Alemanno: è vera emergenza, servono fondi e poteri speciali
IL Messaggero, 08-02-2011
GIANNI ALEMANNO
CARO direttore, ho letto il fondo pubblicato dal suo giornale e lo condivido nello spirito e nella forma. Anch'io voglio gridare con voi "mai più", senza darmi pace nel ripensare ai corpi straziati di quei quattro ragazzini. Ma perché tutto questo non sia solo un impegno dettato dall'emozione e dal dolore dobbiamo essere conseguenti senza farci bloccare da ipocrisie e da facili luoghi comuni. Ci sono quattro condizioni che bisogna realizzare perché mai più bambini nella nostra città si trovino a vivere in baracche di plastica pronte a trasformarsi in trappole mortali al minimo incidente.
1 - Portare subito a termine il Piano Nomadi che è stato predisposto dal Prefetto di Roma Commissario per questa emergenza. Questo Piano è stato spesso criticato ed ostacolato perché offriva ai nomadi e ai senza fissa dimora "solo" campi attrezzati fatti di unità abitative prefabbricate. Ma l'alternativa a tutto questo sono gli infernali micro campi abusivi privi di ogni sicurezza, di ogni igiene e di ogni vivibilità.
2 - Abbiamo già chiuso cinque campi tollerati che esistevano da decine di anni e sgomberato 310 accampamenti abusivi, ricollocando 1.200 nomadi nei campi autorizzati che nel frattempo avevamo ristrutturato e ampliato. Questo, però, non basta. Bisogna aprire subito da 3 a 5 nuovi campi autorizzati, superando vincoli burocratici, veti giudiziari e amministrativi, opposizioni preconcette di Amministrazioni locali e di comitati di protesta. Il Prefetto deve avere nuovi poteri speciali e nuovi finanziamenti per portare a termine questo programma entro l'anno. Le aree sono già state individuate e i progetti sono pronti. Occorre però avere l'autorizzazione governativa a superare procedure che rimangono diffìcili ed irte dì ostacoli. Sono i nuovi poteri speciali per il Prefetto che ho invocato già ieri sera e che permetterebbero di completare il Piano Nomadi entro l'anno. Si pensi che il campo de "La Barbuta", in costruzione dal 26 gennaio scorso, ha dovuto attendere, per essere autorizzato, un anno e tre mesi di sondaggi archeologici della Sovrintendenza e tre mesi di contenzioso al Tar cui avevano ricorso privati cittadini e il Comune di Ciampino. E questo è solo uno dei tanti esempi.
3- Per iniziare da domani a chiudere tutti i micro campi che non garantiscono minime condizioni di sicurezza è necessario attivare delle soluzioni di emergenza. Dobbiamo avere l'autorizzazione dalla Protezione civile, requisire caserme dismesse ed altre strutture in disuso ma abitabili e, contemporaneamente, allestire delle tendopoli organizzate e controllate, per offrire dei ricoveri temporanei certamente più sicuri e decorosi delle baracche abusive.
4- È evidente che tutto questo non può bastare se, nel contempo, non si opera complessivamente su tutti gli interventi del Piano Nomadi allestendo i presidi socio educativi dentro i campi autorizzati, offrendo occasioni di formazione e lavoro, assicurando la scolarizzazione dei minori e il loro affido se le famiglie di provenienza non garantiscono la loro effettiva tutela. Ma tutto questo non può essere un motivo per non procedere, subito a chiudere accampamenti abusivi che non offrono nessuna condizione di sicurezza.
Dobbiamo essere consapevoli. dopo la tragedia di domenica sera, che siamo di fronte a una vera emergenza da fronteggiare con la massima mobilitazione di tutte le Istituzioni in un quadro di effettivi interventi di Protezione civile. Chi, di fronte a questo, accampa polemiche, coltiva opposizioni pregiudiziali, si culla nei tanti alibi della "cultura del no" si assume una responsabilità gravissima. Responsabilità che - i cittadini romani ne stiano certi — non mancheremo di denunciare con forza e con rabbia, senza guardare in faccia nessuno.
La rivolta dei "burocrati": Mai ostacolato il Comune"
La Soprintendenza: amministrazione inattiva per 5 mesi
La Stampa, 08-02-2011
RAFFAELLO MASCI
La «burocrazia» non ci sta, e insorge. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, sconvolto per la tragedia dei quattro bambini morti nel campo Rom vicino a Ciampino, se l'era presa -a caldo - contro tutta «la burocrazia» che aveva ostacolato in varia misura (secondo lui, beninteso) l'allestimento di nuovi campi di accoglienza per i nomadi. Sotto gli strali del primo cittadino erano così caduti due soggetti: la soprintendenza ai beni archeologici, rea di aver cercato il pelo nell'uovo e aver così ritardato l'avvio del piano rom nell'area, e il comune di Ciampino che, essendosi appellato al Tar ha messo pastoie ad un progetto che altrimenti sarebbe andato avanti a vele spiegate.
Per tutta la giornata di ieri il ministero dei Beni culturali e la soprintendenza archeologica di Roma hanno osservato un silenzio a dir poco imbarazzante. Si sa solo che la soprintendente Anna Maria Moretti si è recata in mattinata sul campo di scavo prossimo a quello dei nomadi. In serata, poi, è intervenuto il sottosegretario Francesco Giro, grande amico del sindaco Alemanno e che, quindi, ha atteso che sbollissero gli effetti della rabbia e i contro effetti della rèplica, per intervenire, ripristinando - dal suo punto di vista - la verità dei fatti. Dopo aver detto di capire lo stato d'animo del sindaco, Giro ha chiarito che «non vi sono affatto responsabilità da parte delle Soprinten¬denze» e ha poi argomentato questa sua affermazione, raccontando che «il parere di competenza per la realizzazione del campo nomadi era stato rilasciato dopo una complessa istruttoria, iniziata il 18 Maggio 2009 e terminata il 1° Settembre 2010. Da quella data, l'area era assolutamente disponibile e da allora sono trascorsi 5 mesi». Se il comune di Roma voleva agire, dunque, poteva farlo senza ulteriori indugi. Ma c'è un altro fatto grave che, in .questa dinamica, è stato trascurato: «Nel corso dei sondaggi archeologici - ha detto ancora Giro - è emersa la presenza di una discarica abusiva con materiale di qualunque genere e altamente tossico come l'eternit, gestito da una comunità rom che, come provano le molte denunce all'Arma dei Carabinieri, ha minacciato con estrema violenza e aggressività i nostri funzionari». Proprio questa rissosità dei nomadi nei confronti delle forze dell'ordine ha impedito che la soprintendenza lavorasse ancora più speditamente.
Il sottosegretario aggiunge a questo mosaico un'ultima tessera: «Paradosso nel paradosso - dice - accanto alla discarica, c'era anche un'altra comu¬nità di rom senza averne titolo». Ed ecco svelato l'arcano: ci sono stati i sondaggi degli archeologi (che sono co-munque finiti a settembre) ma c'erano anche l'eternit e un'altra comunità abusiva. Questa è tutta l'ostruzione prodotta dalla «burocrazia».
Quanto al comune di Ciampino, se la prende con il sindaco Alemanno e con il suo piano rom, ma poi - passata la fase delle contumelie - entra nel merito: «Il Comune ha l'unica colpa di aver chiesto l'accesso agli atti amministrativi, sia del piano sia degli interventi annunciati per il raddoppio del più abusivo di tutti i campi rom, ovvero quello de La Barbuta posto all'ingresso della nostra città». Il Comune di Ciampino, insomma, ha voluto vederci chiaro, tanto più che sul suo territorio è presente il secondo aeroporto di Roma e che l'area interessata dal campo era attraversata da una falda acquifera. Solo per questo il Comune «ha formulato una richiesta di accesso agli atti amministrativi e, di fronte ai dinieghi del Comune di Roma, del Prefetto e del ministro degli Interni, è stato costretto ad avanzare dei ricorsi al Tar».
«I rom devono avere alloggi stabili e dignitosi»
L'abbraccio di Napolitano ai genitori dei quattro bimbi morti. L'Ue: l'integrazione unica soluzione
il Mattino, 08-02-2011
Claudio Rizza
ROMA. Quattro bambini rom morti bruciati fanno piangere tutti. Ma basta confrontarsi sul "perché" per far venire fuori contraddizioni, pregiudizi, scontri etico-politici, emarginazioni, integrazioni mancate, e tanto della zuppa indigeribile che riscalda questi tempi paurosi e difficili fatta di xenofobia, di odii e di populismi dettati dalle ciniche convenienze elettorali. Dietro la morte dei bimbi c'è l'Europa che trema e si dilania quando Sarkozy, lo scorso settembre, fa cacciare gli zingari-rom rimpatriandoli; c'è la Ue che predica la necessità di sviluppare l'integrazione per non riempire le società di ghetti e di tensioni incontrollabili, alla lunga pericolosissime. E c'è un centrodestra che contesta ed espelle le idee di Fini e della Chiesa, convinto che sulla cittadinanza e il voto agli immigrati bisogna più escludere che includere. È a tutto questo che deve aver pensato il capo dello Stato quando ieri mattina, senza codazzi e pompa magna, niente auto di rappresentanza col tricolore, ha deciso di andare a portare la propria solidarietà ai genitori dei bambini bruciati. Ha avvisato il sindaco Alemanno e, con il segretario generale Marra, Napolitano è arrivato all'Istituto di medicina legale del Policlinico. Venti minuti di colloquio con i familiari e nessuna voglia di passerelle o di dare il là a una strumentalizzazione politica. Se n'è andato muto e solo più tardi ha dato voce alle riflessioni e ai senti-menti: «Una tragedia che pesa dolorosamente su ciascuno di noi e che ci rende ancor più convinti della necessità di non; lasciare esposte a ogni rischio comunità che da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocate in alloggi stabili e dignitosi». Il capo dello Stato mette così il dito nella piaga: tanto è facile piangere per dei bambini, tanto è difficile per i più accettare di avere dei rom come vicini di casa. I rom sono la più grande minoranza etnica del continente europeo. Eppure, come dice l'Europa, l'unica medicina è integrare, saldare, sentirsi solidali. «Le autorità locali e nazionali non possono non sentirsi impegnate ancor più fortemente a dare soluzione a un problema così grave in termini umani e civili», insiste il Colle. «Ai genitori e alla superstite sorella dei 4 bambini Rom orrendamente periti nel rogo del precario rifugio in cui vivevano - scrive la nota quirinalizia - ho voluto esprimere il sentimento di umana solidarietà che con me oggi provano tutti i romani e gli italiani».
Parole assai simili pronuncia Viviane Reding, vice presidente della Commissione europea, responsabile per la Giustizia e protagonista del durissimo
scontro con il presidente francese Sarkozy sulle espulsioni dei Rom dalla Francia, accusata di «discriminazione razziale». Sarkò fu difeso da Berlusconi e Bossi, paladini della linea dura. La commissaria continua a non pensarla come loro: «La tragedia di Roma dimostra che l'integrazione dei Rom deve restare in cima alle priorità dell'agenda politica». «Per la Commissione la questione dei Rom è molto più di una semplice storia estiva. Stiamo lavorando con gli stati membri per migliorare la situazione dei Rom in Europa». La presidenza di turno ungherese ci sta lavorando seriamente e, racconta la Reding, «entro aprile ogni stato membro dovrà presentare la sua strategia sulle tre linee guida principali: educazione, riduzione della povertà ed impiego». La Commissione europea cerca di spingere gli stati membri «a usare i fondi europei».
Grande plauso per le parole di Napolitano, dal presidente Unicef, Spadafora, ai rappresentanti delle istituzioni. Non è mancata la polemica tra maggioranza e opposizione, il sindaco ha accusato la sinistra di non aver fatto nulla, e viceversa. Ma, come dice Pier Ferdinando Casini, «questo è il momento del cordoglio comune dell'intera comunità nazionale. La speculazione di chi è abituato agli sciacallaggi non mi è mai piaciuta, né ieri contro Veltroni né oggi contro Alemanno». «È però anche il momento della riflessione per assumere decisioni conseguenti affinché questi fatti non si verifichino più».
Il padre: «Accoglienza? Non c'è mai stata offerta»
Il Messaggero, 08-02-2011
BEATRICE PICCHI
ROMA - Ogni interrogatorio, ogni racconto della notte del rogo, ogni nuova testimonianza Elena sembra sempre più vecchia, accartocciata sotto uno scialle di lana grossa. Il marito la sorregge, ma non basta, lei piange e si mette la mano sulla bocca per non urlare all'obitorio davanti alle casse chiuse dove lascia i suoi quattro figli. Il presidente della Repubblica le accarezza il viso, le stringe le mani pronunciando parole che la donna non riesce a capire, il presidente dice che questa è una tragedia che pesa su tutti noi, ma ora il dolore è solo per lei e per suo marito Mircea.
«Noi non volevamo vivere in una baracca, voi l'avete vista? -chiede l'uomo di quarant'anni che fa il manovale quando il lavoro lo trova, certo - Non è vero che non abbiamo accettato l'accoglienza. Il Comune e nessun altro ci ha mai proposto questo. Ora vogliamo tornare in Romania per seppellire i nostri figli...». Torneranno nella terra dalla quale sono scappati quasi due anni fa, Elena e Mircea, una terra d ivorata dalla crisi, ancora più che altrove, dove gli stipendi sono stati tagliati del venticinque per cento e «per fare la spesa ti deve indebitare e allora non ti resta che cambiare paese per dare da mangiare ai tuoi figli». E così hanno fatto, tanto lui a tirar su muri e imbiancare pareti ha imparato subito, racconta uno zio che abita a poche centinaia di metri, in un altro campo.
