Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

23 aprile 2010

Siracusa Il viceministro Mantovano: continueremo a farlo
Immigrati respinti dall'Italia alla Libia I pm: è una violenza
Corriere della Sera, 23-04-2010
Virginia Piccolillo

A giudizio superpoliziotto e generale
il barcone Erano stati fermati 75 clandestini al largo di Portopalo, poi imbarcati su una nave della Finanza
ROMA — Violenza privata. Brucia l'accusa costata ieri il rinvio a giudizio a Rodolfo Ronconi, direttore centrale dell'immigrazione e della Polizia delle frontiere del Viminale e al generale della guardia di Finanza, Vincenzo Carrarini, capo del terzo reparto operazioni del comando generale. Per loro quel 30 e 31 agosto 2009 si era trattato di attuare l'accordo, voluto dal governo, sui respingimenti in mare dei clandestini. E proprio nel giorno della visita del premier Berlusconi a Tripoli, avevano ordinato di riconsegnare ai libici quei settantacinque clandestini, comprese donne e bambini, sorpresi a Portopalo di Capo Passero. Ordini «non manifestamente illegittimi» secondo la stessa procura della repubblica di Siracusa che, in considerazione di ciò, ha prosciolto i militari della finanza che li avevano eseguiti. Ordini rivendicati come legittimi ancora ieri non solo dal capo della polizia, Antonio Manganelli: «L'azione si è svolta nel pieno rispetto della normativa nazionale e delle convenzioni internazionali vigenti». Ma anche dallo stesso ministro dell'Interno Roberto
Maroni che in una telefonata di «stima e piena vicinanza» a Ronconi si è detto sicuro che l'accertamento giudiziario «dimostrerà che le azioni poste in essere sono state pienamente conformi alla legislazione nazionale e internazionale». È d'accordo il viceministro Alfredo Mantovano che ha bocciato come «sconcertante» il rinvio a giudizio che, ha rimarcato, «non farà in alcun modo recedere il ministero dell'Interno dalla piena applicazione dell'accordo fra Italia e Libia». Ma allora perché il rinvio a giudizio? E perché non è stato eccepito nulla sull'accordo? Secondo la Procura di Siracusa, che ha disposto il processo senza passare dal gip (come previsto per i reati di competenza del giudice monocratico), l'accordo bilaterale non c'entra. Ma i due imputati, «con abuso delle rispettive qualità di pubblici ufficiali» avrebbero tenuto una «condotta violenta» nel «ricondurre in territorio libico, contro la loro palese volontà, 75 stranieri, non identificati, alcuni sicuramente minorenni». Per il procuratore capo Ugo Rossi il reato sarebbe scattato al momento in cui i naufraghi vennero fatti salire a bordo della nave «Denaro». L'imbarcazione era territorio italiano. E quei clandestini, potenziali rifugiati, sarebbero stati trattati, secondo i pm, «in aperto contrasto con le norme di diritto interno e di diritto internazionale». Tanto da «impedire loro l'accesso effettivo alle procedure di tutela dei rifugiati e di avvalersi dei diritti loro riconosciuti in materia di immigrazione
L'operazione fu una delle nove che nel 2009 hanno riportato in Libia 834 immigrati. Alle spalle si lasciò una scia di polemiche. La portavoce dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati, Laura Boldrini, denunciò: «Sono stati respinti uomini, donne e bambini somali che hanno chiesto di poter fare domanda di asilo, implorando di non essere rimandati in Libia. Ma nono-stante fossero a bordo di una motovedetta italiana gli è stato negato un diritto riconosciuto dalle convenzioni internazionali». Berlusconi a Tripoli disse: «Serve rigore». A pagarla potrebbero essere Ronconi e il generale Carrarini.









"Violenza privata": non dovevano portarli in Libia

LA PROCURA DI SIRACUSA CHIEDE IL RINVIO A GIUDIZIO PER DUE ALTI FUNZIONARI CHE RESPINSERO UN BARCONE DI IMMIGRATI
il Fatto Quotidiano, 23-04-2010
di Giampiero Calapà

Hanno "rispedito" in Libia un gruppo di migranti quasi arrivati sulle sponde della punta sud orientale della Sicilia, dopo una navigazione di fortuna, stretti come sardine su un grande gommone; ora due alti funzionari dello Stato saranno giudicati in tribunale per l'accusa di "violenza privata". Un gommone traballante e in balia delle acque con 75 migranti a bordo, tra cui molti bambini, intercettato da motovedette della Guardia di finanza al largo di Portopalo di Capo Passero. É la notte tra il 30 e il 31 agosto 2009, sembra una delle tante operazioni di salvataggio quando i finanzieri fanno salire i naufraghi sulla nave Denaro. Ma non è così, quella data segna un punto di svolta, perché la Denaro farà rotta verso la Libia, dove i migranti, bambini compresi, saranno affidati alla polizia di Gheddafi. Una pagina buia per la storia d'Italia, frutto di un trattato con la Libia voluto dall'asse Berlusconi-D'Alema e votato pochi mesi prima da quasi tutti in Parlamento: 413 sì, 36 astenuti e solo 63 no tra cui i deputati radicali del gruppo Pd e Furio Colombo.
Ieri un'altra svolta, però, perché la procura di Siracusa, che aprì un'inchiesta nei giorni successivi alla deportazione via mare in Libia, manda ora a giudizio, con l'accusa di "violenza privata ", due alti funzionari statali: Rodolfo Ronconi, direttore della polizia delle frontiere del ministero dell'Interno e il generale Vincenzo Carrarini capo ufficio economia e sicurezza del comando generale della Guardia di finanza. Proprio a sottolineare la responsabilità politica di quell'ordine    che arrivò da Roma, la procura di Siracusa ha chiesto e ottenuto dal gip il proscioglimento dei finanzieri che intervennero    sul posto "in considerazione   del  fatto che avevano operato per ordini superiori non manifestamente illegittimi". Insomma, i militari non potevano capire in quel momento, secondo la procura, l'illegittimità di quell'azione, per loro semplicemente un ordine da eseguire. Perché non è il "respingimento in sé" il problema, ma la mancata applicazione della legge italiana sul territorio nazionale. Infatti la citazione a giudizio dei due alti funzionari - senza passare in questo caso dalla decisione del gip come prassi giuridica in caso di reati valutati dal giudice monocratico - richiama a una "condotta violenta" per "ricondurre in territorio libico, contro la loro palese volontà, 75 stranieri, non identificati, alcuni sicuramente minorenni, intercettati in acque internazionali". Il reato, secondo la procura, scatta proprio nel mo¬mento in cui i migranti vengono "fatti salire a bordo della nave della guardia di finanza Denaro e dunque su territorio italiano" : una volta saliti su quell'imbarcazione è come se i 75 camminassero su suolo italiano e costringerli al ritorno verso la Libia, da cui il gommone era partito, è "in aperto  contrasto con le norme di diritto interno e di diritto internazionale recepite nel nostro ordinamento ". La procura per sgombrare equivoci specifica   anche   che "l'imputazione non concerne direttamente la cosiddetta politica dei respingimenti e in particolare non attiene alla legittimità in sé degli accordi sottoscritti tra Italia e Libia" , ma comunque si tratta di ordini che, una volta eseguiti, diventano "violenza privata, poiché non eseguiti nel rispetto della normativa italiana, conforme tra l'altro agli accordi internazionali".
La notizia è "importante e positiva" per la Cgil, impegnata in quelle zone della Sicilia sud orientale ogni giorno con problemi relativi all'immigrazione DISI proprio in queste ore una tendopoli allestita nei pressi di Cassibile è già satura per l'arrivo di oltre 140 immigrati, con regolare permesso di soggiorno, che saranno impiegati nei campi per la raccolta delle patate da qui a giugno.
"Monitoriamo quotidianamente - afferma Paolo Zappulla, segretario generale della Camera del lavoro di Siracusa - quanto avviene e registriamo che l'inasprimento della normativa italiana sull'immigrazione generato dalla Bossi-Fini ha provocato solo danni e nuove tensioni, bisogna lavorare alla modifica di quella legge. Questa citazione a giudizio, invece, è sicuramente un punto a favore dei diritti umani".










