Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

29 ottobre 2013

Sahara, morti di sete 35 migranti
l'Unità, 29-10-2013
Sonia Renzini
L’ultima tragedia della povertà arriva dal Niger. A metà ottobre 35 persone sono morte di sete in pieno deserto del Sahara a causa di un guasto al veicolo in cui viaggiavano mentre cercavano di entrare clandestinamente in Algeria per raggiungere l’Europa e cercare una vita migliore.
Lo ha reso noto Rhissa Feltou, primo cittadino di Agadez, la principale città settentrionale del Paese africano che si trova su una delle rotte più trafficate dai migranti provenienti dall’Africa occidentale.
Il viaggio della speranza era iniziato i primi di ottobre da Arlit, centro per l’estrazione dell’uranio a nord di Agadez: due camion di 60 persone si erano dirette verso Tamanrassett in Algeria. Erano interi nuclei familiari, molte le donne e bambini, secondo quanto riferito da Azaoua Mamane, responsabile dell’organizzazione non governativa Synergie. Qualcuno sperava di riuscire a mantenersi mendi-
cando in Algeria, i più tentavano la via dell’Europa, sfidando il pericolo e la morte. Come hanno fatto in centinaia in questo mese cercando di attraversare il Mediterraneo.
Ma è proprio la morte che hanno trovato mentre camminavano senza acqua nel deserto in cerca di aiuto o di un’oasi, dopo che uno dei due camion è rimasto bloccato al confine a 50 chilometri a nord di Arlit.
UN BUSINESS LUCROSO
I migranti si sono suddivisi in piccoli gruppi nella speranza che così fosse più facile sopravvivere, se alcuni si perdevano, magari altri avrebbero potuto farcela. Sperando che qualcuno sarebbe tornato a prenderli: uno dei due camion è ripartito senza nessuno a bordo per cercare pezzi di ricambio e riparare così il guasto. Questo almeno è quanto viene ipotizzato per spiegare la tragedia. Il camion indietro non è mai tornato.
Non è la prima volta che accade. Nel lucroso business di africani in fuga da condizioni disperate capita di
frequente che i trafficanti abbandonino nel deserto i loro carichi di esseri umani, lasciandoli di fronte a una morte certa. Perché chi rimane in mezzo al deserto senza acqua né viveri muore di sicuro, ma quello che conta per questi uomini senza scrupolo che fanno i soldi sulla disperazione della gente è andarsene più in fretta possibile e mettersi al sicuro. Così è stato anche stavolta. Il camion si è dileguato nel nulla, al suo posto è arrivato invece l’esercito informato di quanto avvenuto da cinque sopravvissuti che dopo giorni e giorni di cammino ce l’hanno fatta a raggiungere Arlit e a dare l’allarme. Ma ormai per i più era troppo tardi, solo in diciannove sono stati ritrovati vivi e portati ad Arlitt. Gli altri sono tutti morti o dispersi. Un poliziotto racconta che sono stati rinvenuti i corpi di due donne e tre adolescenti, avevano tra i nove e gli undici anni. Mentre alcuni testimoni raccontano di avere personalmente visto e contato 35 persone cadaveri per strada, ha detto Abdourahmane Maouli, sindaco di Arlit.



La Lampedusa del deserto: 40 morti di sete nel Sahara
Avvenire, 29-10-2013
Matteo Fraschini Koffi
L'ennesima strage si è consumata nei giorni scorsi nel deserto d’arenaria che divide il Niger dall’Algeria. Quaranta persone – ma il numero esatto è incerto e forse non lo sapremo mai – in larga parte donne e bambini, sono morte di sete nel deserto. Erano tutti abitanti poverissimi del Niger e cercavano di raggiungere l’Algeria, dove vivere d’elemosina. Raggiunta Arlit – ultimo centro abitato prima del confine, sorto attorno a due miniere di uranio a cielo aperto, a 150 chilometri da Agadez – i migranti si erano stipati su due camion presi a noleggio. Sull’aspro altopiano dell’Air, fatto di roccia e null’altro, che attira da tutto il mondo gli appassionati di sport estremo, uno dei due camion si è bloccato per un guasto. Il secondo automezzo, scaricati i suoi passeggeri, ha invertito la marcia per andare, vuoto, in cerca dei pezzi di ricambio, abbandonando i passeggeri del veicolo in panne. Quando l’acqua è terminata, questi si sono messi in marcia in piccoli gruppi, sperando di raggiungere un’oasi. Sono finiti tutti inghiottiti dal deserto tranne 19, tornati ad Arlit grazie a passaggi di fortuna. Costoro hanno dato l’allarme ma le pattuglie dell’esercito hanno trovato soltanto pochi cadaveri disseccati dal sole. Alcuni viaggiatori hanno riferito di aver visto lungo la pista decine di cadaveri. Nulla da fare per loro e impossibile fermarsi, per non fare la stessa fine. Il sospetto è che i conducenti dei due camion fossero veri e propri trafficanti di esseri umani, che si sono limitati ad abbandonare il loro "carico", condannando i malcapitati a morte pressoché sicura.