Non volevano finire laggiù Eler na e Mircea, «siamo stati sgomberati più volte», ripete il capofamiglia che solo un anno fa stava in un altro insediamento abusivo alla Caffarel-la, in altre baracche fatte di plastica e lamiere, in mezzo al nulla, lontano da tutti e da tutto.
E così, i figli dell'emarginazione e della povertà, sono finiti in un altro luogo dimenticato da dio, lungo l'Appia, senza luce, né acqua, a tirare sassi ai topi, a riscaldarsi con i bracieri, con i ragazzini sempre più lontani dalla scuola e da un inizio di integrazione. Erano stati altri connazionali a chiamarli e proporgli di andare sull'Appia, fino a quando non si sarebbe trovata un'altra soluzione, una soluzione migliore, «mica chissà che cosa, un locale, un posto sicuro, con le pareti vere, dove stare», raccontano ora gli amici della famiglia di Mircea.
Perché loro c'avevano provato ad avere un'esistenza normale, in una casa normale, insomma come gli altri. Elena,che ha 35 anni, c'aveva provato a stare in un piccolo appartamento in affitto, a Colleferro, ma «eravamo troppi e il proprietario ci ha detto di andare via e siamo arrivati a Roma.
Pensavamo di trovare un aiuto». Ora loro e gli altri cinque figli, si trovano in un centro d'accoglienza del Comune. Sono arrivati nel centro alla periferia nord della città dietro un cancello potretto da guardie giurate con un furgoncino con i vetri oscurati, lo stesso che li ha accompagnati in Questura l'altra notte, la notte del rogo. Agli investigatori della Mobile la donna ha ripetuto come una nenia «sono una buona madre, sono una buona madre, li ho curati, li ho cresciuti, lasciatemi morire con i miei figli. Non volevamo vivere in una baracca, non volevamo...».
Censimenti e ricorsi: gli intoppi al piano sgomberi
Nel 2008 i campi abusivi erano 60, oggi sarebbero oltre 200. E il sindaco accusa Ciampino
Corriere della sera, 08-02-2011
ROMA — È stato, nella campagna elettorale del 2008, il cavallo di battaglia di Gianni Alemanno. Adesso, all’indomani del terribile rogo di via Appia, l’emergenza rom rischia di diventare la sua croce. Tre anni di proclami, annunci, intoppi burocratici. Parole, polemiche e, alla fine, pochi fatti. La «cavalcata» per il Campidoglio È la notte tra il 30 e il 31 ottobre 2007. Giovanna Reggiani, moglie di un maresciallo dell’Aeronautica, viene aggredita e violentata alla stazione di Tor di Quinto: morirà dopo due giorni di coma. Per l’omicidio, il romeno Romulus Mailat, proveniente da un campo abusivo vicino alla stazione, verrà poi condannato all’ergastolo. È l’esplosione del problema rom, cavalcato poi dal Pdl nella campagna elettorale per le comunali del 2008: il mandato di Walter Veltroni, in pratica, finisce con la vicenda Reggiani. Un altro episodio, a pochi giorni dal voto, fa pendere la bilancia a favore di Alemanno, contro Francesco Rutelli: l’aggressione, a La Storta, di una studentessa del Leshoto. Alemanno annuncia: «Chiuderemo tutti i campi abusivi, espelleremo 30 mila immigrati irregolari» . Il censimento e il prefetto rimosso La vicenda rom parte da un censimento. Quello della Croce Rossa, sotto la supervisione del prefetto Carlo Mosca, commissario per l’emergenza nomadi. Il censimento inizia a luglio 2008, dal campo di via Candoni, ma incontra diversi problemi: in un caso, addirittura, volontari e vigili urbani quasi vengono alle mani. Mosca entra in rotta di collisione col ministro dell’Interno Roberto Maroni per la questione delle impronte digitali ai minori: il Viminale vorrebbe prenderle, il prefetto si oppone. «Sto dalla parte dei cittadini» , dice Mosca. Da lì a poco, sarà rimosso. Al suo posto, a novembre del 2008, arriva Giuseppe Pecoraro. Il secondo censimento A gennaio 2009 il nuovo censimento fatto dalla polizia, per assegnare il «Dast» (documento autorizzazione sosta temporanea), dal quale arrivano i primi numeri. I nomadi «ufficiali» a Roma, sono 7.200: oltre 5 mila dalla ex Jugoslavia, 2 mila circa dalla Romania. Gli insediamenti abusivi sono 80, quelli autorizzati o tollerati 21. Anche questo secondo screening non è semplice. Nei campi emerge il fenomeno degli alias, quelli che hanno più di un nome: un modo per depistare i controlli delle forze dell’ordine, quando qualcuno viene fermato per qualche reato. Il record è di una ragazza, che ha collezionato ben 17 alias. Il piano nomadi A maggio del 2009, il prefetto ha individuato in Angelo Scozzafava, direttore del Dipartimento politiche sociali del Comune, il «soggetto attuatore» , si parte col piano nomadi: dall’insediamento di Alemanno è già passato un anno. Nei progetti del Campidoglio e della Prefettura, i nuovi campi dovranno essere 12: 7 fra quelli esistenti (Candoni, Salone, Castel Romano, Cesarina, Gordiani, Camping River, Camping Nomentano), che vanno ampliati e ristrutturati. Tre quelli nuovi: uno è La Barbuta, le altre due aree sono in XVI Municipio e in XIX Municipio. Altri due campi saranno «di transito» . Ma ora emergono dissapori anche nel centrodestra: «La soluzione al problema nomadi resta distante» , ha detto ieri il deputato pdl Fabio Rampelli. Gli intoppi burocratici Il sindaco se l’è presa con la «maledetta burocrazia» . E con la Soprintendenza per La Barbuta. Il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro replica: «Spiace leggere certe dichiarazioni. Le nostre indagini sono durate da maggio 2009 a settembre 2010, ma è stata trovata una discarica abusiva con eternit, e i nostri funzionari sono stati minacciati da una comunità rom. Questo ha ritardato i lavori, ma da quando l’area era disponibile sono passati altri cinque mesi» . A primavera del 2009 è partito il bando per trovare le aree per i nuovi campi. A giugno sono arrivate le offerte dei privati: su dieci, due sono state ritenute «non idonee» . Su La Barbuta, il Comune di Ciampino (La Barbuta è nel territorio del Comune di Roma, ma è limitrofa all’aeroporto) ha presentato quattro ricorsi al Tar, tutti respinti. Poi è partita la conferenza dei servizi, durata 45 giorni. Alla fine, l’area è stata assegnata ad una ditta privata e i lavori sono partiti. Ora si comincia con le altre due aree, dove i tempi dovrebbero essere più brevi: i terreni individuati non sono soggetti a vincoli. Gli sgomberi L’amministrazione ci mette un anno e mezzo a segnare un punto: la chiusura del Casilino 900, il campo nomadi più grande d’Europa, a febbraio 2010. Alemanno esulta: «Per Roma è un giorno storico» , il suo commento. A luglio tocca al campo di La Martora e ora il sindaco dice: «Sgomberati anche Casilino 700, via Morselli, via degli Angeli e La Rustica» . In via Morselli, alla Magliana, i nomadi sono tornati. Ma le operazioni sono lente, e difficili: spesso i vigili trovano le baracche già vuote. E i nomadi, nella stragrande maggioranza dei casi, non accettano l’assistenza comunale. Alemanno, nel frattempo, viene preso da altri progetti: quello (tramontato) sulla Formula Uno, le Olimpiadi, la demolizione di Tor Bella Monaca, gli Stati generali della città. Le emergenze dei campi restano: da chiudere, ancora, ci sono via del Baiardo, Tor di Quinto, Foro Italico, via della Monachina, Tor de’ Cenci. I soldi spesi e da spendere Alemanno ha chiesto altri 30 milioni al ministero degli Interni: «10 per un terzo campo, il resto per ristrutturare i vecchi insediamenti, garantire l’assistenza e smantellare i 310 microcampi abusivi» , dice il sindaco. Finora, dal governo sono arrivati 33 milioni: 20 sono stati spesi per l’ampliamento dei campi, le bonifiche, il pagamento del personale, la vigilanza. Gli altri 13 serviranno per realizzare il campo di La Barbuta. La capitale dei microcampi Il Pd denuncia: «I mini insediamenti abusivi sono aumentati di 150-170 unità» . Secondo un documento del Comune, a dicembre del 2008 erano 60. Secondo l’ultima rilevazione della Municipale, sarebbero diventati 209. La situazione è in continuo divenire: i nomadi sgomberati si spostano altrove, tirando su altre baracche. Ma quanti sono i romeni, rom o cittadini della ex Jugoslavia a Roma? Il Campidoglio parla di «2-2.500 persone nei campi abusivi» . L’opposizione arriva fino al doppio. È la guerra dei numeri, che però rende l’idea della confusione sull’emergenza rom. Ernesto Menicucci
IL GIORNO DOPO
Lo squallore nel campo dimenticato
IL Messaggero, 08-02-2011
RAFFAELLA TROILI
NON c'è pietà nel degrado, neanche dopo la morte. Non ci sono pellegrinaggi e lacrime, non c'è decoro, tutto resta com 'era: squallido. Come quelle due gerbere incastrate nella recinzione a pochi metri da due slip da donna. Sono i luoghi "dimenticati da Dio", nel cuore della città. Davanti a un prestigioso circolo del golf, alle spalle delle villette appena costruite, dove le giovani coppie romane mettono su famiglia, e poi vanno a comprare la macchina nel concessionario davanti.
Tor Fiscale. Il giorno dopo il rogo in cui sono morti quattro fratellini. L'andirivieni di rom coi passeggini e i carrelli lungo l'Appia tanto noto nella zona, non c'è oggi.
Oggi gli invisibili sono ancora più invisibili. Sul luogo della tragedia, restano panni bruciati e arro¬tolati, giocattoli di bimbi, la baracca distrutta, una sedia, uno stendino. Una macchinetta abbandonata. E sul muro, come un brutto presagio, una vecchia scritta: "Vietato entrare". Le macchine continuano a sfrecciare, il quartiere Quarto Miglio a sinistra, l'Appio a destra, a pochi chilometri il centro, i negozi, la civiltà.
E questo fazzoletto di degrado e immondizia che ieri c'era uguale ma oggi è sotto i riflettori. Dopo il grosso sgombero del 2005, Tor Fiscale e l'ex deposito Cotral, era tornata agli onori della cronaca per un'importante indagine sulla pedofilia che aveva portato dritto negli insediamenti abusivi che l'assediano. E l'assediano perché quest'area - come le altre intorno - non è stata mai risanata. I residenti, come Francesca Romano, 33 anni, impiegata, ripetono: «E' la cronaca di una tragedia annunciata, vivevano in condizioni penose tra topi e sporcizia». E incalzano: «Negli ultimi tempi questi piccoli bivacchi sono aumentati, questi rom vanno da un insediamento abusivo all'altro, passano da uno sgombero all'altro senza che si offra loro una vera soluzione. Dalla Caffarella a Tor Fiscale e viceversa. Con tanti bimbi al seguito, che usano per l'accattonaggio». Francesca ogni tanto portava qualcosa a quei bambini che vivevano di niente e sono morti come fossero niente, che giocavano nel fango venivano scaldati con bracieri di fortuna, «l'altra sera c'era un odore strano, forse zolfo», dice un altro abitante.
Il giorno dopo nell'ex deposito Cotral ha gli occhi annichiliti e arresi degli uomini e delle donne della municipale e della scientifica. Si guardano attorno desolati, perché tutto parla di morte. La sensazione è che anche a passarci prima del rogo, in questo posto, tutto avrebbe parlato di morte, disperazione, sopravvivenza. «Sono persone che non conosciamo, che vagano per la città, ma non si sono mai rivolti a noi, i figli non andavano nelle nostre scuole», dice l'assessore alle politiche sociali del IX Municipio, Alessandra Sacchi. Vagavano per la capitale, lungo l'Appia Nuova, inerpicandosi sui sentieri che portano dove la vegetazione si fa fitta e abbandonata. Raggiungendo queste poche decine di baracche approssimate, spazi preziosi per i disperati, co¬me lo erano i non lontani archi del Mandrione per chi veniva dal Sud fino agli anni '70, rifugi di fortuna raccontati da Pasolini quando i poveracci erano ancora solo italiani.
Chi non l'ha visti mai? Con i carrelli pieni di scorte d'acqua, le valigie, i passeggini. La mattina si mettevano in marcia, una giornata per sbirciare nei cassonetti della spazzatura, per commettere furtarelli, vivere d'espedienti. Ora mentre aspettano che vengano tutti sgomberati, una famiglia di ac-campati tiene a prendere le distanze: «Loro rom, noi romeni».
Non si dà pace Roberta del comitato di quartiere Tor Fiscale perché «si poteva fare molto, prima e in tempo. Noi, sia come comitato sia come semplici gruppi di cittadini abbiamo fatto una marea di segnalazioni ai vigili, al prefetto, al municipio. Andate a vedere i verbali: è una vita che avvisiamo della presenza di occupazioni abusive, del viavai di persone in questi mini insediamenti. Il Cotral, che è proprietario dell'area, nel 2005. si era impegnato a recintare, bonificare e" vigilare l'area. Ma poi,è rimasto tutto così, abbandonato. Stanotte non si è dormito, per la rabbia».