L'INCHIESTA SUI RESPINGIMENTI
Salvarono i clandestini, ma andranno alla sbarra

il Giornale, 23-04-2010
Stefano Zurlo

Il prefetto di Siracusa e un generale della Guardia di Finanza raccolsero 75 africani in mare e li riaccompagnarono in Libia Ora sono accusati di violenza privata per non aver chiesto a ognuno se fosse rifugiato. Mantovano: «Intimidazione al governo»

A processo. Per violenza privata. Violenza nei confronti di settantacinque clandestini che erano stati salvati in mezzo al mar Mediterraneo, caricati su una nave della Guardia di finanza e riaccompagnati al punto di partenza, in Libia. Un'operazione condotta in esecuzione della legge e dell'accordo stipulato fra Roma e Tripoli. La norma parla di riconsegne e respingimenti, a seconda delle modalità, ma la procura di Siracusa utilizza un altro linguaggio, quello del codice penale. E spedisce a dibattimento, senza dover passare dal gip, il prefetto Rodolfo Ronconi, direttore della Direzione centrale dell'immigrazione e della polizia delle frontiere, e il generale delle Fiamme gialle Vincenzo Carrarini. I due rischiano sulla carta quattro anni di carcere e anche più.
È un'inchiesta davvero surreale quella che arriva dalla Sicilia. Un'indagine anticipata dal Giornale l'8 dicembre scorso. La procura di Siracusa aveva iscritto nel registro degli indagati i componenti dell'equipaggio di un pattugliatore delle Fiamme gialle, il «Denaro», che alla fine di agosto 2009 aveva intercettato al largo di Portopalo, in acque internazionali, il barcone stracarico di migranti, come li chiama la magistratura di Siracusa con un vocabolario da Caritas. I settantacinque clandestini erano stati salvati e poi affidati alle motovedette libiche che li avevano riportati a Tripoli, come previsto dalla normativa. Ma in questo modo, secondo il procuratore Ugo Rossi, fu impedito in linea teorica agli extracomunitari di far valere i propri diritti e di ottenere lo status di rifugiati politici. Ora l'inchiesta è finita: i militari se la sono cavata e per loro la pratica finisce in archivio. In sostanza, agirono «in esecuzione di ordini superiori non manifestamente illegittimi». Per i pm questa giustificazione non tiene invece per i vertici della catena di comando, il prefetto e il generale. Non erano, ovviamente, a bordo del «Denaro» ma sono i responsabili ultimi della politica attuata dalle nostre unità militari. E dunque dovranno rispondere di violenza privata. Rossi spiega anche puntigliosamente le motivazioni del provvedimento: «L'imputazione non concerne direttamente la cosiddetta politica dei respingimenti e in particolare non attiene alla legittimità in sé degli accordi sottoscritti fra Italia e Libia». Ci mancherebbe. E allora? «Nel caso specifico - prosegue Rossi - si ritiene che il rinvio sia avvenuto senza assicurare il rispetto di diritti riconosciuti agli stranieri che, pur clandestinamente, cercano di raggiungere l'Italia e sono soggetti a tutte le leggi italiane dal momento in cui sono saliti a bordo di una unità navale militare italiana in acque internazionali, equiparata a tutti gli effetti al suolo italiano». A quanto sembra, dalle carte dell'inchiesta, nessuno dei settantacinque sollevò il problema, nessuno invocò lo status di rifugiato, nessuno disse nulla, ma al procuratore non basta. «C'è l'assoluta convinzione - rimarca oggi il capo della polizia Antonio Manganelli - che l'azione si sia svolta nel pieno rispetto della normativa nazionale e delle convenzioni internazionali vigenti in materia». Ma Rossi, che ad ottobre aveva definito «un fatto gravissimo» le parole dette da Berlusconi contro i giudici a Ballar, la pensa in tutt'altro modo: anche se ci si trova in acque internazionali occorre distinguere e dividere i potenziali rifugiati dai clandestini a tutti gli effetti. I primi, individuati non si sa bene come in mezzo agli altri, resteranno in Italia, i secondi verranno rispediti da dove sono venuti. Che cosa avrebbero dovuto fare i militari del pattugliatore? Chiedere a ciascuno: «Lei è forse è un rifugiato?». Non solo. A leggere attentamente il ragionamento di Rossi si ricava che è stato proprio il gesto di umanità, l'aver accolto i clandestini a bordo di una nave italiana, ad aver fatto scattare il reato. Se i finanzieri li avessero abbandonati al loro destino l'illecito non sarebbe stato consumato? «Questa è un'intimidazione bella e buona al governo italiano e alla sua politica - spiega al Giornale il sottosegretario all'Interno Alfredo Mantovano - e del resto a settembre, in un convegno tenuto a Lampedusa, Magistratura democratica e il Movimento per la giustizia hanno definito operazioni illegali i respingimenti. Ma noi non ci lasceremo condizionare».