Da Agadez (Niger)
Gli occhi lucidi e i muscoli in tensione. Le vene del collo gonfie, quasi pronte ad esplodere. Abubakar, senegalese sui 25 anni, non può però permettersi né di piangere né di reagire. Un minimo gesto sbagliato potrebbe costargli l’intero viaggio. Il tonfo dello schiaffo con cui il militare lo ha appena colpito al viso si è sentito persino fuori dalla stanza. La tensione fra i passeggeri si fa “densa”. Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. Un altro soldato si tuffa sul gruppo di migranti per evitare che il collega continui con le violenze. Ma questi non è meglio del primo. Dopo aver notato il mio passaporto italiano, con la scusa della mancanza del libretto giallo delle vaccinazioni (solitamente richiesto solo in aeroporto o alle frontiere), porta il giovane senegalese nell’ufficio accanto, chiude finestre e porta, e al buio esige immediatamente «5mila franchi Cfa (7 euro), altrimenti non passi!». Una somma irrisoria per un europeo, una fortuna per un migrante africano in cammino verso l’El Dorado europeo. Sogno o chimera non importa. Per chi, come Abubakar, cresce in un continente dilaniato da guerre e disoccupazione, è facile credere di non avere altra scelta se non quella di lasciare famiglia e amici, e rischiare la propria vita attraversando il Sahara e il Mediterraneo.
Dopo mezz’ora si risale tutti sul pullman. Anche questo mezzo, per una tragica ironia, è uno dei tanti effetti collaterali degli anni di conflitto nella regione. «Molte delle compagnie di bus che girano quotidianamente per l’Africa occidentale e arrivano ad Agadez sono gestite dai tuareg – assicura Mohamed, tuareg maliano diretto in Europa – e vengono finanziate con i soldi dei traffici di droga e armi». Il viaggio è iniziato a Lomé, in Togo. I taxi per Cotonou, in Benin, oltre all’autista e alla mercanzia, trasportano due persone davanti e quattro dietro. Il “prezzo” del biglietto è di 5mila franchi Cfa (7 euro) per quattro ore di strada. Da Cotonou, si prosegue via bus per Niamey, capitale del Niger, dove si arriva nel pomeriggio del giorno successivo. È in Niger, alla frontiera di Gaya, che iniziano i posti di blocco. Riuscire a scansarli è la principale sfida del tragitto Niamey-Agadez, lungo una strada sospesa nel nulla. Si parte prima dell’alba e, se tutto va bene, si arriva alle 22. Agadez è una Lampedusa del deserto.
È qui che si radunano ogni giorno migliaia di giovani migranti africani. Provengono da Nigeria, Guinea, Mali, Liberia... Negli oltre 50 “ghetti” che costellano questa storica città di circa 150 mila abitanti, si ammassano, le une sulle altre, le storie di ordinaria disperazione e i loro protagonisti. «Un gruppo di soldati in Burkina Faso mi ha rubato i soldi e persino le scarpe», racconta un giovane del Gambia. «Ho dovuto camminare a piedi nudi per 70 chilometri fino al confine con il Niger – continua mostrando le vesciche sotto i piedi – sto aspettando da settimane che la mia famiglia mi spedisca altri soldi per continuare verso l’Europa». Nell’ultimo posto di controllo nei pressi di Agadez si lasciano i documenti d’identità. Il giorno successivo si passa a recuperarli. «Lei ha una telecamera nascosta nella camicia?», è la prima domanda posta con particolare freddezza da un ufficiale. Sarebbe molto preoccupante mostrare al mondo le condizioni in cui lavorano le autorità locali. I posti di blocco sono costituiti da modeste costruzioni: quattro pareti spoglie coperte da un semplice tetto di paglia. Gli agenti si rivolgono ai migranti con particolare arroganza, aggressività e comprensibile frustrazione. Non ci sono i mezzi per controllare un flusso così dirompente di disperati.
«Vi prego, sono della Costa d’Avorio e non posso tornare a casa fino a quando non trovate il mio passaporto», supplica un uomo che da due mesi è senza documenti. Buttando l’occhio per terra, nell’angolo della stanza, si nota il cosiddetto “archivio”: un mucchio impolverato, alto quasi un metro, di passaporti, schedine e fogli d’identità. «Il numero di irregolari è diminuito grazie all’aumento dei controlli sulla strada principale verso la Libia – attesta un recente rapporto dell’organizzazione non governativa Bambini nel deserto. – Il giro di vite, però, ha spinto tanti migranti a scegliere vie nascoste, assai più pericolose». Molti non hanno scelta. Devono in tutti i modi andare verso il nord. Altri invece ritornano nei Paesi d’origine. Entrambi i gruppi vogliono comunque scappare da Agadez dove non si sentono più al sicuro. «L’ultima volta che uno studio dell’Onu ha accusato l’amministrazione nigerina di abusi – afferma un operatore umanitario sotto anonimato – le forze di sicurezza hanno imprigionato tutti i migranti per settimane e li hanno puniti». Per questo sono pochi quelli che hanno il coraggio di raccontare le loro esperienze. Inoltre, dopo gli attentati dei qaedisti del Movimento per l’unicità e la jihad in Africa occidentale (Mujao) avvenuti il 23 maggio scorso – in cui 20 militari nigerini sono morti – Agadez sta diventando sempre più pericolosa. Né gli abusi né il terrorismo, però, fermano il traffico di esseri umani. Il commercio illegale di persone o cose resta una preziosissima fonte di denaro non solo per i trafficanti, ma anche per chi dovrebbe garantire la legge.



