Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

2 agosto 2010

Mense scolastiche, l'addio ai menu etnici
Linee guida del ministero: spuntini e acqua dal rubinetto. E mai doppie porzioni. Gli strumenti per servire i pranzi dovranno essere distinti in base all'età del bambino
Margherita De Bac
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02 agosto 2010
ROMA - Mai doppia, sempre proporzionata all'età del commensale, servita con utensili adatti. È la porzione al centro delle linee di indirizzo per la ristorazione a scuola appena licenziate dal ministero della Salute dopo un passaggio in conferenza Stato-Regioni. Una novità. Non esisteva infatti un documento unico che riunisse centinaia di provvedimenti locali. Sulla quantità di ciò che viene proposto-imposto per pranzo a bambini di asili, elementari e medie insistono molto i tecnici della commissione nominata per elaborare le indicazioni su come organizzare il servizio mensa e articolare i capitolati d'appalto. Obiettivo, la prevenzione di obesità e sovrappeso che colpiscono il 33% degli scolari tra gli 8 e i 12 anni. E anche della malnutrizione, problema diffuso tra i giovani extracomunitari e determinato anche dal legame con le proprie abitudini alimentari difeso dalla famiglia. Per questo motivo le linee guida non prevedono esplicitamente menu particolari per gli stranieri. La scuola viene considerata come «ambiente ideale per realizzare l'integrazione. L'alimentazione rappresenta un terreno su cui approfondire tali politiche. La promozione del dialogo significa non limitarsi a misure compensatorie quali le diete speciali».

Margherita Caroli, pediatra alla Asl di Brindisi, è una degli esperti della commissione: «Non affermiamo che un bambino di origine marocchina debba mangiare italiano ma sarebbe sbagliato lasciargli fare come a casa. Inoltre anche ai nostri figli farà bene scoprire sapori diversi. Lo scambio deve essere reciproco». Dunque, no alle diete etniche. Sì invece, tanto per esemplificare, al cous cous per tutti, italiani e maghrebini, una volta al mese. Fermo restando il rispetto delle restrizioni religiose, come il divieto di consumo di carne di maiale osservato dai musulmani. Per quanto riguarda la porzione «si dovrà impedire a chi gestisce la mensa di somministrarne una seconda, soprattutto del primo piatto per evitare un apporto eccessivo di calorie». Mestoli, palette e schiumarole devono possedere la «capacità appropriata a garantire la porzione giusta con una sola presa».

Andrebbero adoperati strumenti distinti in base all'età del bambino in modo che non vengano scodellati a un alunno di 7 anni tanti maccheroni quanti se ne darebbero a un dodicenne. Attenzione all'idratazione. In genere durante l'ora di lezione i ragazzini non bevono mentre invece «è importante che abbiano disponibilità di acqua per tutta la giornata, preferibilmente di rubinetto». Grande rilievo viene attribuito allo spuntino di metà mattina (frutta di stagione o yogurt o succhi di frutta senza zucchero aggiunto). No ai distributori di snack alle elementari mentre alle medie sono consentiti purché non contengano merendine. In caso di gita, i cestini da viaggio andranno confezionati nella stessa giornata. La buona ristorazione comincia dai capitolati d'appalto. Alle ditte che non rispettano il contratto in tutti i suoi punti (modalità di trasporto, qualità alimenti, igieni, personale, gestione degli avanzi) dovrebbero essere inflitte multe severe.


Parma, l'isola felice degli immigrati
La Stampa 2 agosto 2010
Francesca Paci
Ci abbiamo messo più tempo a gustare il Parmigiano che a capire come si facesse» ammette Sendi davanti a una punta di formaggio fresco, quello stagionato è ancora troppo forte per il palato abituato al «panir», la ricotta indiana. Papà Singh Nirmal si è appena congedato dalle 200 vacche dell’azienda Vecchi, una ventina di chilometri da Parma.