La cultura del sospetto

l'Unità, 23-04-2010
Luigi Manconi

Monsignor Rino Fisichella, rettore della Pontificia Università Lateranense e “cappellano di Montecitorio”, il vescovo più chic che vi sia, a proposito dell’ostia consacrata ricevuta da Silvio Berlusconi nel corso dei funerali di Raimondo Vianello ha dichiarato: “I divorziati che si sono risposati una seconda volta civilmente non possono accostarsi alla comunione.  Ma con la separazione dalla seconda moglie Berlusconi è tornato ad una situazione, diciamo così, ex ante” (Il Messaggero 21 aprile). Poi dice che uno si butta nell’Islam. 
***
Due giorni fa, nel corso di Fahrenheit, la splendida trasmissione ideata da Marino Sinibaldi per Radio 3, il conduttore Felice Cimatti ha intervistato il portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Laura Boldrini, sul suo bel libro Tutti Indietro (Rizzoli 2010). Poi, ha letto l’sms di un’ascoltatrice, Adriana: “Cosa ne farà la signora Boldrini dei diritti d’autore cospicui grazie a questa pubblicità? Tutti agli immigrati?”. La risposta di Cimatti: “Leggo dal libro: i proventi verranno interamente destinati a borse di studio per ragazzi afghani”. L’episodio è assai significativo: dalle parole di Adriana emerge una certa diffusa sordidezza che – avendo fatto del denaro la misura dell’universo mondo – non riesce a sottrarsi alla tentazione di vedere, dietro ogni atto, solo ed esclusivamente una speculazione. E, infatti, quei termini acidi (“signora”, “cospicui”, “pubblicità”) sono stati tutti “pensati” con stizza. Dico questo non perché quell’intento di speculazione sia cosa rara, ma perché è proprio il sospetto di una sua onnipresenza e onnipervasività a lasciare l’amaro in bocca. Quasi che non vi fossero, oltre l’avidità economica, altre possibili motivazioni dell’agire umano, sia nobili che ignobili che neutre (chessò? La gratificazione morale o l’ansia di potere, la filantropia o il narcisismo). E questa voglia di “sporcizia a ogni costo” sembra tanto più incalzante quanto più ci si trova a confronto con gesti incomprensibili secondo gli standard valoriali correnti. Ciò che più mi preme affermare è che possono esservi, e determinare i comportamenti individuali e collettivi, ragioni e pulsioni diverse – non necessariamente più apprezzabili in sé - da quelle del privato interesse. Il che va sottolineato in un tempo, quale il nostro, connotato dal cattivismo al potere. Ovvero da un crescente compiacimento nell’esercizio di una aggressività sociale che sembra ispirarsi al pragmatismo e, dunque, a una sorta di ribaltamento di stereotipi che avrebbero dominato la mentalità condivisa, ispirati al buonismo e al solidarismo, all’indulgenza e al lassismo.  Tutto ciò si trova rispecchiato nella vicenda dei pasti rifiutati ai “bambini morosi”. Nelle reazione dei familiari che, invece, pagano le rette intervengono anche sentimenti comprensibili: l’idea che qualcun altro “faccia il furbo” (giusta preoccupazione, diventata ormai una sorta di paranoia nazionale e incubo collettivo); e l’idea che, se qualcuno “fa il furbo”, chi non lo fa ne subisce comunque le conseguenze. Si tratta di idee che hanno una solida base di realtà, ma è il loro carattere totalizzante che preoccupa. Si capisce che un genitore che paga (magari faticosamente) la propria quota tema che chi non lo fa sia un profittatore, ma è sconfortante che non si trovi spazio di attenzione per chi, quella retta, non è proprio in grado di pagarla. Non è in gioco la solidarietà, ma ne più ne meno che il legame sociale. È in questo contesto che l’atto dell’imprenditore, che ha saldato il deficit della mensa di Adro, ha registrato più critiche che apprezzamenti. Volendo, ma volendo proprio, si può dare un’interpretazione non pessimistica di tutto ciò: misure particolarmente severe (o addirittura efferate) e provvedimenti suscettibili di creare discriminazione e selezione etnica e di classe vengono presentate come se venissero adottate “per il loro bene”: ossia per il bene dei destinatari-bersagli (vale anche per la mensa di Adro: non far pagare i pasti sarebbe “diseducativo”). Insomma, è come se la severità – lungo una modulazione che arriva fino alla cattiveria – si vergognasse di sé stessa e, invece di dichiararsi come tale, si fingesse il suo opposto. E quella stessa cattiveria si mostra così insicura delle proprie presunte buone ragioni, che si trova costretta a contaminare anche chi voglia comportarsi diversamente. Se la mia ostilità verso gli immigrati mi lascia inquieto, trovo insopportabile che altri non condividano la mia stessa inquietudine. E quel sentimento può farsi persino livore: perché non posso permettermi il lusso di essere Laura Boldrini?








Risponde Sergio Romano
LA XENOFOBIA IN EUROPA     COME CONTRASTARLA

Corriere dellla Sera, 23-04-2010

«Venire in Gran Bretagna è un privilegio, non un diritto»: è il messaggio di Gordon Brown ver le elezioni politiche del 6 maggio. Poiché l'impostazione sembra destinata a divenire il cavallo di battaglia del partito laburista, c'è di che ragionare su come si sta evolvendo il tanto sbandierato spirito di accoglienza del nostro continente. Sfiduciati dalla crisi economica, sconfortati dal comportamento di coloro che dovrebbero essere invece grati a chi li accoglie magari imparandone la lingua, molti europei stanno iniziando a soffrire della «sindrome del colonizzato». Pur con le contestualizzazioni e i distinguo possibili, è questo lo stato d'animo che ha caratterizzato molte delle ultime elezioni, sia nazionali che locali. Ed è da qui che, dall'Olanda alla Francia, dall'Italia all'Ungheria, sono stati i partiti «xenofobi» a mietere i maggiori consensi. Ma davvero è così criticabile questa paura? Oppure è necessario constatare come un malinteso spirito d'accoglienza per gli immigrati abbia nel tempo creato solo danni e timori? Mario Taliani, Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