Scaricati nel deserto del Niger, decine di migranti muoiono di sete
Lampedusa/«IL 3 OTTOBRE SIA GIORNATA DELLA MEMORIA»
il manifesto, 29-10-2013
Giorgio Salvetti
«Bisogna fare accordi e fornire aiuti ai paesi d'origine». Troppe volte dopo la strage di Lampedusa i politici italiani ed europei hanno tentato di ripulirsi la coscienza e giustificare la loro colpevole ignavia con questo mantra ipocrita. Come se i migranti che attraversano mezza Africa verso nord non scappassero proprio dalla miseria e dalle guerre che imperversano in quei paesi. E come se l'Europa e i suoi governanti non fossero responsabili e non avessero interessi da difendere in quegli stati. Ecco cosa succede a queste persone molti chilometri più a sud del Mediterraneo: ieri le autorità del Niger hanno rivelato che almeno 35 migranti sono morti di sete nel Sahara mentre stavano tentando di raggiungere l'Algeria.
Abdourahmane Mauoli, sindaco di Arlit, città di miniere di uranio nel nord del Niger, ha detto che alcuni viaggiatori hanno contato decine di cadaveri lungo la strada che porta alla città algerina di Tamanrasset. Rhissa Feltou, sindaco di Agadez, il più grande centro della zona, ha fornito una prima ricostruzione dell'ennesima strage. «Una sessantina di persone sono partite a metà ottobre su due camion. Quando uno dei due veicoli è rimasto in panne, l'altro ha scaricato i migranti in pieno Sahara ed è andato a cercare pezzi di ricambio. A quel punto i migranti si sono divisi in piccoli gruppi e si sono messi in cammino alla ricerca di un'oasi». Solo cinque sopravvissuti sarebbero riusciti a raggiungere Arlit e ad avvisare l'esercito del Niger.
Un militare ha confermato di aver visto nel deserto cinque cadaveri, tre donne e due adolescenti. 19 migranti sarebbero stati condotti verso la città. Di tutti gli altri per ora i militari non sono stati in grado di individuare neppure i corpi. Il responsabile della ong Synergie, Azaoua Mamane, ha affermato che su quei camion si erano imbarcate «famiglie intere, per questo fra loro c'erano tante donne e bambini».
In Italia, intanto, dopo il deludente vertice europeo sull'immigrazione, la strage di Lampedusa rischia già di essere dimenticata fino al prossimo disastroso naufragio a due passi dalle nostre coste (ieri una nave della marina militare ha recuperato altri 97 migranti, fra cui 10 bambini, a bordo di un gommone al largo di Lampedusa).
Il neonato Comitato 3 ottobre ha presentato alla Camera e al Senato una proposta di legge per istituire la «Giornata della memoria e dell'accoglienza» ad ogni anniversario della strage. Si tratta di un testo di due soli articoli che ha già raccolto oltre 6.000 adesioni su facebook (gruppo Accoglienza) e ha ottenuto il sostegno fra gli altri dell'Alto commissariato per i rifugiati dell'Onu (Unhcr), dell'Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), del Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), di Save the Children, Terres des Hommes, Asgi, Arci, MeltingPot e Legambiente.
L'iniziativa ha l'appoggio deciso del sindaco di Lampedusa Giusi Nicolini: «La nascita del Comitato 3 ottobre, a poche settimane dal drammatico naufragio dell'Isola dei Conigli, è una bella e concreta testimonianza dell'impegno collettivo di quanti vogliono agire perché cambino le politiche dell'asilo e dell'accoglienza e tragedie simili non si debbano ripetere - ha dichiarato Nicolini - per questo la proposta di legge sulla Giornata della memoria e dell'accoglienza ogni 3 ottobre può contare sul pieno sostegno mio e dei miei concittadini».



«La mia marcia in fernale di tre giorni senza acqua»
Avvenire, 29-10-2013
Matteo Fraschini Koffi
«Ci sono persone molto cattive nel deserto», afferma Abdullahi Abdurahman, trentenne magrissimo, ora cuoco in un piccolo bar nel centro storico di Agadez. «Eravamo un gruppo di 30 persone e avevamo una piccola sacca con qualche vestito e delle scatole di sardine – continua a ricordare. – La guida che aveva promesso di portarci in Libia ci ha abbandonato invece tra le montagne dell’Algeria». Non potendo passare con mezzi legali, Abdullahi e i suoi compagni hanno pagato un ragazzo algerino che avrebbe dovuto accompagnarli per una strada più pericolosa ma meno controllata dalle autorità. «Durante il tragitto, sentivamo l’aviazione algerina passarci sopra la testa – racconta il giovane. – Tutti pregavamo affinché gli aerei non bombardassero il nostro veicolo, come a volte accade se si viene scambiati per terroristi o trafficanti di droga».