DIVERSITÀ E INTEGRAZIONE
DUE MONDI E UNA SOLA SPERANZA
CORRADO RUGGERI
Corriere della sera, 08-02-2011
Seduta in terra, un neonato in braccio, l'altra mano tesa a invocare un'elemosina. Ieri alle 14, all'angolo fra via degli Uffici del Vicario e via della Maddalena. Quindici ore dopo il rogo dell'Appia. Anche lei è una ragazzina rom, volto affilato, sguardo spento, aria sofferente e non smaliziata, tanto che di fronte a un sorriso si lascia sfuggire l'età: «Quindici anni. Non ancora». Quel figlio forse è suo, 0 forse no, ma in ogni caso quell'esibizione da bisognosa mendicante è un argo-mento in più per ribadire - cozzando con il politicamente corretto - che loro sono diversi da noi, hanno storia, cultura, modi di vivere differenti.
È qui la chiave del problema rom. Se davvero lo si vuole risolvere, non si può rinunciare a forzare alcune decisioni e costringere questo popolo fiero al rispetto delle nostre regole, per la semplice e unica ragione che è qui che hanno scelto di vivere. La famiglia che domenica ha perso quattro bambini era già stata allontanata da un altro insediamento abusivo, aveva rifiutato un residence e si era sistemata in un spiazzo al riparo di una baracca. Per la sicurezza di un popolo intero, non possiamo più consentirlo.
Deve finire la stagione dei veti, dei no che bloccano tutto, di quella «maledetta burocrazia» capace di paralizzare ogni iniziativa, della bassa politica che
vuole far scambiare un censimento - fatto per sapere quanti sono davvero i rom - con una schedatura razziale. Poteri speciali o meno, bisogna intervenire. Tenendo ben presente un principio. La stagione del multiculturalismo mostra tutti i suoi limiti, e come ha detto coraggiosamente il premier britannico David Cameron «ha fallito». Sono i «nostri» principi che devono essere difesi e ribaditi nel rispetto delle «nostre» règole di vita. Che non prevedono bidonville o campi per uomini, donne e bambini.
Il sindaco Alemanno ha il merito di aver chiuso il Casilino '900, per 30 anni il più grande campo nomadi d'Europa, e di aver affrontato con decisione la questione rom. Altri hanno reso complicata l'ulteriore realizzazione di quel piano. Questi quattro ragazzini morti chiedono di andare avanti. E il presidente Napolitano vuole che si faccia in fretta.
La strage dei fratellini Non tutti possono piangere i bimbi rom
Il Giornale, 08-02-2011
Paolo Granzotto
La colpa di questa "tragedia orribile"? Per i buonisti di professione è del governo e di una società razzista nemica del multiculturalismo. Ma chi rifiuta l'integrazione sono gli zingari che del disprezzo della legge hanno fatto una cultura
La morte dei bambini nel campo nomadi alle porte di Roma è davvero «una tragedia veramente orribile», come ha detto il sindaco Gianni Alemanno. Ma non più orribile di altre di identica, drammatica portata solo perché le vittime sono quattro piccoli rom. Però è questo, il voler dare alla tragedia una portata esorbitante addossandone poi la responsabilità a una parte politica e alla società «razzista» in generale, ciò che si propongono le prefiche della sinistra col loro vile, ipocrita piagnisteo.
In casi simili deve prevalere la partecipazione e il sentimento di pietà, su questo non si discute. Ma escludere a priori una anche marginale responsabilità di «mamma Liliana» e «papà Mirko» che per recarsi al fast food lasciarono i quattro bambini soli - in una baracca di legno, cartone e lamiera dove ardeva una stufetta se non addirittura un falò -, escluderla per poter addossare l’intera colpa della tragedia alla «latitanza delle istituzioni» (cioè del governo, cioè di Berlusconi) e a un sindaco «incapace di gestire la politica dell’accoglienza» (così Vannino Chiti, commissario del Pd nel Lazio), è né più né meno che sciacallaggio. La politica dell’accoglienza: diciannove anni di amministrazione capitolina della sinistra di Vannino Chiti hanno forse mostrato, nella pratica, non a parole, quale sia la retta politica dell’accoglienza? O si vuol far credere che migliaia e migliaia di zingari si sono accampati a Roma solo a partire dal 28 aprile 2008, data dell’insediamento di Gianni Alemanno? Esempio di esemplare politica dell’accoglienza è forse il rogo nel campo nomadi a Livorno, città saldamente in mano alla sinistra, dove nell’agosto 2007 morirono tra le fiamme quattro fratellini?
Non è la «maledetta burocrazia» denunciata da Alemanno la sola responsabile del persistere dell’«emergenza nomadi». Conta, in modo preminente, l’ipocrisia buonista e solidarista, gli sdilinquimenti salottieri per il multietnico e il multiculturale che precludono, agitando lo spauracchio del razzismo, ogni iniziativa. La Germania di Angela Merkel e l’Inghilterra di David Cameron hanno, quasi all’unisono, annunciato l’abbandono delle aspirazioni alle società multiculturali dimostrando che il multiculturalismo si risolve in un danno, grave, per la società essendo deleterio sia per la comunità ospite sia per quella ospitante. La Merkel e Cameron, non certo eredi di Goebbels o di Oswald Mosley, hanno dovuto ammettere ciò che era un’evidenza lampante, e cioè che il multiculturalismo rappresenta il più serio ostacolo all’integrazione.
Eppure, affrontando il problema e, anzi, l’emergenza rom, da noi si seguita a insistere sulle bellurie del contrasto culturale. «È nella loro cultura», si dice degli zingari, e dobbiamo non solo rispettarla, ma anche apprezzarla e amarla. È nella loro cultura l’accampamento e dunque la baraccopoli; è nella loro cultura lo scansare il lavoro continuativo; è nella loro cultura la mendicità (aggiungendo, come non bastasse, che essa rappresenta il retaggio della antica e virtuosa cultura della condivisione dei beni, chiedi e ti sarà dato); è nella loro cultura, che non contempla il concetto - ovviamente culturale - della proprietà privata, l’appropriazione indebita; è nella loro cultura di cittadini del mondo, liberi come il Mistral, non adattarsi a leggi, regole e consuetudini che non siano le loro.
È evidente che con questi presupposti non dico risolvere, ma dare un ordine alla migrazione e al conseguente soggiorno continuativo dei rom diventa difficile, molto difficile. Perché lo smantellamento dei campi abusivi diventa un oltraggio anticulturale e c’è subito chi ricorre al Tar. E così la richiesta di affidamento di bambini cenciosi, sballottati da madri questuanti allo scopo di impietosire il passante. O la semplice pratica del censimento, subito denunciata (al Tar) come violenta intromissione nella privatezza di gente che al solito, libera come il vento, non conosce il concetto culturale dell’anagrafe. Ruspe. Di questo si ha bisogno per far fronte all’emergenza.
Ruspe e ferme richieste al governo romeno di collaborare nei rimpatri perché non ci son santi: non abbiamo - e non avevano i governi Prodi o D’Alema o Amato o Ciampi - risorse e strutture per dare accoglienza alle decine di migliaia di zingari che sciamano in una Italia che grazie alle sue pulsioni e isterie multiculturaliste è evidentemente ritenuta - sennò starebbero a casa loro - Paese della cuccagna.
SENZA REGOLE CE SOLO RAZZISMO
DAVIDE GIAGALONE
Tempo, 06-02-2011
Consentire l'esistenza dei campi nomadi abusivi è da razzisti. C'è stato spiegato mille volte che sono razziste e intolleranti le ruspe che li spianano, invece è vero il contrario.
La cancellazione di questi luoghi d'orrore e miseria viene fermata quando vi si trovano dei bambini. E' l'umanitarismo di chi si scandalizza per quelli che crepano bruciati, mentre lo scandalo e non averli strappati a quella realtà. Questa ennesima tragedia, questo ulteriore sfregio alla nostra pretesa di pensarci civili, deve indurci a deporre l'ipocrisia e ribadire che nulla è più razzista e segregazionista del tollerare la creazione, amministrazione e crescita di cen¬tri abusivi. David Cameron ha parlato del fallimento del multiculturalismo, sostenendo cose che scriviamo da tempo. Non è il fallimento della convivenza fra uomini, etnie, culture e reli-gioni diverse, perché, al contrario, quella convivenza è il succo della nostra stessa storia, la sostanza della nostra società e la ricchezza del nostro futuro. Il nostro Stato, lo Stato laico, è una forma istituzionale superiore alle altre (sì, superiore) proprio perché basata sulla pacifica e rispettosa convivenza fra diversi. Il che non solo non consente, ma esclude che, in nome di pretese "diversità", a qualcuno non si applichino le regole che valgono per tutti. Da noi ci si può sposare in comune, in chiesa, in sinagoga, in moschea, dove ci pare e ci si può non sposare, ma se un padre pre-tende di scegliere il marito della figlia, e se vuol farsi valere con la forza, lo arre-stiamo. Se qualcuno infibula le bambine non ci fermiamo davanti alla "diversità culturale", ma comminiamo anni di giustissima galera. Se a un romano affibbiamo una multa per divieto di sosta non consentiamo poi che intere aree siano abusivamente occupate da extracomunitari. L'idea che possano esistere pesi e misure diverse, a seconda del ceppo etnico e religioso degli interessati, è razzismo. Razzista, tanto per capirsi, è chi si sente tanto civile e antirazzista dall'appoggiare e sfilare accanto al negro in quanto negro, al rom in quanto rom, e così via. Chiaro? C'è, poi, un altro tema generale, che quei corpicini carbonizzati rabbiosamente pongono: la chiusura di quel campo era già stata decisa, ma non at¬tuata perché l'allestimento del nuovo è in ritardo, dati i vari ricorsi al tribunale amministrativo e il fermo imposto dalla sovrintendenza. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha detto che chiederà a gran voce, assieme al prefetto, i pieni poteri in materia. Non saprei dar consigli sul tono da utilizzarsi, ma mi sem¬brerebbe largamente proporzionato avvertire che se la faccenda non si risolve immediatamente le sue dimissioni sono da considerarsi date e non revocabili. Non è una questione di maggioranza, di assessorati o di quattrini, non è roba da cucina partitica, ma il frutto di una semplice constatazione: se il sindaco (in questo caso) non può fare quel che è scritto nel suo programma elettorale, se l'impedimento è dato da Una legislazione e amministrazione concepite per non fare un bel niente, ne deriva che sono stati presi in giro gli elettori e i cittadini tutti. Il che non è in nessun modo ammissibile. Non c'è un solo cittadino "normale" che s'appassioni al federalismo delle impotenze, non uno che valuti i propri amministratori leggendo delibere e carte bollate. Valgono i risultati. Al sindaco di Roma, quindi, si offre oggi la possibilità di lottare e vincere su due fronti giusti, facendo valere principi generali di civiltà. Non la sprechi, mano a mano che il puzzo di quelle carni bruciate andrà disperdendosi nel vuoto delle coscienze distratte.
I 4 bimbi rom morti Alemanno chiede poteri speciali
Avvenire, 08-02-2011
Luca Liverani
La tragedia dei quattro bimbi rom morti domenica sera nell'incendio della loro baracca sull'Appia, a Roma, è parte di "una vera emergenza" che va fronteggiata "con la massima mobilitazione di tutte le istituzioni in un quandro di effettivi interventi di Protezione civile". Lo dice Gianni Alemanno, sindaco della Capitale. Occorre "portare a termine il piano nomadi predisposto dal Prefetto di Roma", un piano - ricorda - "spesso ostacolato perchè offriva ai nomadi e ai senza fissa dimora 'solò campi attrezzati fatti di unità abitative prefabbricate", ma "l'alternativa sono gli infernali micro campi abusivi privi di ogni sicurezza". In secondo luogo, superata la chiusura dei campi abusivi, occorre "aprire subito da 3 a 5 nuovi campi autorizzati, superando vincoli burocratici, veti giudiziari e amministrativi, opposizioni preconcette di Amministrazioni locali e di comitati di protesta". al Prefetto, ribadisce Alemanno, servono "nuovi poteri speciali" e soprattutto "nuovi finanziamenti per portare a termine questo programma entro l'anno". Per chiudere i micro campi, inoltre, il sindaco chiede l'attivazione di "soluzioni di emergenza" con l'autorizzazione della Protezione civile per "requisire caserme dismesse ed altre strutture in disuso ma abitabili e allestire tendopoli organizzate e controllate". Infine il primo cittadino di Roma sottolinea la necessità di allestire "presidi socio educativi dentro i campi autorizzati, offrendo occasioni di formazione e lavoro, assicurando la scolarizzazione dei minori e il loro affido se le famiglie di provenienza non garantiscono la loro effettiva tutela".
MORTI CHE GRIDANO
Due gerbere, una rossa e una arancione. Una mano pietosa li ha incastrate nella recinzione del campo dove, domenica notte, un rogo brutale ha strappato a una vita di miseria quattro fratellini. Ora la scientifica raccoglie elementi per capire cosa ha scatenato l’incendio. Un lavoro inutile. Perché le cause della tragedia sono note e hanno un nome preciso: povertà e abbandono. Lo dice con forza il presidente Napolitano, dopo l’incontro con i genitori e la sorellina superstite: queste poche migliaia di persone «da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocati in alloggi stabili e dignitosi». Domani a Roma è lutto cittadino. L’ha voluto il sindaco Alemanno, che ora al governo chiede soldi e poteri perché il suo piano nomadi non è decollato.