Quando lasciò il Punjab, nel 1999, Nirmal sapeva a malapena mungere il latte per la famiglia: oggi, insieme a qualche centinaio di sikh, custodisce l’antica tradizione casara locale. Per raccontarsi in italiano ha bisogno della figlia venticinquenne Sandi, leggins e brillantino al naso, ma senza questo allevatore con la maglietta arrotolata in testa a mo’ di turbante l’eccellenza gastronomica Made in Italy sarebbe un glorioso ricordo.

Secondo il VII rapporto sull’integrazione del Cnel Parma è la Mecca italiana degli immigrati. Centrafricani, maghrebini, albanesi, romeni sono manodopera preziosa qui, dove di questi tempi il lavoro scarseggia meno che altrove: guadagnano bene, vivono con la famiglia, si mescolano confondendosi più facilmente nonostante siano ormai quasi il 13 per cento della popolazione.

«Prima di arrivare a Parma, nel 2000, raccoglievo i pomodori a Foggia e le arance a Rosarno, condizioni di schiavismo identiche a quelle che avete visto a gennaio in tv» racconta Cleofas Dioma, 38 anni, educatore al centro per adolescenti Samarcanda. Per capire il percorso di questo metro e novanta di burkinabé in sandali e pantaloni alla turca che parla come Gene Gnocchi e apprezza Fini, bisogna osservarlo mangiare gli spaghetti nel dehors del wine bar Dolcevita mentre si interrompe ogni cinque minuti per salutare un amico italiano. A casa, a Ouagadougou, lo considerano un bianco perché alla sua età non è sposato. Qui nessuno dimentica che è nero ma l’abitudine ha vinto sulla diffidenza: «Mia mamma diceva che se i tuoi ospiti camminano sulle mani devi adeguarti. In Italia l’ho fatto ma ho imparato a 26 anni e c’è sempre qualcuno che nota quanto sia ancora impreciso». E pazienza se legge Saviano come da ragazzo africano leggeva Camus, l’integrazione è un processo dialettico che assorbe le similitudini anche sottolineando le differenze.

Un passo avanti e due indietro, modello globale, Parma ha staccato il resto d’Italia. Merito di quel terreno fertile che fece fiorire l’innesto tra Peppone e Don Camillo? «La città beneficia della situazione economica favorevole all’occupazione straniera, come il Nord-Est, ma ci aggiunge la tradizione cooperativista e sindacale che la vaccina dalle tentazioni leghiste» osserva il sociologo Giorgio Triani. La prova? Basta fare un giro in piazza Inzani, quartiere Oltretorrente, la kasba dove fino a due anni fa gli abitanti che oggi - dopo il recupero del Comune - conversano amabilmente sotto gli alberi non si fermavano neppure per un piatto di tortellini al ristorante Aldo. Certo, la settantunenne Bianca Castani confessa che a un certo punto chiese al Comune di togliere le panchine perché «gli stranieri» non ci dormissero sopra. Ma ora si sente a suo agio anche circondata dall’Africa Market, il Kebab Duzgun, la frutteria Singh e la scuola elementare Cocconi, con il suo 65% di bambini non italiani: «Non siamo mica razzisti, se gli extracomunitari rispettano le regole, sono puliti, lavorano onestamente, sono benvenuti».

L’amministrazione si fregia del primato nazionale, ma il termometro è l’umore dei cittadini. «Il segreto è tenere insieme il Dna cittadino tagliato sull’accoglienza e un approccio politico non ideologico» spiega il sindaco Pietro Vignali, eletto con una lista civica che comprende Pdl, Udc e una componente riformista del Pd. Discontinuità postmoderna nella continuità, più d’un cerino nelle profonde viscere del Belpaese messo all’indice sulle prime pagine dei giornali internazionali dopo la guerriglia di Rosarno.