Dopo due giorni di viaggio, il camion si è fermato. Era notte fonda. La guida ha indicato ai passeggeri un gruppo di luci e ha assicurato: «Quella è la Libia». «Ma non era vero. Eravamo ancora in Algeria – continua Abdullahi. – Il giorno dopo siamo stati attaccati da alcuni banditi armati che, oltre a picchiarci, ci hanno portato via tutto: soldi, vestiti e cibo». Il gruppo di migranti si è allora diviso. Molti hanno preso la via del ritorno, altri, come Abdullahi, hanno continuato: ognuno per conto proprio, scegliendo la strada che speravano li avrebbe portati il più velocemente possibile in Libia. «Ho camminato per tre giorni senza né mangiare né bere», racconta il ragazzo con gli occhi socchiusi, come se tentasse di non rivivere quei giorni di insostenibile sofferenza. «Osservavo i resti dei cadaveri di chi aveva cercato di attraversare il deserto prima di me – spiega – è stato terribile. Io stesso sono quasi morto». Arrivato al confine, alcuni militari hanno regalato ad Abdullahi dei datteri e una maglietta, e gli hanno mostrato la strada verso la Libia. «Mia sorella, che abitava là, mi ha ospitato: ho lavorato a Sabha per due anni. Non avendo, tuttavia, abbastanza denaro per andare in Europa, mi sono trasferito ad Agadez per la via legale – conclude. – Comunque, sarei disposto a rifarlo. Come si può vivere senza lavoro?».


 
La Regione è inerte davanti ai minori non accompagnati
Finiscono nel Cara, senza futuro
Gazzetta del mezzogiorno, 29-10-2013
GIANLUIGI DE VITO
i vivi? E i minori soli, sopravvissuti all'apocalisse del mare? C'è un oblio feroce che aggiunge lacrime alle stragi di migranti lungo le traversate impossibili del Mediterraneo. Tra gli scampati alla morte delle carrette e all'asfissia dei nascondigli nei tir e nei vani motore ci sono migranti con piume spezzate. Forti come una roccia, ridotti a stracci da chilometri di frontiere. Sono pur sempre poco piú che adolescenti, lanciati come meduse alla conquista di un diritto non scritto, ma «universale»: sopravvivere e far sopravvivere alla miseria. Spesso non basta, ci vuole una ragione piú nobile per avere diritti. Ma chi non ha diciotto anni, un diritto ce l'ha eccome: deve essere protetto dal Comune dove è intercettato. Non un parcheggio, ma un'accoglienza che ha tre direttrici: la salute, la cultura, il lavoro.
Gli sbarchi in Sicilia delle ultime settimane e gli arrivi al Porto di Bari registrano un aumento di minori non accompagnati. Siriani (in aumento), africani e afgani (come sempre). Ma il sistema di protezione fa acqua e la Puglia fa gridare alla vergogna. Il caso di Foggia è eclatante tanto quanto i silenzi della Regione, che fin qui non ha mosso un dito per capire, proporre e intervenire. Due referenti della sezione pugliese dell'Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione) Marina Angiuli e Dario Belluccio, hanno firmato una nota nella quale denunciano nel Centro per richiedenti asilo di Borgo Mezzanone a Foggia il «mancato collocamento presso idonea struttura dei minori da parte dei servizi sociali comunali». L'assessore alle Politiche Sociali e delle Famiglie del Comune di Foggia dice di essere in bolletta. Puntualizzano gli attivisti dell'Asgi: «I Cara, come noto, sono centri di accoglienza per richiedenti asilo, ma non sono strutture idonee ad ospitare minori, tanto più se non accompagnati. Anche a norma dell'art 26, comma 6, decreto legislativo 25/2008, infatti, in nessun caso i minori non accompagnati richiedenti asilo possono essere trattenuti presso i Cie, i Cara o i Cda ed il trattenimento è stato equiparato dalla Corte Europea per i Diritti umani a trattamenti inumani e degradanti che configura una violazione dell'articolo 3 della Convenzione Europea per i Diritti dell'Uomo».
Non dovrebbero nemmeno finirci nei Cara. Ma molto spesso «le sommarie ed approssimative procedure di accertamento dell'età nei luoghi di sbarco - scrivono Angiuli e Belluccio - determinano il trasferimento di minori soli come fossero adulti perché erroneamente riconosciuti come maggiorenni, in condizioni dunque di promiscuità ed esposti a rischio di abusi e tratta, oltre che a quello di espulsioni e rimpatrio o "riammissioni" verso Paesi terzi (come la Grecia). In passato, inoltre, i collocamenti in comunità avvenuti con estremo ritardo hanno determinato situazioni di grave pregiudizio per i minori».
Non è una questione che riguarda solo i trasferimenti da Lampedusa a Foggia. Il porto di Bari è da anni meta di passaggio di minori afgani e ora anche siriani in viaggio verso il Nord Europa. E poi anche al Cara di Bari sono segnalati ragazzi non accompagnati: ventidue, quasi tutti africani, nove dei quali ancora in attesa di essere collocati nelle strutture adeguate. I flusso barese di minori soli protetti conta cifre importanti: circa 300 all'an- no per una spesa di 4milioni all'anno. Dal primo ottobre gli arrivi sono stati 29 e l'aumento è stato già segnalato. Ma a differenza di Foggia il Comune di Bari, anch'esso con le casse vuote, non nega la protezione, accollandosi anche le rette di chi non trovando posto in Puglia finisce altrove, né «invita a sottoporre i "sedicenti minori" a "controlli medici specialistici utili all'accertamento più prossimo alla reale età anagrafica"». Come se il lavoro di identificazione fatto dopo lo sbarco e le ordinanze di tutela emesse dal Tribunale per la protezione dei minori fossero baipassibili. Il timore dell'Asgi è che l'intolleranza foggiana non diventi una scorciatoia replicata altrove. Tocca alla Regione evitare che ciò accada. Fin qui, però, dall'assessore Guglielmo Minervini, come dai predecessori, mai un tentativo di monitoraggio e di regia, capace di trovare e distribuire fondi ai Comuni in bolletta. Un dovere intervenire. Per evitare alibi comodi. E soprattutto per dare futuro a chi sulle rive straniere si lancia con il sogno e le tinte di un'altra vita.