La morte di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul, bambini rom romeni di 11, 8, 7 e 3 anni è tragicamente uguale a quella di tanti altri coetanei, arsi vivi nelle baracche per colpa di un braciere, una candela, un filo scoperto. Orrore in fotocopia della strage di Livorno, quando l’11 agosto 2007 morirono nelle fiamme della loro catapecchia Leunuca, Danchiu, Eva e Menji di 6, 8, 11 e 4 anni, tre fratelli e un cugino. Era già successo. E potrà succedere ancora, senza una svolta radicale.
Il micro-accampamento a pochi passi da Via Appia, periferia sud, è stato smantellato. I venti rom sono in una struttura di accoglienza del comune. Il pm Maria Cristina Palaia guida i rilievi della scientifica e dei vigili del fuoco del Nucleo investigativo anticendi. Assieme al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani indagano, per ora contro ignoti, per abbandono di minori. I genitori erano andati a comprare la cena, la sorella grande a prendere l’acqua. Sono stati già interrogati. La procura attende le autopsie.
Prima di finire in quella baracca, la famiglia di Mirca Erdea, il padre dei bambini, abitava in affitto a Colleferro. Poi, racconta, il proprietario li ha mandati via perché troppi. Il lavoro in nero nei cantieri non gli permetteva nulla di più che tuguri. Prima alla Caffarella, poi sull’Appia. «Ci hanno sgomberato più volte – dice – ora vogliamo solo riportare le salme in Romania». Originari del nord della Moldavia, vicino Piatra-Neamt, lì faranno i funerali. Domani, alle 17,30, la Comunità di S.Egidio ricorderà i piccoli in una veglia di preghiera a S.Maria in Trastevere.
Alemanno si dice sconvolto: «Sarà il mio tormento quotidiano». E alza la voce: «Chiederemo al governo 30 milioni per completare il piano nomadi e poteri speciali per il prefetto. Ci serve uno spazio di azione molto più incisivo per superare la cultura di chi dice "non nel mio giardino"». Poi promette lo smantellamento degli altri micro-campi. Alla Protezione civile «chiederemo tendopoli più sicure, controllate e dignitose. E le faremo dove sarà opportuno, non ci saranno presidenti di municipio e comitati civici che tengano».
Particolare attenzione ai minori: «Se le famiglie rifiutano di garantire assistenza adeguata, chiederemo al Tribunale dei minori di darli in affidamento». Disponibile Renata Polverini, governatore del Lazio: «Faremo la nostra parte, condividiamo le parole di Napolitano».
Ma il sindaco è nel mirino. «Da tempo avevamo segnalato al comune le gravi condizioni di vita di questo campo», ricorda sconsolata Susi Fantino (Sel), presidente del IX Municipio (zona Appia). «Nonostante le risorse economiche straordinarie profuse – commenta Vannino Chiti (Pd) – Alemanno ha fallito. Il suo piano da campagna elettorale s’è rivelato inadeguato». L’ex prefetto Achille Serra (Udc) spiega che «l’affido dei rom è irrealizzabile, scappano, nessuna norma consente di trattenerli, preferiscono stare dai genitori, anche coi topi».
E boccia «una politica dell’immigrazione che per acchiappare consensi dice "mandiano via tutti", anche perché il 70% dei rom è italiano». E Arci Solidarietà ricorda «i 30 milioni già spesi e il campionario di incitazioni all’odio dei comitati anti-rom aizzati dalle forze politiche» vicine al sindaco.
Rom, una questione di responsabilità
Corriere dela Sera, 08-02-2011
MAURO MAGATTI
D avanti al laconico ripetersi di notizie terribili che riguardano i campi rom— negli ultimi due anni, ci sono stati almeno 5 casi di incendi di baracche con morti e feriti, senza contare sgomberi e violenze — non ci si può nascondere dietro al dito della fatalità: una sequela così impressionante di incidenti può avvenire solo laddove esiste un terreno di coltura adatto. Al di là dell’emergenza, e persino al di là dell’indignazione, c’è qualche cosa di più profondo che deve essere messo in discussione, perché alla base di questa impressionante sequela di eventi non ci sono semplicemente problemi di inefficienza tecnica o burocratica. Chi sostiene questo, come il sindaco Alemanno, sbaglia. Dietro alla morte dei quattro fratellini rom del campo di Roma sta il fallimento nella costruzione delle condizioni idonee a forme di convivenza civile. Le polemiche pretestuose che su un tema come questo vengono quotidianamente rilanciate paiono fermarsi solo di fronte a 4 corpicini senza vita: come sempre, sono il dolore e la morte a costringerci a prendere atto della realtà che ci pone il problema. In questi frangenti, per un momento almeno, risulta chiaro ciò che non solo il buon senso, ma anche le migliori esperienze straniere suggeriscono: la via da seguire per modificare le condizioni su cui questi incidenti hanno luogo è quella di non tollerare il dato di fatto. Occorre, piuttosto, prendere l’iniziativa e lavorare per definire i termini di uno scambio che, nel rispetto reciproco, punti a fissare diritti e doveri reciproci. La costruzione di condizioni minime (abitative, scolastiche, lavorative) corrispondenti ai nostri criteri di civiltà è ciò che le istituzioni possono mettere in campo; in cambio, la comunità rom (ma qualcosa di simile si potrebbe dire anche per altre minoranze quali i cinesi o gli arabi fondamentalisti) deve essere chiamata a riconoscere e rispettare una serie di regole che valgono per tutti coloro che vivono all’interno della comunità politica circostante. Il problema è: perché, superata l’indignazione, questa strada viene regolarmente abbandonata? La ragione di fondo sta nel fatto che, per poter sussistere, uno scambio di questo tipo necessita di condizioni pre-istituzionali che lo rendono possibile. Prima di tutto c’è bisogno di fiducia— un bene sistematicamente distrutto dall’uso polemico che in questi anni è stato fatto dell’idea di straniero. Come una profezia che si autoavvera, una volta che vengono distrutte le condizioni di un’intesa, l’altro non può che diventare un problema intrattabile. In secondo luogo, c’è bisogno di comunicazione. Uno scambio di questo tipo deve sempre scontare zone d’ombra e difficoltà, dato che l’alterità reciproca non potrà mai essere superata, pena l’omologazione completa della minoranza alla maggioranza. Ciò comporta una grande flessibilità, che è possibile solo quando si dispone di buoni canali di comunicazione. Condizione, però, del tutto irrealistica quando si ha a che fare con le istituzioni del nostro Paese (basti guardare l’indecoroso palleggio di responsabilità tra chi avrebbe dovuto intervenire in una situazione più volte segnalata). Tutto ciò mi porta ad una conclusione: provare ad affrontare la questione dei campi rom nell’Italia contemporanea significa mettere al lavoro i soggetti che siano in grado di costruire una mediazione tra minoranze marginali, soggetti istituzionali e comunità locali. È curioso che in un Paese che dispone di una società civile intraprendente e qualificata non si riesca a comprendere che la relazione diretta tra le istituzioni e questo tipo di comunità è impraticabile per una serie di ragioni. Non ultima il fatto che le istituzioni si trovano a trattare una materia — quella della irregolarità — che è del tutto estranea alla loro cultura e quindi di principio rifiutata. Riconoscere e introdurre una terza parte mediatrice potrebbe rivelarsi un buon suggerimento e aiutarci nel giro di qualche anno a trovare soluzioni concrete a problemi concreti. Senza limitarci, di fronte alle prossime morti, all’urlo di indignazione, fugace e, come tale, sterile. Preside della Facoltà di Sociologia Università Cattolica di Milano
Benvenuti a Tor di Quinto la Roma degli “invisibili”
Avvenire, 08-02-2011
Giovanni Ruggiero
Ci sono ancora le pozzanghere dell’ultima volta che è piovuto a Roma. C’è il sole, ma non basta ad asciugarle. È un pezzo di terzo mondo a Roma, a Tor di Quinto, tra caserme e circoli di equitazione. Il campo rom – uno di quelli "a rischio" – è qui da più di vent’anni e, a seconda delle circostanze, si gonfia e si sgonfia come un otre. Baracche e misere casupole, coperte con cartoni e teli di plastica, qualche roulotte, panni stesi e i bagni azzurri allineati sul ciglio della strada, qualche macchina di chi è più ricco, che ha anche qualche dente d’oro.
E pensare che dopo l’omicidio di Giovanna Reggiani per mano di Romulus Mailat (fu nel 2007, proprio in questa zona) tutti dissero: mai più campi abusivi. Qui, tra gli snodi stradali, invece, vivono ancora più di 150 persone. All’origine erano tutti rom della Serbia, molti macedoni e kosovari. Adesso, invece, i romeni sono in maggioranza. Sono i nuovi arrivati: pagano una forma d’affitto ai vecchi abitanti che si ritengono un po’ i proprietari del campo.
Provenivano da Monte Antenne, ma qui sono nate ormai due generazioni: quelle generazioni corte e veloci dei rom che si sposano giovanissimi. Come fece anche Danka Djorgevic. Ha 50 anni, ma gliene dareste molti di più. Danka, capelli come il carbone con appena qualche filo di bianco, ha 9 figli. E i nipoti? «Saranno – dice – una cinquantina». Ci pensa su: «Sì 50. Più o meno siamo lì». Sono tutti nati in Italia. Qualche figlio ha fatto anche il militare, «ma il governo – dice Danka – non ci aiuta per niente. Chiediamo inutilmente un sussidio e una casa».
Inserirsi da qui non è facile. Ecco i suoi ragazzi e quelli degli altri che, armati di buone intenzioni, salgono le scale che li portano sulle strada da dove l’autobus 233 li porta nel cuore di Roma, una città che non li accetta. Qualcuno ce la fa: sua figlia Silvana ha studiato e poi c’è Dilan, uno della "cinquantina", che studia all’Alberghiero con buoni risultati.
Qualcuno, come Danka, è venuto dai Balcani. Tutti gli altri sono nati in Italia, ma pochi hanno i documenti. Johnny Iovanovic ha 18 anni. È nato a Roma e qui è nata anche sua figlia, Tiffany, ma non sono cittadini romani. Suo padre, Billy, ha 35 anni, vende fiori dove può e quando può. «Nessuno – aggiunge – starebbe qui, ancora in questa puzza, con l’acqua razionata e senza elettricità. Anche noi vorremmo una casa. Ma chi ce la dà?». Billy Iovanovic guarda negli occhi fissi ed è capace di amara e feroce ironia: «Hai visto – chiede – i bambini che stanno qui? Li abbiamo rubati tutti». E non sorride. L’amarezza lo trattiene.
Fuori le baracche la gente cucina e il profumo del cibo copre il tanfo che è nell’aria. Fra poco arriveranno con un pulmino i ragazzi della scuola. Ma non a tutti piace stare in classe. Lo sforzo più difficile dell’Arci, che ha avviato qui un programma di scolarizzazione, è proprio quello di vincere i riottosi che sono tanti. Cosa rende così difficile sconfiggere i "terzi mondo" che sono tra le nostre belle case? Il sindaco Alemanno lamenta difficoltà burocratiche e giudiziarie che, ad esempio, hanno impedito la realizzazione di un campo a La Barbuta. Si riferisce, il primo cittadino, ai 5 ricorsi al Tar che ha intentato il comune di Ciampino. In luogo dei campi, però, si comincia da tempo a parlare di vere case che sono il primo gradino dell’integrazione che, comunque, non è immediata. La pensano così all’Opera Nomadi.
Il loro presidente, Massimo Converso, è diretto: «Con i soldi spesi per i campi si sarebbero potute fare delle case vere e proprie. I ministeri che si occupano della questione rom in Italia sono ancora convinti che queste comunità siano quelle che vivono nelle baraccopoli. In realtà la maggioranza vive già in case. Nei campi è rimasta solo una minoranza». Quella che muore. Quella che chiamiamo nomade, ma la parola nomade non piace a don Enrico Feroci, direttore della Caritas romana. Fa credere che i rom vogliano vivere in roulotte. «L’integrazione – dice – passa per una vera casa che rende possibile la scolarizzazione. Ma dei rom dovrebbe occuparsi un’autorità non politica che non deve operare pensando al consenso elettorale. In questo modo è possibile pensare a progetti che non siano semestrali, ma di più lungo respiro: decennali o quindicinali. L’integrazione vuole tempi lunghi».
Le comunità rom sono giovani. Prendete la famiglia Iovanovic: dal nonno alla nipotina, in 35 anni appena. «Occorre – dice, riferendosi proprio ai giovani, Daniela Pompei di Sant’Egidio – una politica fondata sulla continuità: partire dai bambini con tempi necessariamente lunghi che portino all’integrazione mediante la scuola. Bisogna parlare, parlare e parlare. Non solo ai genitori dei piccoli rom, ma anche a quelli degli altri bambini. Va sconfitta la cultura dell’anti-gitanità». Ma pare sia difficile far capire che giovani come Johnny non hanno nessuna necessità di rubare le loro Tiffany ad altri papà.
