Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Vendere

Vengo dal Senegal. Ho fatto il venditore e vi racconterò che cosa mi è successo. E’ un mestiere difficile , per gente che ha costanza e una gran forza d’animo, perchè bisogna usare le gambe e insistere, insistere anche se tutte le porte ti vengono sbattute in faccia.

Io non so quali siano le virtù principali di un buon venditore. Noi del Senegal ne possediamo tante. Nelle nostre disgrazie di emigranti siamo stati miracolati, come molti altri ragazzi del Maghreb o della Costa d’Avorio o del Mali o del Ghana o di qualsiasi altro paese al mondo che abbia allevato venditori e li abbia mandati in giro tra i bianchi, tra i tubab dell’Europa, a vendere famiglie di elefanti, zanne di elefanti intarsiate di finto avorio, maschere d’ebano, bracciali d’argento, orecchini d’argento, anelli d’argento, denti di drago, cinture di cuoio, fermacarte di pietra e soprattutto fruste, quelle fruste lunghissime che usano i nostri contadini. Chissà come sono oggi i nostri contadini... Quante cose mi ballano in testa, che non interessano i bianchi.

Un mestiere difficile quello del venditore. Faticoso, triste, pieno di umiliazioni. Si girava fino a notte e poi ci si doveva alzare presto per ricominciare da capo il commercio e scoprire piazze nuove. Ricordo che entrare in un bara mi spaventava. tentavo di nascondermi, pieno di vergogna. Me ne stavo alle spalle di un amico e saltavo fuori all’ultimo momento con la mia merce. Sul tavolino del bar c’erano i suoi elefanti e le sue collane. Io mi intrufolavo e allungavo la mano con gli elefanti, sperando che il compratore scegliesse i miei. Anche questo è vendere. Vendere per noi è obbligatorio. C’erano i giorni in cui mi faceva più schifo del solito entrare in un locale, rompere le scatole a qualcuno che se ne stava tranquillo a bere, mangiare, fumare e non mostrava nessuna curiosità per i miei elefanti. Ma la nausea che provavo la dovevo ricacciare dentro.

Sapevo organizzarmi la cura disintossicante, perchè quando sentivo di essere al limite, smettevo e me ne andavo via per due o tre giorni. Ma la regola è “resistere”. lo so per certo, l’ho visto con i miei occhi: se ti arrendi sei finito, ti lasci andare, dormi sulle panchine, non ti lavi più, non mangi più, vuoi solo piangere. Finisci ubriaco fradicio, perchè nei bar ti offrono da bere. E da ubriaco non capisci più nulla. Non sai più vendere. Puoi solo morire, a meno che qualcuno non ti aiuti. Ma guardi storto anche gli amici. Vendere non è solo questione di resistenza. Non bisogna illudersi. Potete essere i più duri d’animo e di cuore. Ma questo non vi garantirebbe il successo come venditore. Lo capirete, se mi seguirete nel racconto. Capirete che vendere elefanti o farfalle sottovetro o avvoltoi di osso e un’arte.

Poi i tempi sono cambiati, perchè con le finte Lacoste, con il finto Armani o con il finto Cartier, a parte le solite storie con la polizia e i carabinieri, i vigili urbani, i bottegai, a parte insomma i pericoli dell’emigrazione clandestina, con il finto Gucci o con le borse di Louis Vuitton il mercato si è allargato. Adesso te li vengono a cercare. Sono stato un buon venditore, perchè ero un buon osservatore. Sono convinto che ci voglia spirito di osservazione per individuare il compratore giusto, sapere avvicinare un nuovo cliente. A me, ad esempio, andava bene se mi chiamavano “marocchino” e mi dicevano “marocchino, vieni qua”, perchè era un modo per attaccre discorso. E dopo aver chiacchierato per un po’, era probabile che quel tale si decidesse a comprare. Se cominciava uno, gli altri non si tiravano indietro, per non fare la figura degli spilorci.