Caro Taliani,
Non credo che i laburisti abbiano sostanzialmente modificato la loro linea politica. Ma le parole di Gordon Brown rispondono evidentemen¬te al desiderio di non perdere quella parte dell'elettorato progressista che vede nell'immigrazione soprattutto quando proviene dai Paesi musulmani, una minaccia alla sicurezza del Paese. Il primo a lanciare l'allarme fu un conservatore, Enoch Powell, noto come grecista e valoroso combattente durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1968, in un discorso che entusiasmò gli scaricatori del porto di Londra (elettori tradizionalmente laburisti), Powell dichiarò che l'immigrazione  asiatica e africana rappresentava una minaccia all'identità britannica. Le parole di Powell furono disapprovate dal suo partito e non impedirono che tutti i governi britannici degli ultimi quarant'anni, pur con qualche occasionale giro di vite, praticassero una politica di apertura e accoglienza.
Oggi la situazione è apparentemente peggiorata. In quasi tutti i Paesi europei esiste un «partito dell'insicurezza» composto probabilmente, anche a giudicare dalle ultime elezioni ungheresi, di una percentuale dell'elettorato che si aggira intorno al 20%. Strappare quell'elettorato all'estrema destra è divenuta la maggiore preoccupazione degli altri partiti, soprattutto in elezioni dall'esito incerto e contestato. Quando si candidò alla presidenza della Repubblica nel 2007, Nicola Sarkozy cercò di togliere voti al Fronte Nazionale di Jean-Marie Le Pen promettendo che avrebbe difeso l'identità francese; e ha mantenuto la promessa creando dopo la sua elezione un fumoso «ministero dell'Identità».
In Germania la Cdu di Angela Merkel dorme sonni più tranquilli perché i partiti nazionalisti e xenofobi puzzano di nazismo e sono generalmente screditati. Ma anche nella Repubblica federale si è aperto un dibattito sulla necessità d'imporre agli immigrati i valori della Leit-Kultur, della cultura dominante.
Il caso dell'Italia è particolarmente interessante. Da noi il partito che miete voti nei gruppi sociali più insicuri della società italiana è la Lega. Ma il partito di Umberto Bossi è forte soprattutto al Nord, vale a dire in regioni che hanno verso l'immigrazione un atteggiamento contradditorio. La percepiscono come fattore d'insicurezza, ma ne hanno bisogno per le loro fabbriche e le loro aziende agricole. Accade così che la Lega promuova leggi più rigo-rose per ostacolare [l'immigrazione ma sia anche disposta a legalizzare i clandestini: 700.000 all'epoca della Legge Bossi-Fini durante il secondo governo Berlusconi, 250.000 badanti dopo l'arrivo del leghista Roberto Maroni al ministero degli Interni.









Immigrazione. Le polemiche in Europa
Sul burqa niente veli (d'ipocrisia)
il Sole, 23-04-2010
di Karima Moual

In Belgio (crisi di governo a parte) Francia e a seguire in Italia, pare che i problemi dell'immigrazione siano il burqa indossato da qualche risicata minoranza di donne musulmane (in Francia se ne contano circa 1.900). Le proposte di legge che prevedono il divieto d'indossare il velo integrale in pubblico, se approvate, rappresenterebbero senz'altro un evento storico in sé, sulla nuova percezione europea della libertà individuale.
Come ho già dichiarato in un'altra occasione, per me una donna col burqa è una donna che non esiste. Se è Dio che l'ha creata, è assurdo che voglia annullarla. Non vederne il volto è come annullarne l'esistenza.
È senza alcuna ombra di dubbio che il burqa e il niqab siano simboli di sottomissione, a un uomo o a un Dio, che siano volontarie o meno, che possiamo condividere o non. Ma quante sono queste donne che portano il niqab e burqa? Non c'è già una legge chiara in materia, che chiarisce bene come il volto delle persone deve essere riconoscibile in luogo pubblico? Sì. E allora di cosa stiamo discutendo? Del nulla.
Ennesimo falso problema messo sul tavolo, per non prendere coraggio e affrontare i problemi veri dell'immigrazione  in Europa che attendono ancora risposte. Ecco perché credo che in realtà questo dibattito sul burqa non sia altro che un burqa per coprire e non affrontare i veri problemi sull'immigrazione. E questo è il primo punto. Il burqa così come il niqab in realtà invade ormai da anni il nostro immaginario, non perché lo abbiamo incontrato personalmente, indossato dalla nostra vicina di casa piuttosto che da una sconosciuta, ma perché è l'immagine-simbolo, che i media "orientalizzanti" più volentieri scelgono come sfondo a un reportage sui temi riguardanti l'Islam piuttosto che la foto in prima pagina sui giornali, da riporto, sempre all'articolo in tema Islam.    .
Perché? Mediaticamente è forte, fa scena, incuriosisce e soprattutto ricostruisce ancora una volta l'immagine prefabbricata nella mente del telespettatore occidentale, del musulmano patriarca. Non a caso, nei manifesti per il referendum contro i minareti in Svizzera, era più la figura della donna con il niqab nero che i minareti a essere messa in rilievo. Quelle immagini forti, ci ricordano i talebani, la guerra, il terrorismo. È efficace, fa paura, e si è visto com'è andato il referendum. Una vittoria clamorosa.
Vietare però con una legge alle donne che portano il burqa d'indossarlo e rendere la vita impossibile a quelle che por-tano il solo velo islamico, è facile. Ma è poco ambizioso, poco coraggioso e soprattutto illiberale.
Bisogna essere per le scelte delle donne. Che partano dalle donne. Così come bisogna credere nell'intelligenza delle donne e dare loro gli strumenti quali la cultura e il tempo per capire, interpretare e scegliere loro stesse cosa è giusto 0 meno per loro. Solo attraverso un'investimento nella cultura e nella conoscenza possono essere libere e consapevoli delle loro scelte. Cos'è religioso, culturale e identitario per loro. Cosa rappresentano velo, burqa o niqab. Qualcosa o semplicemente un niente di cui liberarsene. Lasciarle libere di guardarsi allo specchio.
Questo è quello che si meritano: forza e coraggio, non qualcuno che ancora una volta gli vieti, senza dare loro la possibilità di capire. Questo è come violentarle ancora una volta, come corpi, come menti e come persone.









E l'Italia si scopre orfana dei clandestini

La Stampa, 23-04-2010
Guido Ruotolo

In picchiata gli sbarchi sulle coste del Mediterraneo: dai 31 mila del 2008 ai 29 dei primi quattro mesi di quest'anno