DOPO LA MORTE DI QUATTRO BAMBINI IN UN CAMPO ROM ABUSIVO
Mercoledì lutto cittadino Napolitano: alloggi stabili ai rom
Riunione d'emergenza in prefettura: via subito ai nuovi sgomberi di microcampi. Il sindaco chiede al governo altri 30 milioni di euro e più poteri per il Piano Nomadi
Corriere della sera, 08-02-2011
Rinaldo Frignani
ROMA - Il sindaco della Capitale Gianni Alemanno ha dichiarato per mercoledì il lutto cittadino per commemorare i 4 bambini morti domenica in un campo rom sulla via Appia. Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, lo ha comunicato all'uscita dall'obitorio di piazzale del Verano dove, insieme al capo dello Stato, Giorgio Napolitano, oggi ha visitato le salme dei quattro bimbi rom morti ieri in un campo abusivo della capitale. E dove ha incontrato i loro genitori. Questi ultimi, ha spiegato il sindaco, «sono ospitati in una nostra casa di accoglienza e sono assistiti fino a mercoledì» quando «le salme ritorneranno in Romania». Il sindaco ha garantito che «tutte le spese saranno a nostro carico per evitare altri drammi a queste persone. Assicuriamo la massima solidarietà e vicinanza della città a questa famiglia». Intanto la procura di Roma procede, per ora contro ignoti, per abbandono di minori.
L'OMAGGIO DEL PRESIDENTE - Il capo dello Stato è giunto all'obitorio dell'Istituto di medicina legale, di fronte al cimitero monumentale del Verano, accompagnato dal segretario generale del Quirinale, Donato Marra. Il presidente della Repubblica ha reso omaggio alle piccole vittime del rogo. All'interno dell'obitorio il presidente Napolitano si è intrattenuto una ventina di minuti, incontrando anche i famigliari dei piccoli. «È stata una tragedia che pesa dolorosamente su ciascuno di noi e che ci rende ancor più convinti della necessità di non lasciare esposte a ogni rischio comunità che da accampamenti di fortuna, degradati e insicuri, debbono essere tempestivamente ricollocate in alloggi stabili e dignitosi. Le autorità locali e nazionali non possono non sentirsi impegnate ancor più fortemente a dare soluzione a un problema così grave in termini umani e civili», afferma il capo dello Stato, che sottolinea: «Ai genitori e alla superstite sorella dei quattro bambini rom orrendamente periti nel rogo del precario rifugio in cui vivevano, ho voluto esprimere il sentimento di umana solidarietà che con me oggi provano tutti i romani e gli italiani».
UE: «INTEGRAZIONE ROM SIA PRIORITÀ» - «La tragedia di ieri a Roma dimostra che l'integrazione dei Rom deve restare in cima alle priorità dell'agenda politica», questo il commento della vicepresidente della Commissione europea, Viviane Reding, responsabile per la giustizia e protagonista la scorsa estate di un duro scontro con il presidente Nicolas Sarkozy sulle espulsioni dei Rom dalla Francia, accusata di «discriminazione razziale». «Per la Commissione la questione dei Rom è molto più di una semplice storia estiva. Stiamo lavorando con gli stati membri per migliorare la situazione dei Rom in Europa».
IL PADRE DEI BIMBI - «Qualcuno dice che non abbiamo accettato accoglienza, non è vero. Il Comune e nessun altro ce lo ha mai proposto. Inoltre siamo stati sgomberati più volte. Ora vogliamo solo riportare le salme in Romania: spero che succeda presto, nei prossimi giorni». Queste le parole di Mirca Erdea, il padre di tre dei quattro bimbi morti nell'incendio di una baracca di un insediamento abusivo a Roma ieri sera. I genitori dei bimbi non hanno specificato dove si trovano in queste ore.
TRASFERIMENTI A BREVE - In mattinata si era tenuta una riunione, presenti il prefetto Giuseppe Pecoraro, lo stesso sindaco, l'assessore ai Servizi Sociali Sveva Belviso, il questore Francesco Tagliente e il responsabile della Protezione civile comunale Tommaso Profeta, in cui si è discusso della possibilità di accelerare gli ultimi sgomberi previsti dal Piano Nomadi: a cominciare dalle baracche del campo dove è avvenuta la tragedia, che saranno vuotate a abbattute nelle prossime ore. «Gli sgomberi dei microcamopi inizieranno immediatamente - ha annunciato Alemanno -. Chiederemo aiuto alla Protezione civile e al ministero della Difesa. Ai primi per costruire tendopoli vigilate e con assistenza continua; al ministro La Russa perchè metta a disposizione caserme sul territorio di Roma e provincia dove portare gli sgombrati dei microcampi».
2400 DA RICOLLOCARE - Il Campidoglio calcola che in questi microcampi siano ancora 2400 i nomadi da ricollocare in nuove strutture. Quanto ai minori, «se venissero accertate situazioni in cui i genitori non siano in grado di garantire la sicurezza dei figli - ha detto il sindaco - lancio un appello al Tribunale dei minori, affinché collabori per togliere loro l'affidamento dei bambini».
FIORI SULLA CENERE - Intanto sull'Appia, accanto ai resti della baracca da cui solo lunedì mattina sono stati rimossi i corpi dei piccoli, qualcuno ha deposto dei fiori. E mentre infuriano le polemiche, anche il sindaco di Bari, Michele Emiliano, ha proclamato il lutto cittadino per la morte dei quattro bambini a Roma: «I Comuni italiani non possono essere lasciati soli dallo Stato».
RUSPE E NUOVI INVESTIMENTI - «Dobbiamo reagire, dobbiamo dare una risposta adeguata a quel che è successo - ha poi detto Alemanno -: basta con la cultura del no. Il Pian Nomadi ha dato alcuni risultati: finora 310 microcampi abusivi sono stati sgomberati 5 grandi campi abbattuti». Sono in corso i lavori di adeguamento in 5 dei 7 vecchi campi, ma «non abbiamo potuto completare alcune cose per una serie di problemi burocratici e ricorsi al Tar, come accaduto proprio nel caso del campo nomadi della Barbuta», un insediamento a soli 6 chilometri al luogo della tragedia di domenica in via Appia.
TRASLOCHI E NUOVI POTERI - Secondo Alemanno, «Se il campo della Barbuta fosse stato ultimato per tempo, magari questa famiglia si sarebbe trasferita e non avrebbe subito questa tragedia». Invece da un anno e 3 mesi la ristrutturazione del campo sull'Apia è ferma «perché la sovrintendenza ha trovato una tomba romana». Altri 3 mesi di ritardo nello stesso campo sarebbero imputabili «a 4 ricorsi al Tar di cui uno del Comune di Ciampino».
Sindaco e prefetto di Roma hanno firmato insieme una lettera inviata a Viminale e Governo; nella missiva congiunta chiedono maggior poteri speciali per i prefetti (in questo caso a quello di Roma) e tra questi il potere di saltare la Conferenza dei servizi «in modo da non dover chiedere i parari a tanti enti prima di cominciare i lavori nei campi rom».
La autorità capitoline chiedono poi al Governo maggiori risorse: «Avevamo progetto di fare 3 campi nuovi, ma probabilmente saranno 5 (dato l'alto numero di nomadi nei microcampi abusivi), inclusa la Barbuta». Le aree sono tutte già individuate «ma servono 30 milioni di euro in più» rispetto ai 32 già ottenuti (e 20 sono già stati spesi) per il Piano Nomadi da Regione, Comune e Provincia nel complesso.
IL PRECEDENTE DELL'AGOSTO 2010 - La Capitale ha un piano nomadi che nell'autunno scorso era stato presentato da Gianni Alemanno al ministro dell'Interno Roberto Maroni. Il progetto prevede la creazione di 10 nuovi campi regolari per dare accoglienza a circa 6 mila persone. Nel corso del 2010, il piano del Campidoglio ha dato il via a numerosi sgomberi forzati di insediamenti abusivi, specie dopo che nel campo rom abusivo della Muratella c'era stato un altro tragico precedente: la morte di un bimbo di tre anni nel rogo della sua baracca.
310 MICRO ACCAMPAMENTI - Primo obiettivo del piano entrato nel vivo nell'estate 2010: sgomberare i 310 microaccampamenti abusivi presenti alla periferia di Roma. In seguito dovrebbero essere completate le aree mancanti dei campi autorizzati - che dai 1o ipotizzati sembrano poter diventare 15-16 -, ai quali si devono aggiungere due strutture d'accoglienza. Nei campi, una volta completate le strutture, verranno ospitate le 6mila persone inizialmente censite e i 2400 ancora stanziati nei microcampi abusivi.
Alle strutture attrezzate già esistenti, andranno dunque aggiunti nuovi campi che verranno realizzati su terreni privati trovati grazie a un bando di gara pubblicato dal Prefetto di Roma in qualità di commissario straordinario del Governo.
I tempi, già stretti, si riducono ancora alla luce della tragedia di domenica sull'Appia: non c'è scadenza certa, ma l'obiettivo è quello di arrivare entro dicembre 2011 alla chiusura di tutti i campi abusivi e tollerati - come avvenuto al Baiardo e a Tor Dè Cenci - in aree come Tor Di Quinto, Foro Italico, Arco di Travertino, Ortolani (Acilia), Monachina, Salviati, Settechiese.
IL MINISINDACO: «IL PIANO VA RIVISTO» - «Non si può continuare a sballottare famiglie con bambini, sgomberandole senza offrire loro proposte alternative e non si può far finta di non sapere in che situazione quelle famiglie si trovavano», obietta la presidente del IX Municipio di Roma, Susi Fantino, intervistata da Radio Città Futura all'indomani del rogo. Fantinom, che domenica sera aveva litigato con Alemanno sul luogo del disastro, insiste che «il Piano Nomadi del Comune di Roma va rivisto, perchè prevede di costruire i campi lontano dal contesto cittadino e da tutti i servizi: se l'idea è quella di creare delle situazioni isolate, non si dà a queste persone, che ormai non è più corretto chiamare nomadi, la possibilità di inserirsi, di lavorare, di mandare i figli a scuola». «Il sindaco chiede poteri speciali ma ce li ha già - conclude -: è il sindaco che in Italia ha più poteri di tutti e ha il dovere di fare delle proposte che partano delle persone e dai loro bisogni reali».
IL SINDACO DI BARI - «La morte dei bimbi riempie il cuore di rabbia e di dolore» e «siamo tutti responsabili di questa tragedia a causa delle sgangherate modalità con le quali affrontiamo il fenomeno dei popoli nomadi», osserva il sindaco di Bari Michele Emiliano. «La circostanza che alcune di queste comunità - spiega - ospitino sfruttatori di bambini, non attutisce i nostri errori, nè ci esenta da responsabilità. Anzi le aggrava». Emiliano auspica «una nuova strategia, a cominciare da un decreto legge urgente che assegni ad ogni Comune le risorse per operare una legalizzazione definitiva dei campi Rom dettando norme per assicurare ai bambini ed alle donne Rom gli stessi diritti delle donne e dei bambini di ogni luogo civile del mondo. Soprattutto il diritto all'istruzione, al lavoro e a non essere sfruttati dagli uomini e dagli adulti».