Perché la notte, quando cala, è buia. Anche nella tollerante Parma che menziona a bassa voce il nome di Emmanuel Bonsu, lo studente ghanese scambiato per un pusher e picchiato a sangue dai vigili a settembre di due anni fa. Molti si consolano all’idea che qui quell’episodio, forse non unico nell’Italia 2010, sia venuto alla luce, prova d’un ambiente non ostile che incoraggia i deboli alla denuncia. Altri, come il parroco di Santa Cristina don Luciano Scaccaglia, mettono in guardia dal make-up multiculturale sotto cui si cela, nella migliore delle ipotesi, il fardello dell’uomo bianco.

«Come si può definire accogliente una città che una notte del 2006 mise per strada trenta immigrati che occupavano una casa vuota? Dal momento che la mia risposta fu permettere loro di occupare la chiesa, i miei parrocchiani meno aperti hanno cominciato a disertare la messa» racconta don Luciano, polo a righe e chinos, nell’ufficio tappezzato di foto del Che Guevara. Sulla scrivania il libro del teologo dissidente Hans Küng, «Ciò che credo»: «Parma è ricca, ovvio che gli stranieri qualificati s’integrino, ma gli altri? C’è un 1,5% che non ce la fa e cede alla droga, all’alcol». Qualche ora dopo, sotto i portici rinascimentali della Pilotta, il diciannovenne marocchino Mustafà si stringe nella coperta regalata da don Luciano insieme ai 2 euro che gli passa ogni domenica per un panino. L’integrazione è lontana come le stelle ma, dice, «io resto qui». Da qualche parte, lo sa, l’indiana Sendi ce l’ha fatta e oggi è organica alla città come il parmigiano prodotto dal suo papà.



Francia: immigrati, presto nuove norme
Stop nazionalita' criminali stranieri a settembre in Parlamento

31 luglio, 14:34
Francia: immigrati, presto nuove norme (ANSA) - PARIGI, 31 LUG - I provvedimenti per revocare la nazionalita' francese ad alcuni criminali stranieri potrebbero essere in Parlamento a settembre. Lo riferiscono fonti del ministero dell'Immigrazione, a proposito della richiesta fatta ieri dal presidente Sarkozy. Il ministro Besson ha presentato a marzo il progetto di legge relativo all'immigrazione, che prevede un irrigidimento delle condizioni d'accesso in Francia e la creazione di zone speciali in caso di sbarco massiccio di rifugiati.



Polizia carica immigrati, filmato finisce su internet

Durante lo sgombero di uno stabile in una banlieue parigina
Apcom 31 luglio 2010
Roma, 31 lug. (Apcom)- Da ieri circolano su internet le immagini di un violento sgombero di uno stabile occupato da immigrati in una banlieue di Parigi compiuto dalla polizia francese. Raccolte dall'associazione Droit au logement (Diritto alla casa, Dal) e rilanciate dalla Cnn e dal sito internet Mediapart, le immagini risalgono al 21 luglio nella banlieue della Corneuve, nella periferia nord di Parigi e rischiano di esacerbare le tensioni nelle banlieue francesi dopo i provvedimenti annunciati ieri dal presidente Nicolas Sarkozy contro i criminali di origine straniera e i clandestini. Nel filmato, che è già stato visionato 200mila volte, si vede una donna africana che tiene il suo bambino sulla schiena avvolto in un foulard, che viene presa per i piedi e trascinata per terra dagli agenti. Il bambino prima striscia per terra, poi cade e viene afferrato da un poliziotto. In un'altra sequenza si vede una donna a cui strappano il figlio dalle braccia. Secondo Michael Hoare, portavoce dell'associazione Droit au logement, intervistato dalla Cnn, il giorno dell'incidente la polizia aveva allontanato i giornalisti dalla zona, ma un attivista della Dal era riuscito a filmare la scena. Intervenendo a Grenoble, durante la presentazione del nuovo prefetto dell'Isere, Sarkozy ha proposto ieri, per la prima volta, di privare i criminali di origine straniera della cittadinanza e ribadito la linea dura contro i clandestini, "che devono essere rimandati alle frontiere".