C’è voluto un po’ di tempo e di avventure prima che io arrivassi a Milano, dove sono stato un inventore, perchè i primi mercatini nelle stazioni della metropolitana li ho messi su io con tre compagni. Adesso, come vedete, i senegalesi sono in tutti i mezzanini della metropolitana e c’è verso di cacciarli fuori. Sanno far valere le loro ragioni. Ma allora avevamo cominciato in quattro. C’eravamo noi quattro soltanto, oltre a dei venditori italiani. Il primo giorno i vigili ci sequestrarono tutta la merce.

Ne abbiamo passate di tutti i colori, ma continuando sempre a vendere. Vendendo abbiamo guadagnato soldi per mangiare e dormire al coperto. Non sempre, ma spesso. Vendendo ho anche imparato l’italiano. Qualcuno prova a cambiare mestiere, nella speranza di una vita tranquilla, di trovare una casa, di rimettere insieme una famiglia. E fa bene. Ma vendere è un gran mestiere. Non c’è da vergognarsene.

 

 

Bambini

E’ la vecchia abitudine di chi comanda. Appena alzi la testa, vorrebbe bastonarti. I ragazzi senegalesi cercano di vivere come persone normali, ora che la legge offre loro qualche possibilità. escono dal buio. Non si nascondono più. Ritorna il desiderio di ballare, di frequentare ragazzi e ragazze. Ora c’è persino una discoteca, che sembra fatta apposta per noi, dove si suona musica africana, e dove la sera capita spesso di ritrovarsi. Mi sembra un sogno. E’ bello parlare. E’ bello che una ragazza italiana venga a trovarmi, mentre sto a vendere in metropolitana, che si possa scherzare, ridere, scambiare opinioni alla luce del sole. A molti questo non piace. hanno una idea inconfessabile ma ben radicata: noi poveri dobbiamo stare al nostro posto, che è un posto molto basso e isolato. Non vedono di buon occhio che le ragazze italiane si fermino a chiacchierare con noi. Quando i poliziotti scendono nel metrò per le loro retate e per i loro sequestri le apostrofano così: “Voi siete italiane, che cosa ci fate con questi?”. Capita qualcuno che si ferma ad ascoltare quello che si dicono un ragazzo senegalese e una ragazza italiana. Il ragazzo senegalese deve mettersi a gridare: “Che cosa volete? Che cosa fate qua?”. Il nostro curioso è pronto a rispondere: “E voi che cosa ci fate qua? Questo è il mio paese e ho il diritto di stare dove mi pare”. Quando i carabinieri sono venuti a Cassano in cerca di droga, si sono meravigliati che avessimo la televisione e il telefono. Quando hanno visto i nostri documenti italiani hanno protestato: “Ma dove volete arrivare? Siete voi i nuovi padroni? Sono pazzi a riconoscervi tutti questi diritti”. Appena la nostra vita è un po’ migliorata, molti si sono irritati, altri spaventati.

Decido intanto di cambiar mestiere. Per quanto sia stato un bravo venditore, non ho mai avuto una gran passione per questo mestiere. Divento così operaio, anzi apprendista. Ho saputo di un elettricista che cercava un aiuto e sono diventato anch’io elettricista, dalle parti di piazzale Loreto. Una sera, verso giugno,ho un appuntamento con l’amico Moussa, che vende sotto la metropolitana. Ci sarà anche la sua ragazza italiana. Andremo assieme a cena dalla sorella di lei. Sto aiutando Moussa a raccogliere la merce, quando si presenta un signore in borghese con una stecca di sigarette in mano:

“Prendi la tua roba e vieni con me”.

L’amica di Moussa interviene, protesta, chiede spiegazioni.

“Sono un agente della guardia di finanza. Questo deve seguirmi”.

La ragazza insiste: “Questo è un sopruso, è una vergogna!”,

“Lei non c’entra: è solo lui che deve venire con me”.

“No, io c’entro e protesto per...”.

“Una ragazza italiana con questi individui! Se ne vada...”.

I ragazzi, che si sono raccolti attorno, se ne escono con un sonore “oohh”, come se il nostro finanziere avesse segnato un gol. Lui si incazza: “Avanti, andiamo!”.

Io li seguo.

“Che cosa fai?”.

“Siamo insieme: vengo anch’io”.