Le vite dietro un cellophane dei quattro piccoli fantasmi
Pochi giochi, niente scuola: così si cresce nelle baracche
Corriere della sera, 08-02-2011
Goffredo Buccini
ROMA — C’è l’orsetto rosso di Raoul, c’è la finta Barbie di Patrizia. Dettagli buttati su un materasso sopravvissuto alle fiamme, in mezzo al prato stento e al fango secco, sotto il sole del mattino che da queste parti illumina di contraggenio persino quando risplende. Sempre ci sono, in ogni strage, bambolotti e peluche per i taccuini, a raccontare in due righe e una foto com’era la vita dei bambini morti. Ed è così anche qui, anche oggi, in fondo all’Appia Nuova, dietro un recinto verde sbarrato dalle catene, in una campagna che fu deposito Stefer e poi Cotral, trasporti e oblio ai bordi di periferia e ai confini della buona coscienza dei romani che s’offusca un po’ oltre il civico 800, accanto al concessionario Volkswagen e di fronte al green di un esclusivo campo da golf. È così pure per queste vite e per questi bambini: benché fossero nascoste da tende di cellophane e tettoie d’amianto, le vite; benché fossero poco più che fantasmi, i bambini; e benché stavolta il racconto dell’orsetto e della bambola suoni falso, «taroccato» come un’istantanea di pietà tardiva. Nella notte un disperato delle baracche accanto ringhia ai cronisti cruda rabbia e nuda verità, «venite adesso che bimbi bruciano, bastardi, prima ve ne fregavate!» , per poi sparire nel nulla perché con tanti sbirri nei paraggi non si sa mai. E in effetti pure al mattino continua l’assurdo balletto sui nomi e le storie dei quattro piccoli ammazzati dall’incendio della loro catapecchia: chissà se Raoul era il figlio o il nipote di mamma Liliana, chissà se la bambina si chiamava Patrizia o Elena, chissà se Fernando e Eldeban sono lo stesso ragazzino di sette anni col nome tradotto o storpiato, chissà se Sebastian coi suoi undici anni è il fratello maggiore di Raul o un suo giovanissimo zio; tra questura, Nono municipio e associazioni, nonostante le migliori intenzioni di tutti, il rompicapo di identità e parentele sta lì a raccontare ciò che nessuno dice: che a dispetto di censimenti e regolarizzazioni promesse, di questi spettri infossati nella campagna di Roma sud nessuno sa e sapeva un accidente. Sicché le vite dei bambini, quelle degli adulti, le esistenze di sette gruppi familiari, venti o venticinque persone stipate quaggiù nella borgata di Tor Fiscale, in mezzo al parco dell’Appia e a una manciata di metri dall’acquedotto romano e dai tesori archeologici della zona, bisogna svelarle per immagini. Quella della Barbie e dell’orsetto è vera per metà, perché i bambini non erano bambini come i loro coetanei fuori dalle baracche, il gioco era forse un angolo dove nascondersi dagli incubi. «Li mandavano in giro a chiedere l’elemosina» , dice una voce malevola e da prendere con cautela perché per certa gente tutti i bambini rom vanno a chiedere l’elemosina, e questa può essere un’infamia postuma. Però la vita era dura. «Non andavano a scuola» , racconta Susi Fantino, la vendoliana presidente del municipio che ha duellato l’altra notte con Alemanno davanti alla scena dell’orrore. Ora di quella scena resta un largo spiazzo dopo il cancello verde e gli uomini della Scientifica chini tra i reperti: sullo stendino di plastica bianca, un giaccone, un vestito da donna, forse di mamma Liliana; una sedia e una bombola col tubo ancora attaccato; gli strumenti di sopravvivenza in cucina, un bacile, due pentole di ferro, una teglia, un flacone di detersivo, una grande brocca. Non c’era luce e per scaldarsi si riempivano d’alcol scatole di tonno e s’accendeva la fiamma. Non c’era acqua e il bagno è un riquadro di assi di legno smangiucchiate con un buco in mezzo e un’altra tenda di cellophane a simulare mura inesistenti. Qui le baracche ci sono sempre state da quarant’anni, sono cambiati gli occupanti e tutti se sono infischiati. Vecchi capannoni sono stati abbattuti come per esorcismo, dopo una storiaccia di pedofilia. Tanti disperati di un tempo hanno adesso la casetta abusiva in zona, si intuisce una specie di assurdo ascensore sociale in questi viottoli dove officine, casupole e vestigia della Roma antica si mescolano ciabattando sciatte come solo nella Roma postmoderna è possibile. I tuguri anche adesso s’assomigliano tutti — quattro travi, due tende da campeggio comunicanti, un po’ di eternit per tettoia, sacchi a pelo e materassi, bagni rifiuti: sicché, dodici ore dopo il rogo e la strage, ci si affaccia nella baracca di Mia, la vicina, a nemmeno cento metri, per sbirciare senza pudore brandelli della vita degli altri, di quelli che non possono più raccontare. Mia è gentile, spaventata, parla male l’italiano, meglio il romanesco. Dice che per l’acqua c’è il «nasone» due vicoli qua dietro. Dice che si campa svuotando cassonetti, «rovistiamo, puliamo e rivendiamo al mercatino» : e ci fa vedere un lampadario sgarrupato che per cinque euro verrebbe via. Dice che i volontari di Madre Teresa di Calcutta le portano da mangiare ogni settimana, la sede sta proprio vicino al «nasone» dell’acqua, la più antica aperta in Europa da Madre Teresa che coi suoi occhi da santa capiva e vedeva prima di chiunque. Di assistenti sociali o vigili, quaggiù, «manco l’ombra» . E anche adesso, mentre telecamere, poliziotti e carabinieri rivoltano zolla per zolla il terreno della strage qui accanto, nessuno degna Mia e la sua baracca di un’occhiata: si resta invisibili fino alla morte in certe vite. Della sua vita, metà sta fuori dalla tenda, la dispensa è un ammasso di pacchi di pasta e barattoli di pomodoro sotto un ombrello viola sdrucito. Per traslocare basta un carrello. Per morire basta una scintilla che schizza dalla scatola del tonno. Mia sospira: «Quattro bambini piccoli, non ho dormito, stanotte... poveretti, quattro bambini» . Poi giura di non conoscerne i genitori: «I bambini erano abituati a stare soli» . Venivano da lontano Raoul e la sua famiglia disgraziata. Dal sud della Romania alla Roma della Caffarella, altro rifugio, altro ghetto, altro incubo fino agli sgomberi e alla storiaccia di uno stupro che nel 2009 fece traballare l’immagine della città. Ancora sballottati, appresso a quelli di Action al Regina Elena occupato, di nuovo alla Caffarella e infine fuori, a Colleferro: «Volevamo stare in campagna ma ci hanno cacciato anche da quella casa perché eravamo troppi» , ha detto ieri piangendo disperata mamma Liliana. In certe vite si è sempre troppi, in certe vite si fugge sempre. Di queste vite restano infine due grandi dalie, una arancione e una rosa, nella rete di recinzione. Ma deve averle infilate lì qualche fotografo furbo per ricavarne un bello scatto: chi amava Raoul e i suoi è già scappato lontano e forse non aveva il tempo per deporre fiori.
Non è solo indifferenza
il manifesto, 08-02-2011
Annamaria Rivera
In fondo che ne sappiamo, di queste rivolte?», obietta l'amico, un vecchio compagno di solito ben orientato. «Come andranno a finire? Non scordiamoci dell'Iran e dell'abbaglio che prendemmo allora! Forse è meglio la stabilità attuale, per quanto non ci piaccia, che il rischio del caos e dell'islamismo». Replico con ogni argomentazione possibile, gli oppongo dati e analisi. Obietto che non tutte le insurrezioni sono finite in modo disastroso, che in Spagna, in Portogallo, in certi paesi dell'America Latina in fondo non è andata troppo male. Concludo che comunque ogni popolo ha diritto alla ribellione e che non si può preferire la dittatura, la repressione, l'ingiustizia al disordine. Niente da fare: rimane saldamente aggrappato ai suoi pregiudizi e alle sue paure.
È la sera del 6 febbraio. Ho appena saputo del rogo che ha ucciso quattro bambini rom, nella miserrima baraccopoli romana in fondo all'Appia Nuova. Attendo invano segnali di vita da almeno una delle tante mailing list antirazziste. Poi decido di telefonare a qualche attivista. È domenica: lì per lì cade dalle nuvole, ignorava la notizia. L'indomani mattina presto, ugualmente, tutto tace. La morte atroce delle quattro creature per il momento sembra non avere eco nel movimento antirazzista. Per fortuna verso la fine della mattinata i segnali arrivano.
Obiezione scontata: che c'entra la rivoluzione araba, o comunque la si voglia chiamare, con la morte dei piccoli rom? Risposta altrettanto scontata: la prima e la seconda reazione sono dettate dall'indifferenza. Ma la spiegazione è insufficiente, non coglie la radice dell'analogia. E poi sarebbe davvero ingiusto sostenere che gli attivisti antirazzisti siano di solito indifferenti. Forse c'è qualcosa di più profondo che le lega: forse è la tendenza a rimuovere la sofferenza altrui, ad allontanare i corpi e la loro vulnerabilità. Così che quando la politica s'incarna in esseri umani uccisi dalla discriminazione e dal pregiudizio o spinti alla rivolta da un'oppressione intollerabile, incisa nelle loro vite, la prima reazione difensiva può essere l'esitazione e l'imbarazzo, nel primo caso, il cinismo travestito da realismo politico, nel secondo. L'uno e l'altro riflesso avranno qualcosa a che fare con la troppo citata morte del desiderio e la depressione collettiva conseguente, ovvero con l'umore nazionale prevalente? Penso proprio di sì. L'infelice paese nel quale ci è dato vivere rischia di diventare un deserto in cui si aggirano morti viventi che non sanno di essere morti. Hanno smesso di desiderare il cambiamento, cioè la vita. Non sanno più immaginare ed emozionarsi, perciò restano abbarbicati alla fragile certezza della loro vita fittizia. Ci vorrebbe qualche pazzo desiderante come Mohammed Bouazizi, fra quelli di noi ancora in vita. Non auspico un suicidio, ovviamente, ma un gesto politico collettivo: tale in fondo è stato quello del piccolo ambulante tunisino che, immolandosi col fuoco, ha acceso la miccia della rivolta. Un atto che d'improvviso accendesse la luce del desiderio di un altro paese possibile. Dove i bambini rom non siano uccisi dai roghi dell'apartheid, i lavoratori non siano decimati dallo sfruttamento, le donne non siano massacrate dal delirio maschile e il despota sia costretto ad andare in pensione con la sua corte di nani e ballerine.
Lezione di cinese ai bimbi italiani
Paga tutto Pechino
La Stampa, 08-02-2011
FABIO POLETTI
In Veneto scuola gratuita per 64 bambini delle elementari Il progetto finanziato dall'Istituto Confucio: "E solo l'inizio"
La conoscono tutti «Frà-Mar-ti-no-cam-pa-na-ro...». Sessantaquattro bambini della scuola primaria dell'Istituto comprensivo Lendinara nel mezzo del Polesine, la sanno pure in cinese. E cantano «Due-tigri-correvano-velo-cemente», come se niente fosse. «Bravissimi, hanno una capacità di apprendimento che noi adulti nemmeno immaginiamo», spiega Pierluca Benini, docente di cinese moderno in questa scuola, l'unica in Italia dove insieme ai pri mi rudimenti di inglese viene insegnata ai bambini pure la lingua di Pechino. «Ci è stata data un'opportunità. L'abbiamo presa al volo. I cinesi sono 1 miliardo e 300 milioni. La loro economia tira nel mondo. In questo mondo globalizzato è meglio imparare a farsi capire pure da loro», racconta Lucio De Sanctis, direttore di questa scuola in centro al paese, tre piani per mille allievi di tutta la zona tra scuola primaria elementare e media, dove all'ingresso sventolano il tricolore e la bandiera azzurra d'Europa ma dentro batte un cuore tutto cinese.
A Lendinara ci sono 12 mila abitanti tra italiani e stranieri, duecento sono immigrati dalla Cina. Una volta lavoravano nello zuccherificio, nelle fabbriche dove ancora si tesseva la juta. Adesso sono impiegati nelle piccole e medie aziende - scarpe e confezioni soprattutto - dove il made in Italy combatte sul mercato globale. Alcune aziende lavorano già nell'Est Europa, altre sono arrivate fino in Cina. E la Cina adesso gli è arrivata in casa grazie all'Istituto Con-; fucio di Padova, una specie di Istituto Dante Alighieri per promuovere nel mondo la lingua e la cultura cinese. E siccome sono cinesi, fanno le cose velocemente e assai in grande.
Wang Fusheng è il direttore dell'Istituto Confucio di Padova. Uno dei quattrocento nel mondo, destinati a diventare duemila entro la fine del decennio. L'istituto lavora alle strette dipendenze dell'ambasciata a Roma, sotto il controllo diretto del governo di Pechino. Deve solo promuovere la cultura e la lingua, non fa politica, non promuove alleanze commerciali. Wang Fusheng sogna in grande: «Ci piacerebbe prendere contatti con il vostro ministero della Pubblica Istruzione. Per noi è molto importante. I corsi vengono pagati direttamente dal nostro istituto. Gli istituti Confucio nel mondo, per questo hanno un budget di 4,5 miliardi di dollari».
Tolte pure le spese per le sedi e per il personale, sono comunque tre miliardi e trecento milioni di euro più gli spiccioli che il ministro Mariastella Gelmini se li sogna di notte.
I corsi nella scuola di Lendinara sono gratuiti e aperti a tutti i bambini delle terze e quarte elementari. Più piccoli non avrebbero le capacità grammaticali per apprendere un'altra lingua. L'idea è che l'insegnamento del cinese vada avanti fino alla fine delle medie, con un percorso didattico di sei anni. Un'ora alla settimana per adesso. Al pomeriggio nell'area di insegnamento extrascolastico. Su sessantaquattro bambini si sono iscritti in sessantaquattro. Pure due bambini originari del Marocco. «In un anno imparano le frasi più semplici. In sei anni sono in grado di sostenere già una conversazione e di scrivere correttamente», assicura l'insegnante di cinese mentre racconta che la difficoltà di apprendere una lingua così diversa dalla nostra, è solo uno stimolo maggiore per tutti i bambini.
Se i piccoli alunni sono entusiasti, i genitori non sono da meno. Andrea Paio, professione commercialista, ha una figlia iscritta in questa scuola: «Io sono contento che i nostri bambini imparino un'altra lingua come il cinese. Non è solo per completare un processo di integra-zione culturale. Ma so che così i no-
stri figli in futuro avranno una marcia in più. Io sono commercialista. Mi capita di lavorare con i cinesi. Quando parlano tra di loro ovviamente capisco nulla...». Potenza di questo Nord Est che guarda alle nuove sfide e si arrende mai. Potenza di questo Polesine laboratorio di nuove sperimentazioni didattiche. Vincenzo Milanesi, presidente dell'istituto Confucio ed ex docente all'Università a Padova, in questo progetto crede molto: «La Cina Popolare sta facendo grossi investimenti sulla cultura. E questo è un vantaggio per tutti perchè la conoscenza tra i popoli favorisce la cooperazione».
Il sindaco di Lendinara Alessandro Ferlin, eletto con una lista civica che tiene insieme centrodestra e centro-sinistra - bella sfida pure quesa - fa l'entusiasta: «Che i nostri figli imparino l'inglese è scontato. Il cinese è oramai un obbligo. Il nostro è un proget¬to pilota destinato a continuare speria¬mo che anche le istituzioni capiscano l'importanza di queste cose». Maria Fernanda Barile, responsabile dell'ufficio provinciale scolastico di Rovigo raccoglie la sfida: «Esperienza positiva. Sarebbe bello trovare altre disponibilità nel territorio». E magari pure oltre, che i cinesi ci mettono un bel po' di dollari solo per farsi capire meglio.
