Qualcuno si fermi (e dia un aiuto) al binario 15 Ostiense

Italia-razzismo    Osservatorio
Luigi Manconi, Valentina Calderone, Valentina Brinis

Dalla Campania all’Emilia-Romagna (per la precisione: da Salerno a Imola), all’incirca seicento chilometri, aggrappato alla motrice di un camion. Non è una sfida da Guinness dei primati, ma il viaggio fatto da un ragazzo afghano la settimana scorsa. Una storia che, nonostante somigli a quella di molti altri, riesce comunque a stupire e a commuovere.

E fa riflettere per via dell’alto rischio a cui un individuo è disposto a sottoporsi pur di fuggire. Una fuga in cui la meta non sempre è definita - e di solito, nell’immaginario e nelle aspettative del fuggiasco, non è l’Italia - a differenza della motivazione che la provoca, che è inequivocabile: la paura di essere rimandato nel Paese di origine perché lì la propria stessa vita è in pericolo. Questo rende quel viaggio appeso a un camion l’ultimo tratto di un lungo percorso, che risulta comunque preferibile alla sorte da cui si fugge. Viaggi estenuanti e interminabili che prevedono alcune soste in posti cruciali. Uno tra questi, almeno per gli afghani, è la stazione Ostiense a Roma. Qui, con il sostegno di Medici per i Diritti Umani e di altre associazioni, da sei mesi le persone sono ospitate nelle tende nella parte finale della banchina del binario 15 e non dormono più in quella che veniva chiamata la “buca” (lo scavo delle fondamenta di un edificio vicino). Ciò non è bastato a rendere la situazione meno degradata e degradante, sotto tutti i punti di vista. E, nonostante sia le istituzioni che la popolazione ne siano al corrente, nonostante si tratti di una situazione tutt’altro che “clandestina”, nulla finora è stato fatto. Cosa aspettano, dunque, le istituzioni ad affiancarsi ai cittadini e alle associazioni che già se ne occupano, e non da oggi?
l'Unità, 11-10-2011

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