Lady Gaga contro la legge sull’immigrazione in Arizona

Summer Trendz 2 agosto 2010
Lo scorso sabato 31 luglio, Lady Gaga ha fatto ancora parlare di sè con un messaggio scritto sul braccio durante il concerto di Phoenix (in Arizona). La frase “STOP SB 1070? si riferiva alla legge 1070, che in Arizona permette alla polizia di controllare lo “status” di immigrati di qualsiasi cittadino sospettato di vivere illegalmente negli Stati Uniti. Ecco quali sono state le parole di Gaga rivolte direttamente al pubblico del concerto: “Voi ed io dobbiamo essere attivi. Dobbiamo protestare. Non cancellerò il mio show: tutti insieme lotteremo contro tutto questo”.



«Così le islamiche sfidano l’estremismo»

Rolla Scolari
il Giornale 2 agosto 2010
Non occorre andare fino in Indonesia per trovare donne musulmane che sfidano le tradizioni. Succede anche in Italia, come spiega al Giornale Martino Pillitteri, coordinatore di Yalla Italia, inserto mensile del settimanale Vita Magazine e autore di Quando le musulmane preferiscono gli infedeli, (Mursia). Le figlie degli immigrati in Italia stanno rompendo molti tabù, gli stessi contro cui si è scontrato l’autore nei suoi due anni di vita al Cairo, raccontati in un libro che fotografa le difficoltà di una storia d’amore tra un cristiano e una musulmana. Lei è del Cairo, lui è di Milano. Si incontrano e si innamorano a New York. Lui fa le valigie e si ritrova catapultato da Manhattan alle polverose rive del Nilo, in vista di un matrimonio che prevede, nelle speranze della famiglia dell’amata, la sua conversione. Dopo la non facile full immersion nell’islam mediorientale, l’autore torna a Milano, dove incontra l’islam europeo, quello delle ragazze con il velo e l’accento lombardo: l’islam delle seconde generazioni.
Nell’Italia dell’immigrazione si parla molto di coppie miste. Amori impossibili?
«Molte giovani tunisine e marocchine mi contattano, raccontandomi le loro relazioni con italiani. Oggi, molte musulmane di seconda generazione non pretendono dai fidanzati la conversione, come vorrebbero i genitori. È un passo avanti: il Corano infatti non vieta i matrimoni misti».
Si va verso una generazione di donne islamiche più integrate?
«La massa critica di ragazze musulmane nate in Italia è in grande crescita, ma i fanatici ci sono e sono sempre più agguerriti».
Sei ottimista sul futuro dell’integrazione in Italia?
«In Egitto ero molto scettico sull’islam, vedevo una deriva integralista. Tornato qui, ho cambiato idea quando ho incontrato i figli e le figlie degli immigrati. Loro hanno rotto regole non scritte: l’uomo ha più importanza della donna; la prominenza del gruppo sul singolo; la legge degli anziani. Hanno infranto tabù. Credono nei matrimoni misti senza conversioni. Non è un islam etnico quello dell’immigrazione, ma vissuto nella sfera del personale».
Limitare la religione alla sfera del privato aiuta l’integrazione?
«La partita si gioca su come si comunica la religione nella sfera sociale. Questo è quello che ho visto al Cairo, dove gli imam hanno un copyright che tutti devono seguire. È un modo di dire: “Io faccio parte del vostro gruppo”. Ma qui, le seconde generazioni sono pronte a rischiare. È l’islam delle 2G contro l’islam delle 2C: le seconde generazioni contro gli imam commercialisti e commerciali. Molti imam, anche qui, sono diventati fiscalisti della fede. “Vuoi la salvezza eterna? Vestiti così e prega così”. Vendono il loro prodotto, ma le seconde generazioni non abboccano più».
E allora perché anche qui si diffonde il velo integrale?
«Veli, niqab, sono fenomeni passeggeri. L’islam ha la capacità di inserirsi nei vuoti economici, sociali, identitari, religiosi. È la sua forza».
Lavori con molte ragazze delle 2G. Cosa dicono del dibattito sul velo integrale?
«Le figlie di immigrati che conosco sono contro “i barbuti”, gli imam estremisti, come li chiamano loro, contro gli estremisti del velo integrale. Ma esiste uno zoccolo duro: giovani ricattate socialmente dai genitori, che vivono ancora in famiglia e per avere una vita tranquilla mantengono certe regole. Le 2G non sentono sulla loro pelle tutti i dibattiti che passano sui giornali, velo, poligamia eccetera. La loro preoccupazione è la cittadinanza. Il processo identitario si scontra con la burocrazia e subentra la frustrazione. Così si perde il processo di italianizzazione. Non è il velo a fare la differenza, è il non potere andare all’estero perché non hai il passaporto o non poter lavorare perché hai documenti in scadenza. Se l’islam fanatico si inserisce in tutti gli spazi vuoti, l’importante è creare un’alternativa e io credo nelle ragazze delle seconde generazioni. Occorre passare loro la palla».