Sarkozy ha capito che una società del XXI secolo si costruisce con il rispetto ferreo della legalità
Multiculturalismo, la risposta francese
Avanti, 08-02-2011
Andrea Verde
L'avanzare di movimenti xenofobi in tutta Europa, obbliga le autorità politiche ad affrontare in maniera nuova i problemi dell'integrazione degli immigrati. A ragion del vero, Nicolas Sarkozy, rimettendo in discussione il modello francese già da qualche tempo, era stato l'antesignano di un nuovo approccio verso Islam e immigrazione. La Francia ha conosciuto una grande ondata migratoria negli anni Cinquanta ad opera di persone provenienti dall'ex colonie del Maghreb e dell'Africa sub-saharianna. Nonostante il «modello repubblicano» prevedesse l'integrazione degli immigrati attra-verso l'assimilazione, contrariamente a quanto avveniva in Inghilterra e Germania, sono sorti molti problemi con gli individui appartenenti alla «seconda generazione». Questi figli di immigrati, per lo più nati in Francia, con la nazionalità francese, non sempre sono riusciti a integrarsi e ultimamente, molti tra essi, hanno subito il richiamo di tentazioni identitarie, grazie al dilagare dell'estremismo all'interno della comunità islamica. Un dato allarmante lo forni nel 2007 l'Insee, quando rese noto che quasi la metà dei detenuti nelle carceri francesi era di origine magrebina e africana.
Nicolas Sarkozy, figlio pure lui di immigrati ungheresi, prese a cuore il problema sin dal 2005, quando, come rninistro degli Interni, represse in maniera dura la rivolta delle «banlieus» e dichiarò guerra all'estremismo islamico. Sui principi Sarkozy non ama transigere, ma al tempo stesso ha dato dei segnali di apertura, che prima di lui nessun presidente - Mitterand incluso -aveva osato immaginare. Come leggere altrimenti l'ingresso, nel 2007, nella compagine governativa di dorme come Rachida Dati, Rama Yade e Fadela Amara, simboli di quella Francia che spesso si è sentita esclusa?
Sarkozy ha anche inventato la "laicità positiva" che implica un equilibrio di rispetto, di tolleranza e di dialogo tra il piano spirituale e quello politico. La separazione tra Stato e Chiesa, formalizzata in Francia dalla costituzione del 1905, non implica il rifiuto e la negazione delle religioni, ma stabilisce una netta di¬stinzione tra ciò che è il aedo con il suo corollario e il funzionamento delle istituzioni. Di conseguenza, se è vero che esiste una riflessione morale ispirata da convinzioni religiose, è anche vero che esiste una morale umana indipendente dalla morale religiosa. Ma perché Sarkozy insiste sulla «laicità positiva»? Perché per la Francia, che si considera storicamente il Paese dei diritti dell'uomo, questa laicità deve contribuire all'uguaglianza di tutti i francesi da¬vanti alla legge? La «laicità positiva» è una diretta conseguenza della legge Stasi, promulgata ai tempi di Chirac che vieta l'ostentazione dei simboli religiosi nelle scuole e nei luoghi pubblici: questa legge, meglio conosciuta come legge antivelo, fu osteggiata dalla parte più intransigente della comunità musulmana che minacciò di ritirare le ragazze dalle scuole pubbliche davanti al divieto di indossare il velo.
Sarkozy è andato oltre; ha voluto un registro degli imam, ha preteso che questi predicassero in francese nelle moschee, ha mostrato tolleranza zero verso ogni forma di xenofobia e di anti-semitismo, ha isolato gli estremisti nella comunità islamica, ha preteso di conoscere l'origine dei finanziamenti delle moschee e ha dichiarato guerra al burqa, considerato come un segno di «sottomissione e di umiliazione della donna» e pertanto non gradito sul suolo francese. Sarkozy ha capito, meglio di ogni altro, che una società multiculturale si costruisce con il rispetto ferreo della legalità e con il controllo delle tentazioni identitarie, che possono divenire molto pericolose in periodi di crisi economica. Non è un caso che la Francia abbia intensificato la sua azione per il rispetto dei diritti dell'uomo, anche a livello internazionale, presentando lo scorso anno una mozione all'Orni contro le discriminazioni (che prendeva di mira i Paesi musulmani) e promuovendo iniziative contro pratiche barbare come l'infibulazione, la poligamia e la lapidazione delle donne adultere; si noti che la Francia è stata in prima linea nella richiesta, al governo di Teheran, di salvare Sakineh dalla lapidazione e che di recente ha subito pesanti minacce da parte di Al Qaeda.
Nel nostro Paese prima di parlare di cittadinanza breve, bisognerebbe capire quale modello di integrazione voghamo adottare, non scordandoci che, di recente, il ministro degli Interni francese, Brice Horte-feux, ha proposto che la cittadinanza possa essere revocata a chi sì macchia di gravi reati contro le forze dell'ordine.
Affossando il multiculti, Cameron risistema Londra (e Clegg) nel mondo
Il Foglio,08-02-2011
Antonio Gurrado
Londra. Il più evidente effetto collaterale delle parole rivolte dal premier britannico, David Carneron, alla platea della Security Conference di Monaco, è la ricollocazione quasi prepotente della Gran Bretagna nel quadro delle potenze occidentali, Il primo ministro ha definito "the opposile of truth" il sospetto che la strategia difensiva del Regno Unito potesse portarlo a ritirarsi da un ruolo attivo sullo scenario internazionale, e non soltanto ha ribadito il proprio sostegno alla missione della Nato in Afghanistan, ma l'ha messo in diretta correlazione con la necessità per tutta l'Europa di non limitarsi ad agire contro il terrorismo islamico soltanto al di fuori dei confini patrii. Tutta l'impostazione del discorso gravitava attorno a come l'esperienza britannica possa tornare utile a un'Europa "che ha bisogno di svegliarsi". Cameron ha citato il terrorismo repubblicano nell'Irlanda del nord, dandovi lo stesso peso dato a quello anarchico in Germania, Italia e Grecia. Ha poi gettato uno sguardo speranzoso ai tumulti di Tunisi e del Cairo, s'è impegnato nella gestiti ne della questione palestinese e ha ribadito interesse per il riformismo in medio oriente. Forte di quest'ampia prospettiva globale, ha detto che l'esperienza inglese fornisce "una lezione generale" per tutti gli altri stati e ha concluso con la promessa dì porre la Gran Bretagna all'avanguardia delle nazioni "genuinely liberal".
Intanto, in Inghilterra, strilli d'incontrollata indignazione; si sono levati a sottolineare la concomitanza temporale fra il suo discorso e il piti massiccio corteo mai organizzato dalla English Defence Lea gue Mentre il primo ministro ammetteva che cospicui settori di immigrati islamici non rispettano i valori basilari della società britannica, e prometteva che d'ora in poi il suo governo mirerà a evitare che gruppi e associazioni sospettate di fomentare l'autosegregazione culturale ottengano appoggio o finanziamenti, per le strade di Luton sfilavano tremi la sostenitori dell'Edi. Questa lega, fondata nel 2009, è considerata la faccia presentabile dell'ariti islamismo: a differenza del British National Party, l'Edi ha da subito aperto le; iscrizioni a membri di ogni razza e ha dichiarato di non schierarsi solo contro l'islam ma contro ogni tipo di fanatismo.
Ciò non ha impedito ai suoi membri di intonare cori poco cortesi nei confronti della fede islamica e di rivendicare il fatto che Cameron si sia alfine schierato con loro; così come l'area sinistrorsa della società britannica è insorta contro il premier che - stando al ministro ombra della Giustizia Sadiq Khan col discorso di Monaco ha fornito un inatteso endorscment ai coloriti slogan dell'Edi. Questo non rende giustizia a Cameron, che ha esplicitamente condannato "l'estrema destra che ignora la distinzione fra islam e fondamentalismo islamico" e ha respinto la convinzione che "occidente e islam siano inconciliabili".
Si potrebbe sospettare che Cameron intendesse piuttosto regolare qualche conto all'interno della coalizione che lo sostiene, ristabilendo precisi rapporti di forza. Le sue parole hanno anzitutto stornato l'attenzione dal ritardo con il quale il governo varerà la Prevent strategy, il piano di prevenzione del terrorismo che doveva essere pronto per gennaio ma che, secondo le ultime previsioni, non verrà partorito prima dell'estate. Inoltre, i titoloni guadagnati da Cameron nel fine settimana hanno messo in difficoltà la baronessa Sayeeda Warsi, da tempo sua stretta collaboratrice e convinta fautrice dell'apertu¬ra dialogante ad ampie frange islamiche dalle attività non sempre cristalline. La giovane Lady Warsi è stata via via politicamente sterilizzata - le sono stati assegnati un seggio vitalizio alla Camera dei Lord, che le impedirà di candidarsi per la politica attiva, e la presidenza del partito, ruolo poco meno decorativo di un berretto a sonagli - e già in ottobre Cameron le aveva impedito di partecipare a una conferenza pro multiculti ritenuta troppo outré. Il discorso di Monaco sembra essere la definitiva sconfessione delle ultime infuocate dichiarazioni della baronessa, che aveva severamente criticato "Fanti islamismo da salotto" diffuso nelle fasce più rispettabili della società britannica scatenando l'ostilità dello zoccolo duro dei Tory.
Ma la vera vittima delle parole di Cameron sembra Nick Clegg. Sempre più indifeso di fronte all'emorragia di voti a sinistra, il vicepremier ha fatto un cavallo di battaglia liberal-democratico dell'amnistia per gli immigrati irregolari, in larga parte musulmani. Notando invece come un'ampia parte di costoro violi i fondamenti della società liberale e richiamando a "un liberalismo più attivo e muscolare", il leader dei conservatori ha forse pregustato la cannibalizzazione di un partito in caduta libera: per questo ha impostato la ricezione interna del suo discorso di Monaco sul sottinteso che ormai il vero difensore dei valori liberali della Gran Bretagna non sia più Clegg ma solamente lui.
CONTRO LATOLLERANZA PASSIVA
Il Foglio ,08-02-2011
di David Cameron
Il premier inglese dice: questi sono i nostri valori, se volete stare nella nostra società dovete crederci
Pubblichiamo il discorso tenuto dal premier britannico sabato 5 febbraio alla conferenza di Monaco sulla sicurezza.
Oggi voglio fare alcune riflessioni sul terrorismo, ma prima permettetemi di chiarire un punto. Secondo alcuni, rimettendo in discussione i temi della sicurezza e della difesa strategica, la Gran Bretagna sta in qualche modo rinunciando a un ruolo attivo nel mondo. Questa affermazione è esattamente l'opposto della verità: sì, stiamo facendo i conti con un buco nel nostro bilancio, ma ci stiamo anche assicurando che le nostre difese siano forti.
La Gran Bretagna continuerà a rispettare il limite minimo per le spese della Difesa, fissato al 2 per cento dalla Nato. Continueremo ad avere il quarto bilancio militare al mondo per grandezza. Allo stesso tempo, stiamo facendo fruttare meglio i soldi spesi, concentrandoci sulla prevenzione dei conflitti e costruendo un esercito più flessibile. Non è una ritirata, è un atto di realismo. Ogni decisione che prendiamo deve rispettare tre obiettivi: continuare a sostenere la missione Nato in Afghanistan; rinforzare la nostra capacità militare effettiva; assicurarci che la Gran Bretagna sia protetta dalle minacce che dobbiamo fronteggiare, nuove e molteplici. La minaccia più grave è rappresentata dagli attacchi terroristici, alcuni portati a termine da nostri cittadini. E' importante chiarire come il terrorismo non sia legato esclusivamente a una religione o a un gruppo etnico, ma dobbiamo riconoscere che in Europa questa minaccia viene principalmente da giovani che seguono un'interpretazione dell'islam distorta e perversa, che li rende pronti a farsi esplodere e a uccidere i loro concittadini. Oggi il mio messaggio sulla sicurezza è duro ed essenziale: non sconfiggeremo il terrorismo soltanto con quello che facciamo fuori dai nostri confini. L'Europa ha bisogno dì svegliarsi per quanto riguarda ciò che sta succedendo nei suoi paesi. Dobbiamo andare alla radice del problema, e dobbiamo essere chiari su quale sia l'origine di questi attacchi terroristici: l'esistenza di un'ideologia, l'islamismo radicale. Bisogna essere molto chiari anche su cosa significhi questa espressione, e distinguerla dall'islam, che è una religione professata in maniera pacifica da oltre un miliardo di persone. L'islamismo radicale è un'ideologia politica portata avanti da una minoranza, ai cui estremi ci sono quelli che si servono del terrorismo per raggiungere il loro obiettivo definitivo: un regno islamico, governato secondo l'interpretazione della sharia. Se ci si muove lungo questo spettro, si trovano persone che in linea di massima sono contrarie alla violenza, ma che accettano buona parte del pensiero degli estremisti, inclusa l'ostilità verso le democrazie occidentali e i valori liberali.
La distinzione tra ideologìa politica e religione è fondamentale. La gente le mette sullo stesso piano, pensando che quanto più uno è osservante, tanto più sarà estremista. Ma si può benissimo essere un musulmano devoto e non essere un estremista. Dobbiamo essere chiari: l'estremismo degli islamisti e l'islam non sono la stessa cosa. L'estrema destra, da una parte, ignora la distinzione tra islam e islamisti radicali, e si limita a dire che islam e occidente sono inconciliabili, che c'è uno scontro di civiltà. Da questo ne conclude che dovremmo tagliare i rapporti con questa religione, a costo di ricorrere ai rimpatri forzati o al divieto di costruzione di nuove moschee, co me viene suggerito in molte parti d'Europa. Questa gente diffonde l'islamofobia, e io rigetto completamente le loro ragioni. Se volessero un esempio di come i valori occidentali e l'islam siano compatibili, dovrebbero guardare a cosa sta accadendo nelle ultime settimane nelle strade di 'Amisi o del Cairo: centinaia di migliaia di persone che chiedono il diritto universale a elezioni libere e alla democrazia. Il punto è questo: l'ideologia estremista è il problema, l'islam non lo è nella maniera più assoluta, Combattere con quest'ultimo non ci sarà di aiuto per combattere il primo.