Immigrazione: Rompere il circolo vizioso
Il rafforzamento dei controlli alle frontiere europee non serve a fermare l’immigrazione ma la rende più pericolosa. Per risolvere il problema bisogna affrontarlo alla radice sostenendo lo sviluppo dei paesi d’origine.
Diritti globali, 29-10-2013
Khaled Bensalam ha 35 anni e una grande esperienza marittima. Suo padre era un pescatore e in famiglia non hanno mai patito la fame. Ha iniziato da ragazzino a uscire in mare con lui e ha preso in mano il timone da adolescente. Quando la pesca è diventata improduttiva, ha cambiato e si è dedicato al contrabbando di esseri umani. Dalla Tunisia, dove vive, l’Europa non dista molto. Tra l’isola italiana di Lampedusa e la Tunisia ci sono appena 70 miglia, che si coprono in 22 ore di tragitto se il mare è calmo. Tolte le spese (carburante, quanto serve a suo cognato per procurarsi gli affari, e le tangenti alla guardia costiera) due viaggi l’anno di questo tipo gli consentono di vivere in un lusso relativo.
I primi due viaggi del 2012 sono andati lisci. I giornalisti italiani hanno perfino intervistato i suoi passeggeri: su una barca di legno di poco più di 10 metri c’era una cinquantina di migranti che avevano speso mille euro a testa se stranieri, 800 se tunisini, 500 se bambini. Ad aprile Bensalam ha avuto il suo primo inconveniente: mentre si avvicinava a Lampedusa prima dell’alba, il suo barcone è stato investito dal fascio di luce di una pattuglia italiana. Bensalam è stato arrestato e pochi giorni dopo è stato rimpatriato in Tunisia, dove ha trascorso parecchie settimane in carcere. Il barcone gli è stato confiscato, ma lui ha deciso di non demordere e di tornare in attività. Ha preso in prestito dalla famiglia quanto gli serviva a pagare la sua parte e ha stretto affari con una gang locale. Ha comperato un barcone di 18 metri in grado di caricare 300 passeggeri.
Questo in teoria, perché quando alla fine di settembre ha ripreso il mare a bordo trasportava più di 500 persone. Questa volta è andato tutto storto fin dalla partenza: uscendo dal porto sono stati presi a fucilate e i proiettili hanno danneggiato il motore. In seguito la pompa di sentina ha smesso di funzionare. Infine i passeggeri sono stati presi dal panico. Quando la barca è affondata al largo delle coste di Lampedusa il 3 ottobre, circa 350 migranti hanno perso la vita in quella che è diventata la tragedia di Lampedusa. Bensalam è sopravvissuto ed è in attesa di giudizio. Ma quel giorno stesso almeno altre due barche cariche di migranti hanno raggiunto tranquillamente la loro destinazione. Chi non risica non rosica, si dice.
Il contrabbando di esseri umani sta facendo sempre più vittime, ed è motivo di vergogna per il mondo sviluppato. Nel solo mese di gennaio di quest’anno sono annegate lungo le coste meridionali dell’Unione europea quasi duemila persone, più che in tutto l’anno precedente. Il contrabbando di clandestini è diventato oltre tutto un rischio per la sicurezza dei paesi di destinazione, che hanno perso il controllo delle loro frontiere. Per di più l’immigrazione clandestina alimenta un sentimento xenofobo sempre più sfruttato dalla politica.
I governi europei spendono miliardi di euro ogni anno per combattere questo problema. Parecchi stati membri dell’Ue hanno istituito agenzie speciali incaricate di occuparsi dell’immigrazione illegale. Frontex, l’agenzia dell’Ue per la protezione delle frontiere, è attiva dal 2004. Sia nell’Ue sia negli Usa, le frontiere sono sorvegliate con i ritrovati tecnologici più moderni, compresi droni e satelliti. Soltanto nell’Ue lavorano oltre trecento ong, che spesso ricevono sovvenzioni pubbliche. Con quali risultati? Difficile quantificarli, se ci sono. Il numero degli immigrati clandestini che raggiunge il continente è in costante aumento.
Nel suo libro sul contrabbando di essere umani, lo scrittore marocchino Mehdi Lahlou descirve quello che egli definisce il “circolo vizioso” delle politiche anti-immigratorie europee. I politici, seguiti dai media, sfruttano le tragedie come quella del 3 ottobre a Lampedusa per esagerare il problema dell’immigrazione, facendo sì che i governi irrigidiscano e riducano ancor più le opportunità di migrare legalmente. Questo a sua volta induce i migranti a cercare modalità ancora più rischiose per arrivare dove vogliono, aumentando la loro dipendenza dai contrabbandieri. Ed è proprio questo quanto è accaduto quando Spagna e Italia all’inizio degli anni novanta hanno introdotto i visti per i cittadini maghrebini e il Regno Unito è riuscito a fermare completamente il traffico di clandestini via Gibilterra. Lahlou scrive che quasi immediatamente si sono attivati nuovi canali per l’immigrazione, più lunghi e più rischiosi: dal Sahara occidentale alle Canarie e da lì attraverso il Mediterraneo fino all’Italia.