ROMA Le due facce della fine dell'emergenza
I clandestini in Italia sono scomparsi. Da un anno è finita l'emergenza. Quelle immagini delle carrette cariche di fantasmi, di senza speranze che noi siamo abituati a chiamare, che abbiamo chiamato per anni «clandestini», ma che tali non erano e non sono per il semplice fatto che arrivano, arrivavano alla luce del sole chiedendo aiuto, bene quelle immagini sono consegnate alla storia. Le stime ufficiose del Viminale parlano ormai di un crollo negli ingressi. Circa 50.000, un terzo, rispetto ai 150.000 che arrivavano ogni anno. Briciole, a confronto di quello che accadeva negli anni passati. Agli sbarchi di massa prima in Puglia (Anni 90), con gli albanesi, poi in Calabria (kurdi iracheni e afghani) e Sicilia (Corno d'Africa, fascia subsahariana) e persino Sardegna (Algeria).
Una riduzione drastica del fenomeno, anche se le varie Agenzie, associazioni che si occupano del fenomeno (dalla Caritas all'Ocse) continuano a parlare di una presenza di clandestini in Italia che oscilla tra 700.000 e 1.000.000. Un numero che si è consolidato negli anni, e che non tiene conto del fatto che per molti di loro l'Italia non è la meta finale ma terra di transito per raggiungere altri Paesi, dalla Germania al Nord Europa.
Fino a ieri per analizzare il fenomeno dell'immigrazione  irregolare gli esperti utilizzavano l'immagine della torta. Una fetta del 50-60% era rappresentata dagli overstayers, e cioè coloro che arrivavano magari all'aeroporto romano Leonardo da Vinci con un regolare visto turistico e poi si rendevano irreperibili, una volta scaduto il visto o il permesso di soggiorno. Un'altra fetta equivalente al 20-30% della torta rappresentava gli ingressi fraudolenti alle frontiere. Soprattutto i porti dell'Adriatico erano, sono interessati a questo fenomeno (clandestini stipati all'interno dei tir, nelle sue intercapedini, nei vani nascosti  magari sotto una pila di cassette di frutta). Il resto, tra il 10 e il 20% era rappresentato dagli sbarchi.
Adesso, all'immagine della torta se ne è sostituita un'altra: una pentola a pressione sfiatata, con poca acqua dentro. In sostanza si tratta di overstayers e piccole quote di ingressi irregolari dalle frontiere soprattutto dai porti adriatici. Gli arrivi via mare più grossi sono avvenuti in Francia, un paio di mesi fa: 120 maghrebini sono sbarcati in Corsica.
Dunque, quale è stata la ricetta per il ridimensionamento del fenomeno? Il prefetto Rodolfo Ronconi, direttore centrale dell'immigrazione e della polizia di frontiera della Polizia di Stato, sintetizza: «Applicazione della legge, rispetto degli accordi». Spiega il prefetto: «L'accordo con la Libia funziona molto bene. E da lì i clandestini non partono più. I dati lo confermano: dal primo gennaio ad oggi sono sbarcati 29 clandestini a fronte di 2.673 arrivi dell'anno scorso. Abbiamo attivato un meccanismo virtuoso fatto di intese e memorandum tra i ministri dell'Interno o i capi della polizia dei diversi Paesi. E cosa che non accadeva prima, le stesse autorità locali stanno adottando politiche per non fare partire i propri connazionali».
Accordi di riammissione sono stati firmati con la Nigeria, con il Niger, l'Algeria e il Ghana. Nelle prossime settimane saranno siglate intese con il Gambia e il Senegal,  mentre  è in corso una trattativa con il Sudan. Ma quale è stato il prezzo da pagare perché questa politica andasse in porto? Diciamo subito che per un fronte molto vasto che tocca organizzazioni del volontariato, organismi delle Nazioni Unite, settori del mondo cattolico il prezzo è stato salatissimo in termini di rinuncia dei diritti inviolabili delle persone: il diritto all'assistenza, alla protezione umanitaria. Sul banco degli imputati, la politica di rinvio in Libia dei clandestini. Ovvero gli 854 respinti in mare nel 2009. Ricordate le polemiche furibonde? In sostanza, ai clandestini in balia delle onde, a rischio naufragio -queste sono le accuse -, non è stato garantito il diritto di chiedere asilo politico, protezione umanitaria, né sono stati, sarebbero stati presi in affidamento i minori presenti sulle imbarcazioni.
Il prefetto Ronconi, che proprio ieri è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Siracusa per violenza privata, per il respingimento in ma¬re di 75 clandestini, replica alle accuse: «Sono state applicate la Convenzione di Palermo del 2000 e il Protocollo Aggiuntivo, e il decreto interministeriale del 2003 che prevede il rinvio dei clandestini verso i Paesi d'origine».
La Commissione Uè ha affidato all'Italia il progetto Sahara-Mediterraneo (10 milioni di euro) per il contrasto dell'immigrazione clandestina in Libia, per garantire assistenza ai clandestini che attraversano il Sahara. Nelle motivazioni, la Commissione Uè scrive: «Al momento, il Dipartimento di Ps del ministero dell'Interno è la sola istituzione che ha risorse tecniche, finanziarie e umane, per portare avanti questo progetto».
Il nervo dei respingimenti in mare continua ad essere scoperto. Ma se il tappo libico funziona, il fiume carsico dell'immigrazione quale dire-
zione ha preso? Gli investigatori ipotizzano che dalla Libia i trafficanti si siano diretti in Grecia, a Patrasso. E che in qualche modo sia stata ripristinata la vecchia via dei Balcani.
Una volta era utilizzata per i traffici di sigarette di contrabbando.










Respingimenti, a processo un generale e il direttore di polizia per l'immigrazione

il Messaggero, 23-04-2010

Clandestini in mare
SIRACUSA - Una nave della guardia di finanza è territorio italiano, ovunque si trovi, e su dì essa valgono, dunque, le leggi del nostro Paese. Se un immigrato vi sale a bordo ha diritto all'applicazione delle norme nazionali sull'accoglienza e non può essere respìnto. È la tesi della Procura di Siracusa che ha disposto il processo, davanti al giudice monocratìco, per violenza privata in concorso del direttore di polizia per
l'imigrazione. Rodolfo Ronconi, e del generale della guardia di finanza Vincenzo Carrarini per il respingimento di 75 clandestini avvenuto nella notte tra il 30 e il 31 agosto del 2009. Operazioni di respingimento più volte criticale dall'Unione europea. Il ministro dell'Interno. Maroni, ha telefonato al prefetto Ronconi per esprimergli «piena stima e vicinanza» e si è detto sicuro che l'accertamento giudiziario «dimostrerà che le azioni poste in essere sono state pienamente conformi alla legislazione nazionale ed internazionale». Gli extra-comunitari. intercettali su un gommone in acque internazionali al largo di Portopalo di Capo Passero, furono fatti salire sulla nave "Denaro" e furono ricondotti in Libia. Per la Procura di Siracusa i due imputati avrebbero tenuto una «condotta violenta» nel «ricondurre in territorio libico. 11 capo della polizia. Manganelli, «esprime incondizionata fiducia nella magistratura» e sottolinea «l'assoluta convinzione»che l'azione degli uffici si è svolta «nel pieno rispetto delle normative vigenti».









ITALIA - Razzismo. Veneto, sette giovani su dieci: immigrazione uguale terrorismo