Un marocchino approfitta della situazione. Il bravo finanziere gli aveva sottratto la stecca di sigarette senza verbalizzare il sequestro. Il marocchino è magro e svelto e mentre il finanziere si palleggia tra le mani la scatola, lui l’afferra al volo e scappa via. La gente applaude. Il finanziere rincorre il marocchino con la pistola in pugno. Il pubblico scoppia a ridere. Sembra tutto finito. E, invece, dopo una decina di minuti, eccolo riapparire alla testa di un esercito di finanziarie armati di mitra e pistole. I ragazzi se la danno a gambe. Rimaniamo io, la ragazza e Moussa. Il finanziere paonazzo ci indica: “Sono stati loro. Stavo sequestrando delle sigarette e loro mi si sono fatti intorno, hanno fatto scappare il marocchino”. I suoi colleghi si scagliano contro di noi:

“Bastardi. Volevate picchiare il nostro amico. Ma non la passate liscia. Ve la faremo vedere noi”. E poi insulti, spinte. E noi:

“Rispettate i nostri diritti. E’ tutto falso”.

Gli altri ragazzi, nascosta la merce, ritornano e gridano in coro:

“Bugiardi, bugiardi!”. Nella stazione del metrò il frastuono è infernale. Arrivano altri carabinieri e altri poliziotti. Afferrano oltre me anche Moussa, la sua ragazza e due amici che si erano fatti avanti per testimoniare. Poi cambiano idea. Si accontentano di me e di Moussa. Ci portano in caserma. Il trattamento continua:

“Bastardi, volevate picchiare il nostro amico! Mascalzoni”.

Rispondo che non è vero, che sono solo menzogne. Gli amici ci hanno seguiti con le loro macchine. Con i clacson mettono su un bel concerto. Tutti protestano. Io protesto, Moussa protesta. Arriva la ragazza di Moussa e protesta. Arriva la sorella della ragazza di Moussa e protesta, spiegando che ci aspettava a cena quella sera. I finanzieri protestano. Ma lo mettono per iscritto. Secondo loro, noi volevamo impedire un sequestro, salvare un marocchino e picchiare un finanziere. Non citano la ragazza di Moussa come testimone. Non citano nessun testimone. Ci sbattono a San Vittore per tre giorni.

Storie di questo genere le abbiamo vissute io e tanti altri amici, solo perchè ci rifiutavamo di chinare la testa. E’ finito il tempo di “sì zio, va bene zio”. Abbiamo conosciuto in compenso San Vittore. L’associazione cerca di aiutare chi finisce dentro. Ma sappiamo che l’associazione non ha peso. E’ solo una associazione di senegalesi. L’abbiamo creata per scambiarci informazioni, per aiutarci a vicenda. Serve per questo, perchè tanti ragazzi restano senza merce, senza soldi, senza casa, o hanno bisogno di un avvocato. L’associazione fa quello che può. Ma è difficile perchè i soldi dei senegalesi sono pochi e i ragazzi hanno uno strano carattere: si vergognano se qualcuno cerca di dar loro una mano. Sono orgogliosi e bisogna usare molta discrezione. Quanto ai sindacati italiani, potrebbero fare di più per noi, per i nostri diritti. Per la casa, ad esempio. Perchè non riesco ad avere una casa se mi presento con el carte in regola, un posto di lavoro, i soldi in mano? Perchè non ho una casa, anche se leggo scritto “Affittasi”?

Questa è la vita di un senegalese, la vita che conosco da un tempo che mi pare lunghissimo, ma in fondo fortunato, perchè, come si dice al mio paese, se una cosa la puoi raccontare, vuol dire che ti ha portato fortuna. Molti ragazzi stracciano i loro permessi di soggiorno e tornano in Senegal, perchè non ne vogliono più sapere dell’Italia, della polizia, dei carabinieri, delle vendite, degli elefanti, delle aquile d’avorio, delle collane, delle Lacoste, delle borse Vuitton, delle camere d’albergo, dei fogli di via, dei sequestri, del freddo.

Il freddo di qui al quale non riuscirò mai ad abituarmi.

Molti restano, lavorano, vendono, diventano operai, anche se sfruttati più degli altri.

Molti restano e conoscono ragazze italiane. Si innamorano. Ci sono matrimoni, e poi anche separazioni e divorzi. E poi ancora matrimoni. Nascono bambini.

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