Il fallimento europeo nel risolvere il problema del contrabbando di esseri umani è in buona parte dovuto a un grosso malinteso. Tanto per cominciare siamo in presenza di una confusione lessicale: nel dibattito pubblico “traffico di esseri umani” e “contrabbando di esseri umani” sono definizioni che ormai si equivalgono, quando di fatto le due terminologie indicano fenomeni del tutto diversi. Il “traffico” di esseri umani comporta una forma di schiavitù, mentre il “contrabbando” è volontario. Il rapporto tra il contrabbandiere e la persona che grazie a lui entra clandestinamente in un paese si conclude all'arrivo, mentre quello tra “trafficante” e “schiavo” inizia a destinazione.
Le politiche migratorie dell’Ue si sono concentrate per molto tempo sui “contrabbandieri”, ovvero su chi fornisce un servizio illegale. In seguito alla sciagura di Lampedusa il primo ministro italiano Enrico Letta ha auspicato l’approvazione di un nuovo pacchetto legislativo “aria-mare”, in virtù del quale l’Italia metterebbe in campo il triplo degli aerei e delle navi che sorvegliano il tratto che separa l’Africa dalla Sicilia per combattere il contrabbando. Ma anche così gli effetti potrebbero essere controproducenti.
In questo ambito è la domanda (gli immigrati potenziali) a far lievitare l’offerta (i contrabbandieri). Finché dall’Africa centrale, dall’Afghanistan e dal Messico ci saranno persone decise a lasciare i loro paesi alla ricerca di una vita migliore, ci saranno sempre persone disposte ad aiutarli in cambio di una cifra ragionevole, a prescindere dalle difficoltà.
Secondo gli esperti di immigrazione, l’unico modo per fermare il contrabbando di esseri umani in Europa – o quanto meno ridurne il flusso – sarebbe quello di creare condizioni tali nei paesi di origine degli aspiranti migranti da far sì che nessuno provi più il desiderio di abbandonarli. In altre parole, garantire che riescano a procurarsi il lavoro che sperano di ottenere raggiungendo l’Europa. Questo, però, implicherebbe di aprire il mercato europeo – soprattutto dei generi alimentari – ai prodotti di regioni come l’Africa del nord, cosa che per motivi politici è impossibile. L’Ue spende ogni anno cento milioni di euro per proteggere le proprie frontiere con Frontex: si tratta di una cifra di 600 volte inferiore a quanto spende nella sua Politica agricola comune. In conclusione, se gli europei non vogliono i cavoli tunisini in Europa, prima o poi dovranno accettare i tunisini in carne e ossa.
fonte: scritto da Polityka (da Presseurop) | 28 Ottobre 2013
Traduzione di Anna Bissanti



"Noi, genitori migranti dei figli del naufragio"
la Repubblica, 29-10-2013
FRANCESCO VIVIANO ALESSANDRA ZINITI
LA VALLETTA
una busta di plastica che nascondono sotto i vestíti e che ha resistito al naufragio. Hanno le foto, hanno le fotocopie dei documentí. È l'unico "tesoro" di sei genitori che da 17 giorni cercano notizie dei loro bambini.
SAPETE qualcosa dei nostri figli? Sono vivi o morti? Ecco, sono i nostri figli, è una foto che abbiamo fatto tutti insieme nella nostra casa di Damasco, prima di partire».
Piangono, implorano, Ahamd Ali Chahibi, 33 anni, e sua moglie Najat Ibrahim Nassav, 23 anni, mentre il nostra sguardo si fissa su quei piccoli volti che conosciamo bene. Perché i bambini che Ahamde Najat cercano sono Yara, Youssuf e Yassam, i due gemellini di tre anni e il piccolo di dieci mesi che, insieme ad altri tre piccoli siriani, sono sani e salvi nella casa per minori Walden di Menfi. Sono loro, senza alcun dubbio. I genitori mostrano la fotocopia dei loro passaporto con su stampate le foto di quelle due inconfondibili testoline ricce. «Sono tutti vivi, stanno bene, eccoli qui...».
Mostriamo loro la foto dei bambini in braccio agli operatori dell'istituto Walden. Ed è un'esplosione incontenibile di emozione e di gioia. Ahamd e Najat piangono, ridono, si abbracciano, ci abbracciano. Ma un attimo dopo tornano seri: «Ci sono altri genitori che erano con noi sul peschereccio naufragato e cercano i loro figli, qui nessuno ci dice niente. Aiutate anche loro, vi prego».
La notizia che Yara, Yossuf e Yassam sono vivi si sparge subito nel centro di accoglienza di "Alfaa" che ospita un centinaio di superstiti di quel naufragio. In tanti sperano che i cronisti possano fare quello che fino ad ora le autorità non hanno fatto: fargli ritrovare i loro figli. E il miracolo avviene nel cortile della moschea di Paula. Anche gli altri tre bambini hanno ancora una famiglia: sono qui anche Aisha e Kazem,i giovanissimi genitori di Maram, 18 mesi, e sono qui anche due uomini disperati che ritrovano il sorriso, perché Hatim Shaban e Mohamed Alhasi, nel naufragio dell'11 ottobre, hanno perso le mogli e altri tre figli ma oggi ritrovano Karim, sette anni, e Mamud, tre. Non ci sono più orfani all'istituto Walden, non ci sono più bambini senza nome e senza storia.