Anziani usati per regolarizzazione immigrati

Tifeoweb   Lunedì 02 Agosto 2010
Mariangela Di Stefano
Il sistema era rodato ed efficiente. Avvicinavano un anziano o un disoccupato con la promessa di un bonus statale da 500 euro destinato a meno abbienti e si facevano firmare dei documenti che invece servivano  alla regolarizzazione di cittadini extracomunitari. La maggior parte delle vittime però non si fermava a leggere i fogli nei quali apponeva la propria firma e forse l’organizzazione criminale contava proprio su questo. Ma una donna, avvicinata mentre giocava in una sala bingo di Catania, dopo avere firmato, si è accorta che i documenti che aveva davanti servivano a tutt’altro e certamente non le avrebbero fatto ottenere nessun bonus. Così, dopo essere uscita dalla studio di un commercialista in odore di truffa, è andata dritta dalla Polizia Postale a presentare denuncia.

Le indagini coordinate dal Procuratore aggiunto Onofrio Lo Re e dal sostituto Antonella Barrera hanno portato alla denuncia, in stato di libertà, di cinque catanesi ritenuti responsabili, in concorso, di favoreggiamento all’immigrazione clandestina. Dalle perquisizione locali e informatiche sono emerse in un primo momento 131 pratiche di regolarizzazione a favore di immigrati con altrettanti datori di lavoro fittizzi.

Da un incrocio di tabulati telefonici e dati informatici si è scoperto che esisteva un vero e proprio sistema di reclutamento di falsi datori di lavoro che, dietro compenso, apponevano la propria firma a favore di chi voleva regolarizzare la propria posizione in Italia. Alla fine le pratiche scoperte sono state 150.