Aduc, 23-04-2010

La maggioranza, circa il 53%, si dice complessivamente 'molto' o 'abbastanza' d'accordo sul fatto che la presenza degli immigrati e' positiva perche' permette il confronto con altre culture, e il 67% esprime analoga opinione sul fatto che sono le condizioni di vita a favorire comportamenti illegali; ma poi il 68,3% si dice d'accordo con chi sostiene che l'aumento degli immigrati favorisce il diffondersi del terrorismo e della criminalita'. I dati emergono da un questionario effettuato dagli insegnanti di religione tra gli studenti degli istituti superiori di Vittorio Veneto (Treviso), a cui hanno risposto in 437. Una serie di risposte, specie quella sul terrorismo e la criminalita', che hanno sollevato piu' di qualche preoccupazione - come riporta oggi la Tribuna di Treviso - tra i partecipanti ieri pomeriggio di un incontro, nel corso del quale sono stati diffusi i dati del questionario centrato sull'immigrazione.
Complessivamente sono state presentate agli studenti 25 domande, molte delle quali articolate in piu' sezioni. Si passa cosi' dall'indicazione che in Italia vengono considerati 'troppi' gli immigrati (59,5%) - 'pochi' che riceve solo l'1,6% delle risposte - e che per i prossimi 10 anni si pensa (79,86%) che il loro numero aumentera'. Il 51,02% considera 'negativamente' il fatto che la popolazione aumenta grazie soprattutto alla presenza degli immigrati - 'positivamente' l'11,67% - e il 10,76% che il motivo principale del venire in Italia e' 'perche' e facile delinquere', mentre il 36,61% per 'motivi economici/poverta'. Il 44% circa si dice d'accordo con l'opinione che in 'L'Italia e' degli italiani e non c'e' posto per gli immigrati'; il 51,26% che l'atteggiamento nei confronti degli immigrati sia 'diffidente' e il 61,10% che l'inserimento 'nel nostro Paese e' difficile'. Quasi il 68% rileva poi che non avrebbe problemi se una famiglia di immigrati diventasse sua vicina di casa. Tra le tante domande, anche quella se e' giusto concedere la cittadinanza agli immigrati che risiedono in Italia dopo 5 anni, purche' non abbiano commesso reati: il 28,83% ha risposto 'molto' il 31,58% 'abbastanza', il 24,94% 'per niente'.










I filippini lavorano in casa e costituiscono una comunità unita
La carica dei lOOmila una risorsa per il Paese
la Repubblica, 23-04-2010
Vladimiro Polchi

ROMA e prime ad arrivare sono state le donne. Mary è una di loro. Lavora sodo. I soldi li manda tutti a casa. «Servono a comprare una grande risaia», spiega. Mary è nata a Batangas, nelle Filippine. Èn Italia da oltre 20 anni. A Roma fa la colf, la badante e talvolta l'infermiera. E' arrivata da sola. 11 primo appoggio? La fitta rete della sua comunità. Lì ha trovato ospitalità e contatti. Mary è un'immigrata tipo: si è subito specializzata nei ruoli più richiesti dalle famiglie italiane. Negli ultimi dieci anni le Filippine hanno ricevuto 1.895 milioni di euro in rimesse dall'Italia. In media, ogni immigrata spedisce 300 euro al mese a casa. Le donne sono state solo le truppe esploratrici, l'avanguardia dell'esercito. Poi sono arrivati i ricongiungimenti familiari e con questi gli uomini: figli e mariti. Oggi i "filippini d'Italia" sono 113mila, per oltre metà donne.
«I primi consistenti flussi migratori sono partiti dal nostro Paese negli anni '70, destinazione Europa, Emirati Arabi e Stati Uniti - spiega Dona Rose Dela Cruz, presidente del Filipino Women's Council - e l'Italia è stata senz'altro una meta privilegiata. Gli immigrati provengono in maggioranza dalle province di Manila, Mindoro, Ilocos e Batangas. E anche in Italia si ritrovano ad aggregarsi in base alle provincie di provenienza. Dove vivono? Nelle grandi città: Roma e Milano in testa».
Ma chi sono questi "filippini d'Italia"? Sono circa 113 mila, lavorano per lo più nelle case degli italiani. Guadagnano in media 1.850 euro al mese (per nucleo familiare), vivono generalmente in affitto (29%) o in case di proprietà (24,5%), e trovano lavoro soprattutto come domestici (le famiglie rappresentano il datore di lavoro non solo per quasi sei filippine su dieci, ma anche per poco meno di un quarto degli uomini). Da una indagine realizzata a fine 2009 dallo Scalabrini Migration Center di Manila e dalla Fondazione 1SMU di Milano emerge che, nonostante il reddito modesto e la bassissima mobilità sociale, 8 filippini su 10 dichiarano di essere soddisfatti o molto soddisfatti dell'esperienza lavorativa in ltalia. Il 90% mantiene legami attivi con il Paese d'origine e il 51,5% ha ancora almeno un figlio minorenne che vive inmadrepatria. La comunità filippina si distingue per una vita associativa molto intensa: il 65% frequenta le associazioni di assistenza tra connazionali. E ancora: il 40,6% dichiara di voler tornare nelle Filippine e di questi il 40,8% ha in mente di avviare lì un'impresa. Sono grandi risparmiatori: basti pensare che le rimesse degli 8 milioni di immigrati filippini nel mondo, nel 2009 hanno raggiunto i 17,3 miliardi di dollari, pari ad oltre il 10% del prodotto interno lordo del Paese.
"L'immigrazione  filippina - racconta Raffaella Maioni, responsabile nazionale delle Acli Colf- è storicamente radicata nel lavoro domestico. I filippini vengono generalmente considerati miti e affidabili e non è secondario il loro essere in maggioranza cattolici. Ma il punto è un altro: nel loro Paese vengono organizzati corsi di formazione molto severi, per preparare gli aspiranti immigrati a lavorare nelle case degli occidentali. Lo Stato filippino li considera una sorta di eroi nazionali, per le rimesse che garantiscono. Non manca il risvolto negativo: le autorità cercano di scoraggiare i ricongiungimenti familiari, proprio perché solo tenendo figli o mariti lontani dalle lavoratrici si assicura quel flusso imponente di denaro». La Maioni sottolinea un altro aspetto tipico dell'immigrazione filippina: «Le loro comunità sono molto strutturate e radicate sul territorio. Si danno mutua assistenza». Aprescindere dalle loro reali competenze, i filippini si sono infatti adattati al nuovo territorio, sbaragliando la concorrenza. Ne sono seguiti i pregiudizi: la stessa parola «filippina» per molti italiani sta ancora a indicare «collaboratrice domestica». Così come «marocchino» a lungo ha significato «immigrato». Una cosa però è certa: la loro nazionalità è diventata un marchio d'affidabilità, che ha monopolizzato il mercato del lavoro casalingo. E ancora oggi sono i più richiesti.