Dall'altra parte, anche quelli della sinistra ignorano questa distinzione. Mettono tutti i musulmani insieme, compilando una lista di lagnanze e sostenendo che se solo ì governi rispondessero alle loro rivendicazioni, gli allaccisi terroristici si fermerebbero. Insistono sulle condizioni di povertà in cui molti musulmani vivono e dicono: "Fatela finita con questa ingiustizia e il terrorismo finirà". Ma ignorano il fatto che molti di quelli che sono stati condannati per terrorismo in Gran Bretagna e nel resto del mondo sono laureali e spesso appartengono alla classe media. Accusano i leader mediorientali che governano senza essere stati eletti e dicono: "Se la smetterete di appoggiare queste persone non creerete più le condizioni su cui gli estremisti prosperano". Ma se il problema è la mancanza di de mocrazia, perché molti di questi estremisti stanno in società libere e tolleranti?
Ora, non sto dicendo che le questioni della povertà e del malcontento sulla politica estera non siano importanti. Certo, dobbiamo affrontarle entrambe. Quanto all'Egitto, la nostra posizione deve essere chiara: vogliamo vedere la transizione a un governo a base più ampia, che abbia in sé
i presupposti essenziali di una società libera e democratica. Non posso accettare che si ponga una scelta obbligata tra due sole opzioni: o uno stato di sicurezza oppure uno stato islamista, Ma non dobbiamo illuderci. Anche so riuscissimo a risolvere tutti i problemi che ho menzionato, il terrorismo continuerebbe a esistere, lo credo che la radice del problema stia nella presenza di questa ideologia estremista, E ritengo che uno dei principali motivi per cui così tanti giovani musulmani ne sono attratti sia in sostanza una questione di identità.
Nel Regno Unito, alcuni giovani hanno difficoltà a riconoscersi nell'islam tradizionale seguito dai loro genitori nei paesi d'origine. Ma questi giovani hanno altrettante difficoltà a riconoscersi nella Gran Bretagna, pache noi stessi abbiamo permesso che si verificasse un indebolimento della nostra identità collettiva. Con la dottrina del multiculturalismo abbiamo incoraggiato le diverse culture a vivere in modo sepa-ralo, sia l'una rispetto all'altra sia rispetto a quella principale. Non siamo stati capaci di offrire una visione della società alla (quale possano desiderare di appartenere.
Così, quando una persona di razza bianca esprime opinioni inaccettabili, come ad esempio teorie, razziste, noi, giustamente, la critichiamo e la condanniamo. Ma quando opinioni altrettanto inaccettabili sono espresse da una persona di razza diversa, siamo estremamente cauti, per non dire timorosi, nei condannarla. Un esempio concreto? Non aver saputo affrontare in modo concreto la crudeltà del matrimonio coatto. Questa nostra indifferente tolleranza è servita soltanto a rafforzare l'impressione che non ci siano valori realmente condivisi. E questo lascia alcuni giovani musulmani con la sensazione di essere privi dì radici. E la ricerca di qualcosa in cui riconoscersi e in cui credere può spingerli ad aderire a questa ideologia estremista. Ora, senza dubbio, non si trasformano automaticamente in terroristi; ma ci troviamo comunque di fronte a un processo di radicalizzazione, come si può facilmente vedere in parecchi paesi europei.
Ora, qualcuno potrebbe dire: "Finché non fanno male a nessuno, qual è il problema?", Ve lo spiego subito. Man mano che si scopre il retroterra culturale delle persone condannate per atti terroristici, appare chiaro che molti di essi sono stati inizialmente influenzati dai cosiddetti "estremisti non violenti" e solo successivamente hanno ulteriormente estremizzato le loro idee fino ad abbracciare la violenza. E io penso che questo sia come un'accusa all'atteggiamento che abbiamo mantenuto in passato su questi problemi. Perciò, se vogliamo davvero sconfiggere la minaccia terrorista,
Multiculturalismo troppo debole con l'Islam radicale
il Riformista, 08-02-2011
ENRICO BELTRAMINI
Ammetto che non avevo capito. Quando GW Bush se ne venne fuori con l'idea che i problemi del Medio Oriente e del terrorismo islamico si sarebbero risolti importando in Iraq - e poi nell'intera area — i valori della democrazia, pensavo si trattasse di un esempio isolato di estremismo ideologico neoconservatore. Mi sbagliavo. Avrei dovuto prestare attenzione all'altro co-protagonista della missione, il primo ministro inglese Tony Blair. Il quale non è un neoconservative, e che tuttavia diceva le stesse cose.
E ammetto che neppure l'intervento del can-celliere tedesco Angela Merkel, quattro mesi fa, mi aveva aperto gli occhi. La Merkel aveva parlato di fallimento dell'approccio multiculturale. Un fiasco, il tentativo di creare in Germania una società multiculturale. C'è bisogno degli immigrati come mano d'opera in Germania, ma questi devono integrarsi e adottare la cultura e i valori tedeschi. Al centro delle polemiche era in particolare la comunità musulmana, quattro milioni di persone, tre dei quali originari della Turchia. La Merkel aveva parlato così: «Siamo un paese che nei primi anni Sessanta ha accolto lavoratori ospiti. Ora questi vivono con noi, e noi abbiamo mentito a noi stessi per diverso tempo, dicendoci che non sarebbero rimasti e che un giorno se ne sarebbero andati via. Questa non è la realtà. Quest'approccio multiculturale del 'viviamo fianco a fianco e ne siamo felici' è fallito, completamente fallito». Avevo tuttavia interpretato le sue parole in un'ottica elettorale, in un atto di riposizionamento del suo partito - la Cdu - all'interno della coalizione di governo. Proprio il giorno prima del discorso della Merkel, il presidente della Csu, l'ala bavarese della Cdu, Horst Seehofer, aveva solennemente dichiarato che «noi, in quanto partito, siamo per una cultura tedesca dominante e contro il multiculturalismo, il Multikulti è morto!» I conservatori cavalcano il dibattito sull'Islam, nel momento in cui uno studio rivela che il 58 per cento dei tedeschi è in favore di limitazioni alla libertà religiosa dei musulmani.
Ma il recentissimo discorso di David Cameron a una conferenza sulla sicurezza a Monaco di Baviera ha compiuto il miracolo. Il leader conservatore ha preso nettamente le distanze dal mul-ticulturalismo: «Sotto la dottrina del multiculturalismo di Stato abbiamo incoraggiato culture dif¬ferenti a vivere vite separate, staccate l'una dall'altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società alla quale le minoranze etniche o religiose sentissero di voler appartenere. Tutto questo ha permesso che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati». La soluzione, secondo Cameron, è riaffermare che la società britannica si è formata e ancora sussiste intorno a certi valori chiave come la libertà di parola, l'uguaglianza dei diritti e il primato della legge. «Francamente è venuta l'ora di chiederci: questi gruppi credono nei diritti umani universali, inclusi i diritti delle donne e quelli di persone di altre fedi?», si è domandato Cameron. «Credono nell'eguaglianza di tutti davanti alla legge? Credono nella democrazia?» Adesso è chiaro anche per me: la democrazia è meglio del multiculturalismo per prevenire e combattere il fondamentalismo islamico.
Ovviamente, la democrazia di cui parlava Bush e quella di cui parla Cameron sono diverse. Il primo era un born again, un evangelico. La sua democrazia doveva all'illuminismo meno di quello che doveva alla Riforma. La sua democrazia metteva al centro il portato implicito della «nazione cristiana»; la sua democrazia era una missione; e questo era tanto vero che la Chiesa Cattolica, che in Iraq manteneva una presenza importante e che conosce la storia del cristianesimo meglio dell'ex presidente, aveva invitato alla cautela. I cristiani sono in Iraq dal I secolo. Risultato: la popolazione cristiana in Iraq è diminuita negli ultimi dieci anni. La democrazia a cui pensa Cameron è probabilmente più illuminista. Ma il punto sembra lo stesso in entrambi: contro il relativismo dei valori, il primato di certi valori. In entrambi i casi, il problema è lo stesso: l'islam. Il multiculturalismo è fallito perché non è riuscito a spegnere la fiammella del radicalismo islamico. Non protegge la società britannica (o americana, o tedesca) dal fondamentalismo religioso mussulmano. Cameron è stato chiaro su questo punto: occorre tornare ad un «liberalismo attivo, muscolare», perché «un Paese davvero liberale (...) crede in certi valori e li promuove attivamente». Il governo britannico ritiene che la risposta all'islam riposi in una riaffermazione di certi valori di base che inevitabilmente non possono che essere quelli nazionali: cioè britannici. Un'identità nazionale forte sembra anche la risposta del governo tedesco. Annette Schavan, ministro dell'istruzione tedesco, ha spiegato: «Intendiamo formare il maggior numero possibile di imam in Germania, perché siamo convinti che gli imam siano gli architetti dei ponti fra i fedeli della moschea e la città dove si trova la moschea stessa». Quindi, un islam nazionale.
In America si dice che se abbaia come un cane, è probabile che sia un cane. Se tre capi di stato cristiani - protestanti, e per la precisione Metodista (Bush), Luterano (Merkel) e Anglicano (Camerari) - ritengono l'islam una minaccia di tale gravità da spingerli a rimettere in discussione per-sino il patto sociale interreligioso degli ultimi decenni, dovremmo credere loro. O quanto meno dovremmo credere che qualcosa sta cambiando nelle narratizioni usate dai leader politici quando parlano di sicurezza contro il terrorismo. Avevamo pensato che l'estremismo fosse tale, appunto annidato agli estremi delle nostre società occidentali. E ora scopriamo che invece esso si nasconde proprio al suo centro, e che nostra è la colpa, perché non siamo stati abbastanza prudenti, perché siamo stati troppo tolleranti. Perché siamo stati troppo poco americani, tedeschi, inglesi.
ISOLA DI G0REE- DAKAR
UNA CARTA PER UN MONDO SENZA MURI
Alex Zanotelli
Oggi sono stato testimone di un evento che assume un significato simbolico molto forte: il World migranti forum. Si tratta di un incontro di migranti, soprattutto africani, riuniti in assemblea per elaborare una Carta mondiale per i loro diritti, partendo dallo slogan: «Una carta per un mondo senza muri». Provocatoriamente hanno indetto questa loro assemblea (2-3-4 febbraio) nell'isola di Gorée, a Dakar, da dove sono partiti milioni di schiavi per le Americhe, in quella vergognosa tratta Atlantica. Con un gruppo di comboniani e comboniane abbiamo assistito al dibattito di questi immigrati, iniziato nel 2006 dai sans papìers di Marsiglia, continuato in questi anni nei vari continenti, per concludersi a Gorée, con l'approvazione della Carta mondiale dei migranti. Carta che verrà poi presentata al Forum sociale mondiale (Dakar 6-11 febbraio).
È la prima volta che visito quest'isola (patrimonio dell'umanità), che ha visto gli orrori, durati tre secoli, che hanno portato decine di milioni di schiavi oltreoceano. Sono rimasto profondamente scioccato da questo luogo che parla, un vero luogo teologico che interpella tutta l'umanità. Soprattutto l'Occidente. Gorée è l'Auschwitz dell'Africa, una delle tragedie più immen¬se del popolo nero. E sono rimasto molto turbato del clima festaiolo e turistico che ho visto. Un luogo sacro come Gorée richiede silenzio, riflessione e contegno. Noi bianchi dovremmo andarci semplicemente per chiedere perdono. Come comboniani ci ritorneremo nei prossimi giorni proprio con questi sentimenti: con la richiesta di perdono per il crimine che abbiamo commesso contro il popolo nero. Chi oggi, invece, incarna per me lo spirito di Gorée è quel centinaio di migranti africani riuniti che riprendono la parola per chiedere con forza la tutela dei loro diritti.
«I migranti sono presi di mira da politiche ingiuste», afferma il preambolo della Carta. «Queste a scapito dei diritti universalmente riconosciuti a ogni essere umano. Queste politiche sono imposte da sistemi che cercano di mantenere i privilegi dei pochi, sfruttando la forza lavoro dei migranti». Ripenso alla drammatica situazione degli immigrati in Italia, usati come manodopera a basso prezzo, e, quando non servono più, rispediti al mittente, come impone la legge Bossi-Fini. Ripenso al razzismo del Decreto sicurezza del ministro Maroni, che impedisce a un'immigrata che partorisce in ospedale di riconoscere il proprio figlio. Siamo arrivati a un razzismo di Stato. Ripenso ai respingimenti nel Mediterraneo, con la tragica conseguenza di migliaia di morti nel deserto. È Gorée che si ripete. Ma non solo in Italia. «Se i nostri immigrati soffrono indicibilmente in Europa», grida Diouf durante il dibattito, «soffrono anche quando sono costretti a emigrare in altri paesi d'Africa e diventa una catastrofe quando sono obbligati a migrare nei paesi nord africani». È incredibile che questo avvenga proprio agli africani, che, come diceva uno dei partecipanti al Forum, «sono stati in questi ultimi 500 anni deportati come schiavi, colonizzati e schiacciati dall'imperialismo».
In questo dibattito ho sentito un'Africa con una voglia matta di rimettersi in piedi, riprendendo in mano la sua storia.Un buon auspicio per il Forum sociale mondiale, che per la seconda volta si tiene in Africa.