Una nuova politica della cittadinanza eviterà il dilagare della xenofobia

Corriere della Sera 2 agosto 2010
Maurizio Ferrera
Aseguito di una serie di scontri fra immigrati e polizia, Sarkozy ha annunciato qualche giorno fa una revisione in senso restrittivo delle norme che consentono di acquisire la nazionalità francese. Secondo il Presidente agli stranieri naturalizzati che attentano alla vita di un funzionario delle forze dell’ordine andrebbe addirittura revocata la cittadinanza. Quest’ultima dichiarazione ha suscitato un coro di proteste, anche nei commenti italiani. Occorre però considerare che la legge francese (come quella inglese) già contempla in certi casi la facoltà di revoca. Solo che tale facoltà non è di fatto mai esercitata. Nell’ultimo decennio la Francia si è anzi distinta per un approccio soft in tema di cittadinanza: più di un milione di nuove naturalizzazioni, quasi come la Germania, dieci volte più dell’Italia.
La questione della revoca è ovviamente molto delicata, sul piano etico-politico prima ancora che su quello giuridico. Essa deve essere tuttavia valutata all’interno di una cornice più ampia, capace di identificare le linee generali di una seria «politica della cittadinanza», adeguata al nuovo contesto europeo.
Tradizionalmente la naturalizzazione degli «stranieri» è stata collegata al cosiddetto ius sanguinis (presenza di genitori o antenati già «nazionali»: caso tipico la Germania) oppure allo ius soli (nascita nel territorio nazionale: caso tipico gli Stati Uniti). Sulla scia degli imponenti flussi migratori degli ultimi due decenni, questi criteri non tengono più. Che senso ha concedere la cittadinanza per «legami di sangue» a chi è nato e risiede all’estero e non ha magari nessun rapporto con la madre-patria? E perché negare la nazionalità (o farla sospirare per un tempo quasi infinito) a uno straniero che non è nato in loco ma si è bene integrato nel Paese di immigrazione? Una seria politica della cittadinanza va oggi imperniata su nuovi criteri: essenzialmente la residenza ( ius domicilii), accompagnata da una serie di «filtri» che attestino la disponibilità e la misura dell’integrazione (frequenza scolastica, lavoro regolare, conoscenza della lingua e così via). La naturalizzazione non deve essere più vista come un passaggio «puntuale», un salto di status irreversibile disciplinato da criteri molto generali e automatici. Va piuttosto vista come un processo graduale, accompagnato da incentivi premiali e corsie preferenziali, soprattutto per i minori.
Una seconda linea guida riguarda la stessa definizione di cittadinanza. Anche qui sembra opportuno superare la giustapposizione secca cittadino/straniero e prevedere forme intermedie di «quasi-cittadinanza». I diritti conferiti da queste forme potrebbero essere raccordati con i diritti del Paese di origine (soprattutto in campo previdenziale e sanitario), promuovendo così anche forme di «migrazione pendolare» (pensiamo a un medico indiano che voglia lavorare sei mesi l’anno in un ospedale europeo). I Paesi del Commonwealth hanno coniato il termine denizenship per le forme di quasi-cittadinanza. L’istituto della cittadinanza Ue può già essere considerato una forma di denizenship: si tratta infatti di uno status che conferisce ai nazionali di ciascun Paese membro alcuni diritti che possono essere esercitati entro tutto il territorio dell’Unione. Per ora la cittadinanza Ue è di «secondo ordine» rispetto a quella nazionale. Ma nulla impedisce (soprattutto dopo il Trattato di Lisbona) di utilizzarla come status alternativo o preparatorio alla cittadinanza nazionale per gli immigrati extra-comunitari che soddisfano certi requisiti.
All’interno di una cornice così articolata, anche la questione della revoca per chi commette reati, menzionata da Sarkozy, troverebbe una collocazione meno drammatica sul piano simbolico e più efficace sul piano pratico. La «buona condotta» potrebbe diventare uno dei più elementari filtri selettivi, rimanendo eventualmente operativo anche per un certo lasso di tempo dopo la piena naturalizzazione di uno straniero.
L’immigrazione è oggi uno dei temi politicamente più scottanti. Secondo i sondaggi in molti Paesi la maggioranza degli elettori si dichiara preoccupata e insicura. Nelle ultime elezioni europee i partiti xenofobi hanno ovunque guadagnato voti. C’è il rischio di una vera e propria spirale di polarizzazione ideologica, non solo da parte dei nazionali, ma anche da parte degli «stranieri» (come sta già avvenendo in Francia). Sappiamo che le economie e i welfare states europei non possono più fare a meno degli immigrati. E sappiamo anche che accanto a noi vivono tantissimi stranieri «regolari» (con un numero crescente di figli) che si sono perfettamente inseriti nella nostra società. L’integrazione è non solo possibile ma anche vantaggiosa per tutti. Una nuova politica della cittadinanza può far molto per facilitare ulteriormente questo processo e contenere i rischi di pericolose radicalizzazioni.





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