Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri
Intervista a Tahar Ben Jelloun
ROBERTO CARNERO
«L'Europa? Sempre più razzista. E la politica è una questione di ego»
Lo scrittore marocchino affronta nel suo nuovo libro il tema della famiglia e del ruolo della donna nel mondo islamico. Di Berlusconi, Bossi, Sarkozy dice: «Cavalcano l'onda xenofoba per stare in televisione il più possibile»
La storia di un divorzio, raccontato in modi opposti, prima dal marito e poi dalla moglie, mentre l'uomo sta morendo. E al tempo stesso un affresco del mondo arabo, intorno a una vicenda che potrebbe accadere ovunque: l'inevitabilità di una crisi di coppia, il divorzio, l'impossibilità di essere giusti con la persona che un tempo abbiamo amato. Questo nell'ultimo romanzo di Tahar Ben Jelloun, L'uomo che amava troppo le donne (trad. di Anna Maria Lorusso, Bompiani, pp. 302, euro 17,50). Lo scrittore marocchino - nato a Fes nel 1944, premio Goncourt nel 1987 - affronta nel libro il tema della famiglia e del ruolo della donna nel mondo islamico. «Mi è stato chiesto se questo romanzo si ispirasse alla mia vita personale. Ho risposto che tutti i romanzieri attingono alla loro esperienza personale. Certamente non manca l'immaginazione, ma la base su cui costruire le narrazione è sempre la vita. Anche le prove più dure dell'esistenza possono essere esorcizzate tramite la letteratura. È una lezione che ho imparato da uno scrittore italiano, Primo Levi, che ha mantenuto un lungo silenzio perché trovava che fosse difficile narrare ciò che era inenarrabile. Eppure
alla fine ha deciso di farlo, forse perché non poteva farne a meno».
Il protagonista del suo libro è un dongiovanni, un uomo che ama molto le donne, appunto. Un atteggiamento detestato dalla moglie, che, quando lui si ammalerà, troverà, nella malattia di lui, il proprio modo per vendicarsi. Nel testo, la voce e il punto di vista della donna seguono, nella seconda parte del volume, quelli dell'uomo. Perché questa scelta? «L'alternanza delle due voci mi serviva a rendere come due persone possano vivere una stessa storia in maniera completamente diversa. Il romanzo si svolge tra la Francia e il Marocco, e questo è utile per mostrare il contrasto tra due culture diverse. Ma il contrasto è anche interno alla stessa cultura marocchina: l'artista è il rampollo di una famiglia non più ricca, ma con alle spalle una prestigiosa tradizione culturale, che sposa una berbera del Sud del Marocco. Ma il meticciato culturale tramite un matrimonio è difficile da ottenere, perché nello sposarsi entrano in gioco diversi fattori, che prescindono dalla relazione tra due persone: ad esempio i rapporti tra le famiglie dei due coniugi, con le loro attese e pretese».
In Occidente si discute su una questione: l'Islam è compatibile con la democrazia?
«Nel mio romanzo c'è l'Islam ma spira un vento di laicità. Io non perdo l'occasione di rivendicare la separazione tra la sfera politica e quella religione. Nel mondo islamico criticare l'Islam è molto pericoloso, quando lo fanno, anche in maniera molto sommessa, gli intellettuali rischiano la vita. In Marocco si sta provando da un po' di tempo a favorire un processo di laicizzazione. La stessa cosa accade in Egitto, anche se lì la situazione è un po' più difficile per la presenza di un'organizzazione fondamentalista come quella dei Fratelli Musulmani. In Egitto il potere politico gioca su più tavoli, dando un colpo al cerchio e uno alla botte per non scontentare nessuno. E questo rende il cambiamento molto lento e incerto. Ma è importante che gli intellettuali musulmani imparino a parlare di laicità, a separare la sfera politica da quella religiosa, a fare la stessa cosa che in Europa è avvenuta due secoli fa con la Rivoluzione francese. Dell'Islam dobbiamo riscoprire l'aspetto spirituale. Il Corano tra l'altro è un testo letterario bellissimo. Va superata la lettura letterale del testo sacro, imparando dalla critica letteraria e dalla filologia a decodificarne simboli e metafore». Come si fa, allora, a superare le difficoltà di integrazione tra Europa e Paesi islamici?
«L'Europa è destinata a vivere con gli immigrati di religione islamica, e dunque è necessario trovare una strada per dialogare. È difficile proporre ricette astratte, ma non bisogna mai stancarsi di cercare soluzioni concrete».
Come spiega le tensioni xenofobe e razziste che caratterizzano l'Europa odierna?