E la vera storia di quell'incredibile salvataggio che haportato i sei piccoli superstiti su una sponda diversa dei Mediterraneo da quella dove sono finiti i loro genitori la racconta Kazem, il papá della piccola Maram. È stato lui a salvare tutti e sei i bambini che erano finiti in acqua. «Galleggiavano dentro i salvagente, gridavano cercando il papá e la mamma che non vedevano più. Li ho presi ad uno ad uno, li ho tirati fuori dall'acqua e issati sulla zattera che ci avevano lanciato dall'elicottero. Mia moglie teneva Maram tra le braccia quando è arrivatala nave militare. Ho provato a fare salire anche lei, ma non l'hanno voluta, hanno preso soltanto i bambini e sono andati via dicendoci: "State tranquilli, anche voi ora sarete portati a Lampedusa". E invece la mattina dopo ci siamo ritrovati a Malta senza i bambini. E da allora nessuno ci ha mai più dato notizie loro».
Nell'ufficio dell'imam della moschea ci sono anche due giovanissimi vedovi. I papá di Karim e Mamud hanno perso en- trambi la moglie e altri due figli di 4 e 5 anni. E adesso, con le lacrimeche inondano i loro tristissimi occhi, non nascondono la fretta di poter riabbracciare quel che resta delle loro famiglie distrutte e lanciano un disperato appello al governo italiano. «Perché ci tengono ancora qui? Perché non ci consentono di andare in Italia a vedere i nostri figli? Facciano pure tutti i controlli che vogliono, l'esame del Dna, ma non si possono lasciare dei genitori ad aspettare ancora. Facciamo appello alla coscienza di chi governa in Italia. Anche loro sono padri e madri. Pensino ai nostri figli che ci credono tutti morti, mentre invece almeno un padre ce l'hanno. Questa è una tortura, vi prego, aiutateci», dice Hatim Shaban, il papà di Karim. Il suo è un racconto da brivido: «Quando la barca è affondata siamo finiti tutti in mare, avevamo tutti il salvagente, ma quello che indossava Hassan era troppo grande e lui è scivolato fuori dal giubbotto. Io tenevo Aida, ho tentato di prendere anche Hassan, era finito tra le mie gambe e ho tentato di tirarlo su. Ma non ce l'ho fatta, mia moglie era già scomparsa, mi sono ritrovato accanto solo Karim e il piccolo Mohamed. Ma poi sulla motovedetta non ho più trovato Karim».
Si tiene la testa tra le mani Mohamed Alhaji, 33 anni, elettricista e studente di Giurisprudenza, il papà di Mamud. Anche lui ha perso la moglie e due figli: «Quando la barca si è rovesciata eravamo a prua, anche noi avevamo il salvagente, ma mia moglie si è attaccata ad un corrimano e non voleva staccarsi. L'ho strattonata, l'ho pregata di buttarsi in mare con noi, ma lei era terrorizzata e definita in fondo al mare insieme agli altri due bambini. Ora voglio solo Mamud».
Per riabbracciare subito i loro figli sono disposti a tutto, anche a rimettersi su un altro maledetto barcone se le autorita italiane e maltesi non li aiuteranno. Tutto è nelle mani della direzione generale dell'immigrazione che fa capo al ministro Cécile Kyenge. È a questo ufficio che il testo unico per l'immigrazione demanda la responsabilità del ricongiungimento dei minori non accompagnati con le loro famiglie.



Migranti in Europa: il Comitato internazionale della Croce Rossa attiva una rete online per ritrovare i migranti dispersi.
Pensato per le famiglie in cerca dei loro parenti dispersi in Europa ma anche per i migranti stessi.
Immigrazioneoggi, 29-10-2013
Le recenti tragedie in mare che hanno toccato l’Italia e che hanno portato anche all’attivazione dell’Unione europea portano con sé drammi che non si esauriscono solo nella conta dei morti, ma spesso anche dei dispersi. Ogni anno centinaia di famiglie si rivolgono alla Croce Rossa e alla Luna Rossa da tutto il mondo per cercare familiari di cui si sono perse le tracce nel loro tentativo di raggiungere l’Europa per un futuro migliore o anche dopo averla raggiunta.
Il Comitato internazionale della Croce Rossa, in collaborazione con la Luna Rossa, ha pertanto attivato una rete, a livello internazionale, che permette alle famiglie dei dispersi di poter pubblicare le foto dei loro congiunti e diramare appelli per poterli ritrovare. Il Restoring Family Links Network offre un bacheca online di ricerca dei dispersi e la possibilità di condurre le ricerche anche attraverso campagne, come quelle poster della Croce Rossa, in diversi Paesi europei. Si tratta di una iniziativa dal doppio effetto perché non permette solo ai familiari di cercare i loro congiunti, ma permette anche di informare queste persone disperse o altresì in difficoltà di sapere che i loro familiari li stanno cercando e di fornire loro un modo per poterli contattare.
Le difficoltà che le famiglie incontrano nelle loro ricerche sono molteplici, a cominciare dal fatto che le persone immigrate in Europa, in particolar modo se irregolarmente, spesso non hanno fissa dimora e si spostano continuamente. Inoltre, molti potenziali rifugiati scelgono di non registrarsi negli uffici competenti per motivi di sicurezza e spesso le difficoltà linguistiche rendono lunghe e complesse le procedure di registrazione per chi decide di farlo e, a volte, i nomi non si identificano facilmente.