Preparare il caffè con la moka o cucinare le lasagne. Così a Mindanao si preparano le giovani filippine che vogliono lavorare in Italia
Nella scuola delle Colf
la Repubblica, 23-04-2010
RAIMONDO BULTRINI

ZAMBOANGA (Mindanao) Come cuocere gli spaghetti al dente. Cucinare una lasagna al forno, fare il caffè con la moka. Si imparano anche i dettagli alla scuola per le colf filippine che vogliono venire in Italia: come riordinare una casa a Bari o a Roma, per esempio, o quali sono le abitudini delle famiglie del Belpaese, persino le mille parole del vocabolario che non si possono ignorare per essere una buona domestica.
Anche a Zamboanga, città dell'incantevole arcipelago di Mindanao, si coltiva il sogno di tante filippine. Anche da questa scuola situata nella Casa di Carità costruita coi propri soldi da due missionari laici italiani, Mario ed Elisabeth Lizio, partono le donne che vanno a ingrossare l'esercito delle colf, molto richieste per professionalità e affidabilità, che lavorano nel nostro Paese.
Il marito di Jaqui Mecansantos è già in Italia, fa il domestico a Palazzolo. «Aspettami caro, arrivo anche io», scherza mentre si fa fotografare assieme alle altre sue venti compagne del corso per colf e badanti di Zamboanga. La città della trentenne Jaqui e delle altre candidate al sogno italiano è un porto-franco dove non si pagano dazi e i grandi magazzini fanno affari con le merci scontate destinate soprattutto all'estero. L'80 per cento del milione di abitanti è cattolico, vive al di sotto della soglia di povertà, e "presidia" l'ultimo avamposto della fede oltre il quale - tra Basilan, Jolo, Tawi Tawi - imperversano guerriglieri islamici e predoni.
Jaqui è la più loquace tra le ragazze raccolte al secondo piano del Centro di Puericultura del dottor Rodes Agbulos, l'istituto che bisogna frequentare prima di iscriversi alla scuola di colf. Qui, c'è una stanza con dei letti da rifare, a turno le aspiranti donne di servizio rimboccano le lenzuola e le coperte sotto le quali sono adagiati manichini a dimensione naturale.
e ragazze li sollevano dal materasso usando tutte le accortezze insegnate dagli istruttori per trattare le diverse forme di disabilità. Tra loro c'è un solo uomo tirocinante. Il motivo - dicono - è che le femmine qui sono dall'infanzia abituate ad accudire gli altri. E anche perché molti maschi sono comunque già partiti, per i Paesi   del  Medio   Oriente,   a Hong Kong e Singapore, in Malesia, o nell'altro emisfero, gli
Stati Uniti e l'Europa. Sono tra gli otto e i dieci milioni gli emigrati filippini all'estero, lOOrnila solo in Italia, e le loro rimesse valgono il 13 e mezzo per cento del prodotto interno lordo.
Jaqui è già stata a lavorare in Kuwait e in Arabia Saudita, ma sogna il nostro Paese e suo marito a Palazzolo praticamente ogni giorno, specialmente da quando i dirigenti del Centro di Puericultura di Zamboanga, dove insegnano anche Mario ed Elisabeth Lizio, le hanno promesso di completare la sua preparazione con un corso «take away» di italianità.
Il pacchetto di due mesi inizierà, se tutto andrà secondo i programmi, subito dopo il tirocinio infermieristico che finisce il prossimo giugno. Prevede un migliaio di vocaboli essenziali, una cinquantina di frasi comuni, abitudini  delle famiglie italia¬ne, a partire dai dettagli sulle di-verse misure igieniche, perfino il tipo di detersivo, documentari e diapositive. Si insegnano le ricette della cucina italiana, come insaporire senza troppe spezie esotiche le zuppe, le salse.
A istruire Jaqui e le altre saranno Mario ed Elizabeth, appunto, principali artefici dell ' iniziativa. Ma oltre ai loro consigli, l'ingresso dei candidati locali verso il nuovo mondo è facilitato da di¬versi altri fattori sentimentali oltre che economici. Prima di tutto Roma è la città del Papa e centro della fede cattolica trapiantata qui oltre cinque secoli fa.
Al di là del buon umore contagioso delle candidate colf per l'Italia, non ci vuole molto a capire che tutte cercano di fuggi¬re da una realtà difficile. Ma i problemi non nascono solo dalla povertà. Proprio dirimpetto alle coste di Zamboanga
coi suoi 19 porti, si estende il Far West di Basilan e Jolo, dove operano i separatisti islamici «moderati» del Fronte Moro, gli spietati guerriglieri filo Al Qaeda di Abu Sayyaf oltre a bande di ex pirati, contrabbandieri e rapitori su commissione.
Anche Elizabeth e Mario, pur non essendo ricchi, sanno che il pericolo è sempre in agguato. Prendono infatti diverse precauzioni, prima tra tutte quella di «vivere in amicizia coni nostri vicini che abitano nelle baracche in condizioni miserabili», come spiega "fratel" Mario.
I Lizio hanno sette figli, e alloggiano sulle colline di San Roque, ai piani superiori della Casa di Carità che ospita i corsi integrativi di colf e badanti che sperano in un ingaggio in Italia. Nel grande salone dove insegneranno usi e abitudini del Belpaese, hanno affisso mappe geografiche dello stivale e delle isole, copie di dipinti celebri del nostro Rinascimento, vedute idilliache delle città storiche. Sul tavolo fanno bella mostra pile di libri divulgativi della storia e del costume, ricette, dizionari di italiano, chavacano e tagalog (la lingua nazionale filippina). In un'altra stanza sono le cucine con i fornelli e le attrezzature.
Elizabeth è stata anche premiata dalla presidente delle Filippine per l'impegno della sua Ong (http://www.lafilippiniana.it) in una parrocchia di Cerro sul lago Maggiore, dove già addestrava all'"italian way" centinaia di domestici e badanti suoi connazionali, Poi nel 2008 i coniugi hanno deciso di venire qui e lavorare alla fonte del flusso di immigrazione dizionalmente concentrato più a nord, nelle province di Luzon e nel resto dell'Arcipelago di 7000 isole dove vivono quasi 100 milioni di abitanti.
Ma come sempre le scelte difficili incontrano anche ostacoli sul cammino. I corsi di Mario e «Lisa» a Zamboanga non hanno infatti ancorale autorizzazioni per essere avviati ufficialmente, e allora hanno deciso di iniziarli gratis, in attesa dei tempi della burocrazia locale e - "perché no?" - di una grazia della Madonna del Pilar, alla quale si rivolgono da secoli con immutata fiducia gran parte dei cattolici locali.
Jaqui, Donavel e molte delle altre tirocinanti hanno già detto che pagherebbero volentieri i 15mila pesos, poco meno di 250 euro,richieste per le spese di manutenzione del centro. Il problema è che nessuno può garantire un ritorno del relativamente gravoso investimento. Il sogno si può realizzare solo se ci sarà una chiamata diretta dall'Italia
di qualche famiglia o struttura ospedaliera, sia tramite il centro di formazione di Mario e Lisa a San Roque, che attraverso i consolati o le ambasciate, vincolate a rigide normative di selezione. A dare meglio l'idea del tipo di che
immigrazione che  parte  da Zamboanga, c'è da dire che sia Jaqui, che Donavel e le altre, appartengono a una classe media educata, sebbene a basso reddito. Ma nemmeno loro sono sfuggite in passato ai venditori di viaggi dell'illusione. «Ci sono agenzie di cosiddetto collocamento - spiega Jaqui - che mettono volantini alla ricerca di manodopera o si pubblicizzano su Internet. Spesso incassano gli anticipi dopo un colloquio al ristorante o a casa di noi candidati, e - se non sono già spariti subito - ti abbandonano senza troppi complimenti su qualche molo straniero dopo aver preso il resto dei soldi».
Di certo i filippini sanno che nemmeno l'Italia è la terra dove si materializzano le fiabe. Tra le bancarelle dei mercati e nei negozi di Dvd va a ruba il film Milan, a metà tra il polpettone sentimentale e il documento-verità sulla triste sorte dei clandestini diretti verso i nostri confini, spesso vittime di trafficanti e connazionali senza scrupoli. Mostra che il viaggio della speranza può trasformarsi in un incubo, senza l'aiuto di un'istituzione e lo spirito caritatevole di qualche buon samaritano. Da parte loro le studentesse della scuola di colf e di quella di puericultura ce la mettono tutta. Anche a costo di bruciare molte padelle per imparare a cucinare spaghetti aglio e olio.