«Ho l'impressione che in Europa il razzismo sia molto cresciuto negli ultimi anni: Berlusconi, Bossi, Sarkozy hanno deciso di seguire un'onda xenofoba presente nella popolazione e di incrementarla per cavalcarla meglio. Non si tratta neanche di prese di posizione in virtù di un assunto ideologico. Queste polemiche servono loro per starsene in televisione il più possibile. Non è una questione ideologica, ma è una questione di ego. La politica è spettacolo e queste polemiche sono utili per essere sui media, per tenere la presa su un elettorato che, ormai, è prima di tutto pubblico televisivo».
Qual è attualmente la situazione interna del Marocco?
«Paradossalmente, oggi, il Marocco mi sembra più vicino all'Europa rispetto a quanto lo sia la Turchia. È per questo che, dopo trent'anni vissuti in Francia, ho deciso di tornare nella mia terra, dove c'è democrazia, si sta riformando la legislazione familiare in senso più moderno, c'è libertà di stampa e di espressione. Anche se la mancanza di lavoro spinge molti giovani a tentare la strada della migrazione». Come vede il futuro del contrasto israelo-palestinese?
«Premetto: sono arabo, ma non evito di condannare gli attentati terroristici dei kamikaze. Allo stesso modo denuncio le aggressioni militari israeliane. Al momento non vedo grandi spiragli per essere ottimisti. La violenza oggi è a livelli troppo alti. I due popoli sono presi in un ingranaggio di sangue e di morte da cui non sembra esserci via d'uscita».
La diplomazia potrebbe fare qualcosa?
«Non sono un politico, ma credo che l'unica speranza sarebbe un'azione energica da parte degli Stati Uniti. Se l'America esercitasse una forte pressione su Israele per l'attuazione di un serio piano di pace, forse si potrebbe vedere qualche risultato. Però se parlano le armi e la violenza, ogni discorso diplomatico diventa vano».
Qual è il ruolo degli scrittori di fronte alla guerra?
«Dobbiamo difendere i valori fondamentali. Con tutto il rispetto per alcuni miei colleghi, io non amo scrivere, come fanno loro, contemplando il mio ombelico, cioè lavorare tutto ripiegato su me stesso. A me interessa scrivere per dare voce a coloro che non possono parlare, per suscitare nel lettore un sentimento di compassione nei confronti del loro dolore».
Tornando alla letteratura, recentemente una polemica l'ha opposta al suo collega Michel Houellebecq a proposito della candidatura di questo scrittore al Premio Goncourt. Che cosa è successo?
«Sono da tre anni membro dell'accademia che conferisce il premio Goncourt. Ho letto quest'estate una trentina di romanzi. Ho letto libri interessanti, qualcuno più qualcuno meno. Mi sono semplicemente permesso di dire che c'erano romanzi più interessanti di quello di Houellebecq, la carta e il territorio (in Italia pubblicato da Bompiani, n.d.r.). Un romanzo che aspiri al Goncourt deve essere dotato di stile, coerenza interna, coerenza anche, al limite, nella destrutturazione della lingua. Non deve essere frutto di una letteratura prefabbricata. Criticando Houellebecq, mi sono attirato gli strali dei suoi fautori. Ho ricevuto anche su Internet insulti furibondi. Io ho solo detto che Houellebecq ha scritto un libro fatto deliberatamente in modo da poter aspirare al Goncourt. Per farlo ha cancellato le sue caratteristiche salienti: la misognina, il razzismo, l'apologia dei bordelli tailandesi. Ha voluto fare un libro politicamente corretto, ma è uscito un mobile Ikea. I mobili Ikea sono carini, semplici, leggeri, ma non durano molto. Tra l'altro si è scoperto che Houellebecq in questo libro ha copiato, con un copia-incolla, alcune pagine da Wikipedia. Ma la stampa francese non si è indignata più di tanto. Se l'avessi fatto io, mi avrebbero linciato». ?
Dal Marocco alla Francia fra articoli e romanzi


TAR BEN JELLOUN NATO A FES, IN MAROCCO, NEL 1944
SCRITTORE
In Marocco ha insegnato filosofia, ma nel 1971 si è trasferito a Parigi dove ha ottenuto un dottorato in psichiatria sociale sulla confusione mentale degli immigrati ospedalizzati, che verrà pubblicata col titolo «L'estrema solitudine». La sua esperienza di psicoterapeuta sarà anche riversata nel romanzo «La Réclusion solitaire» (1976). Nel frattempo ha continuato a scrivere, sempre esclusivamente in lingua francese, collaborando regolarmente col quotidiano «Le Monde». Il primo romanzo, «Harrouda» è del 1973.
Oggi è padre di quattro figli ed è tornato a vivere in Marocco. Con il libro «Il razzismo spiegato a mia figlia» e per il suo profondo messaggio gli è stato conferito dal segretario delle Nazioni Unite il Global Tolerance Award. Tra le opere più importanti: «Creatura di sabbia» (1987); «Nadja» (1996); «Ospitalità francese» (1984).

l'Unità, 2-11-2010
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