Proprio per tali ragioni, questa rete può facilitare la riunificazione delle famiglie e il ritrovamento di quanti, nei loro lunghi viaggi della speranza, fanno perdere le proprie tracce.
Per maggiori informazioni circa il servizio, le modalità per usufruirne e i Paesi aderenti al progetto, visita il sito (in lingua inglese).
(Samantha Falciatori)



Milano. Boom di disoccupati tra i lavoratori stranieri
In un anno sono aumentati del 169%. Le condizioni occupazionali variano in base a residenza, genere e Paese di provenienza. Il rapporto della Provincia di  Milano
stranieriinitalia.it, 29-10-2013
Milano – 29 ottobre 2013 - La crisi ha fatto vittime tra gli immigrati, peggiorando il loro status economico e sociale, tanto in Lombardia quanto a Milano e Provincia. In entrambi i territori, tra il 2006 e il 2012  la quota occupati è diminuita di oltre 2 punti percentuali: dal 52,5% al 50,2% in Lombardia, dal 53,6% al 51,2% nel milanese.
Il tasso di occupazione a tempo indeterminato scende dal 34,3% al 30,1% nel capoluogo lombardo e dal 39,4% al 33,6% nei comuni di provincia. In Lombardia il dato si assesta al 32,5%. Calano contestualmente anche gli immigrati impiegati irregolarmente: in Lombardia sono il 9,7%, nel territorio provinciale il 12,0% (10,8% a Milano e 13,5% nei comuni extra-capoluogo).
Sono alcuni dei dati della ricerca "Il mercato del lavoro immigrato in provincia di Milano" realizzata da Provincia e Fondazione Ismu, da oggi disponibile online.
A conferma di questi trend negativi, da una parte, il forte aumento annuale del tasso di disoccupazione, passato tra il 2011 e il 2012 dal 7,2% al 19,4% (+169%) a Milano città e dal 10,5% al 13,5% (+23,9%) nelle municipalità dell'hinterland; dall'altra, l'ampliamento della quota di soggetti in cerca d'impiego, che lo scorso anno valeva il 5,8% a Milano e provincia e il 5,6% in Lombardia.
La domanda di lavoro immigrato a Milano e provincia si concentra nel comparto dei servizi (53,1%), del turismo (23,5%), dell'industria e delle costruzioni (12,8%) e del commercio (10,6%). Il turismo è tuttavia il solo settore in cui vi è una netta preferenza (41,1%) da parte dei datori di lavoro per personale di origine straniera.
La professione più diffusa tra gli stranieri occupati è quella di addetto alla ristorazione e agli alberghi, con quote superiori all'11% sia nel capoluogo, sia nei comuni di provincia. Seguono le figure di operaio edile (9,5%) e operaio generico nell'industria (7,1%) a Milano città; quelle di domestico a ore (9,7%) e assistente domiciliare (9,0%) nell'hinterland.
E' in ogni caso evidente come all'interno della popolazione straniera le condizioni occupazionali mutino a seconda della zona di residenza, del genere e della provenienza.
Per esempio, le disparità tra uomini e donne, sebbene mitigate dalla congiuntura economica negativa, restano evidenti. Nel 2012, il tasso di attività maschile (63,1%), pur in decrescita rispetto ai dati del 2006 (64,8%), resta nettamente superiore a quello femminile, che negli ultimi anni è comunque cresciuto, assestandosi al 48,5%. Gli uomini risultano sì maggiormente soggetti alla disoccupazione (25,5% vs. 11,8%) e all'occupazione irregolare (12,5% vs. 8,7), ma presentano allo stesso tempo una maggiore propensione al lavoro autonomo e all'imprenditorialità (11,4% vs. 4,7%).
Rilevanti sono anche le differenze sul piano etnico: nel 2012, i latini presentano tassi di disoccupazione (13,8%) e di occupazione irregolare (4,6%) più bassi, e si distinguono anche per quote consistenti di occupazione a tempo indeterminato; al contrario, gli est europei non comunitari e gli africani sub-sahariani incontrano serie difficoltà lavorative, con una forte disoccupazione ed elevate quote di lavoro irregolare.
In costante ascesa in tutta la Lombardia il numero delle imprese straniere, che si caratterizzano per tassi di natalità più elevati, tassi di mortalità più contenuti e, di conseguenza, per tassi di crescita più accentuati. Esse hanno infatti una durata media di 85 mesi (svettano quelle i cui titolari sono marocchini, 158 mesi, ed egiziani, 143), di ben 9 mesi superiore rispetto a quella delle imprese a titolarità italiana.
Nel 2012 l'incidenza dell'imprenditoria straniera è  più elevata nelle telecomunicazioni (69,3%), nei servizi postali e attività di corriere (53,4%) e nei servizi per edifici e paesaggio (50,8%).
Queste dinamiche, l'etnicizzazione di alcuni settori produttivi e i differenti tassi di crescita, hanno portato, nella fase oggetto di studio, ad un progressivo processo di sostituzione degli imprenditori italiani da parte di quelli stranieri. Nel 2006, a Milano e provincia, gli immigrati titolari d'impresa erano 18.954, il 15,1% del totale. Sei anni dopo, nel 2012, se ne contano 26.153 su 118.764, il 22%. A fronte delle 7.000 unità in più tra gli stranieri, fa da contraltare la contrazione del numero di imprenditori italiani: -14.000. In provincia di Milano ha inoltre sede il 26% delle imprese a gestione straniera con base in Lombardia.

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