Il lavoro Finita la stagione delle arance, via con le fragole
L'ambulatorio Ha ripreso a funzionare a pieno regime

I nuovi ghetti di Rosarno

La Stampa, 23-04-2010
Reportage
GIUSEPPE SALVAGGIULO
INVIATO A ROSARNO
Dopo mesi di esilio il ritorno di 500 braccianti: stiamo peggio di prima

Viaggio nella bidonville ricostruita
Entra, vieni a vedere in che merda viviamo». Quattro mesi dopo le violenze e la cacciata di duemila africani, Rosarno ha ancora molto da dirci. E lo fa con la voce di Brahim, un ventenne del Burkina Faso che di parole italiane ne conosce poche ma giuste. Cinquecento neri, dopo un mese di esilio in giro per l'Italia, sono tornati. Non hanno più paura. Vagano da soli per le strade e nessuno li sfiora. Fanno la spesa nei supermercati. Ricaricano le bombole del gas. Comprano il pollo nelle macellerie. E si avventurano in bicicletta tra i casolari dove subivano gli agguati a sprangate, colpi di pistola e bottiglie incendiarie. Rosarno ha trovato un nuovo equilibrio: meno immigrati quanti ne servono al mercato agricolo in crisi - e polverizzati in piccole comunità. Inoffensivi. Le bidonville da mille persone che avevano fatto inorridire il mondo, tra i ruderi delle fabbriche dismesse, sono scomparse. Ma i nuovi ghetti non sono meno fetidi e fatiscenti. Quello di Brahim è sulla scalinata che dal belvedere sulla piana conduce alla statale, dove si arruolano i neri all'alba per 25 euro. È una stanza di venti metri scarsi con quattro letti e un cucinino. Costa 50 euro mensili a persona. Affitto di mercato, spiegano gli inquilini: i capannoni in campagna, più accoglienti e dotati di servizi, sono più cari.
La Scesa Bellavista taglia in due un quartiere di casupole in tufo, per lo più a un piano. È la nuova Rosarno multietnica. Altro che razzismo: qui convivono calabresi e africani e all'ora di pranzo gli idiomi si confondono. Capisci subito dove abitano gli uni e gli altri: gli indigeni dietro i balconcini tinteggiati e i portoni in anticorodal, gli immigrati tra pezzi di legno marcio, pareti scrostate, tinozze arrugginite, materassi rancidi. Nel trilocale che sta ai piedi della scalinata si contano venticinque letti. Qui vive Zare, malese: a gennaio era fuggito a Vicenza, ma lì non riusciva a campare. Ha ancora gli stivali, è appena tornato dai campi. Oggi un padrone l'ha trovato, lui. Sono le ultime arance che raccoglie: la stagione sta finendo. Tra due settimane lo aspettano le fragole di Villa Literno.
«Stare meglio di prima?», sorride amaro Brahim mentre esce per non disturbare gli amici che guardano in tv la fiction su Totò Riina. È un dvd piratato che usano per imparare l'italiano. «Sono stati qui anni rinchiusi nei dormitori, non conoscono una parola», spiega don Pino De Masi, valoroso parroco di Libera che ospita i quattro immigrati feriti a gennaio e che ha appena avviato un corso di alfabetizzazione.
Brahim non ha maglietta né camicia ma indossa una bella giacca grigia di lana donata dalla Caritas. «Lavoro un giorno sì e uno no», racconta. Oggi è no. Molte arance sono rimaste sugli alberi: raccoglierle non conviene. Ma qualche bracciante serve sempre, anche a stagione finita. Gli alberi vanno potati, i campi rizollati. Un potatore italiano costa 50 euro, un nero la metà. E dunque padroni e caporali sono sempre strutturati, come dimostra un'inchiesta della Procura di Palmi che ha individuato un'associazione a delinquere di decine di persone per sfruttare il lavoro nero.
Nei prossimi mesi partiranno controlli a tappeto nelle aziende agricole, «per evitare - spiega il prefetto di Reggio Luigi Varratta - che in autunno Rosarno torni mia polveriera».
Quando manca il lavoro, si va a chiedere un pacco di riso a Norma Ventre, 85 anni, per tutti «Mamma Africa». Domenica scorsa erano in 120 e il cibo non bastava.
La casa di Norma è dietro l'ambulatorio della Asl riservato agli «stranieri temporaneamente presenti». I clandestini, che qui si curano senza paura di denunce. Rientrata da Torino dove si era rifugiata, la nigeriana Nancy passa spesso con il figlio di otto mesi. Il ritorno dei neri a Rosarno è testimoniato dall'attività dell'ambulatorio, nuovamente a pieno regime: 310 pazienti in un mese. Il medico,
Lorenzo De Masi, li conosce tutti per nome. «Mustafà! Semp'ca stai!», scherza mentre lo visita. Ad aiutarlo due traduttrici-segretarie. L'Asl non paga gli stipendi da ottobre, ma vanno avanti. Per i neri, l'ambulatorio è un punto di riferimento come l'agenzia di Peppe Cannata per i documenti e il phone center di Carlo e Stefania, che prima di gennaio incassava centinaia di euro al giorno e dopo gli scontri appena cinque. Ora gli affari sono tornati ai livelli di un anno fa. Qui gli immigrati possono anche ricaricare gratis il cellulare. In certe case del centro storico, devono pagare da 0,50 a un euro. Soldi ben spesi: il telefono serve per le chiamate dei padroni.
L'ivoriano Fuffana non ne ha bisogno. Vive in una casupola di mattoni sulla circonvallazione. La dimora meno squallida vista qui. Può permettersela perché è un caporale. A Rosarno da dieci anni, si è conquistato un secondo nome italiano -Marco - e i padroni vanno a trovarlo a casa. All'ingresso del suo monolocale, troneggia un bidet nuovo. Solo se gli chiedi spiegazioni, il gelido caporale Fuffana quasi si commuove: «Me lo ha regalato un padrone. Non vedo l'ora di portarlo alla mia famiglia in Africa».











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