazione (spontanea? obbligata? estorta?) di sua madre, disposta a perdonare il marito colpevolizzando la figlia e il  fidanzato della figlia, reo di essere italiano e cattolico. Anche qui, come ha già scritto Manuela Cartosio venerdì scorso, il copione delle reazioni si ripete, ricalcato sull’analogo caso di Hina Saleem. Mi ripeto anch’io dicendo che la «mostruosità» del padre di Sanaa è pari a quella dei padri, mariti, fidanzati  di casa nostra che ogni giorno massacrano figlie, mogli,   fidanzateed ex fidanzate riempiendo le statistiche della cosiddetta «violenza domestica» sulle donne; e che l’essere marocchino e musulmano non è né un’attenuante né un’aggravante. Ha ragione però Manuela quando dice che questo non ci esonera dalla ricerca di un di più di vicinanza alle immigrate che subiscono la pressione incrociata della violenza di sesso, dell’ossessione identitaria delle loro comunità, dello stress culturale. Mentre il Berlusconi-gate ci sospinge  a combattere sul fronte della mercificazione organizzata del corpo femminile «liberato», altri corpi femminili minacciati ci chiamano a un confronto e a uno scambio. Ma non con le provocazioni, non con le leggi di ordine pubblico, non  con la spocchia malriposta della superiorità occidentale.




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