Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

16 gennaio 2014

Basta Cie Identificare gli immigrati nelle carceri
l'Unità, 16-01-2014
Italia-razzismo
Negli ultimi mesi i Centri di identificazione ed espulsione hanno spesso fatto notizia e l'occasione per parlare dei Cie è solitamente data da proteste o rivolte che accadono al loro interno. Che i Cie siano privi di efficacia rispetto al fine previsto dal legislatore lo dicono i dati: solo il 46% dei trattenuti in quei centri viene rimpatriato e questi rappresentano solo l'1% degli immigrati irregolari nel nostro Paese.
Un sistema dispendioso e inutile ma, prima di questo, un sistema disumano che ci porta a dire, ormai da tempo, che quei centri andrebbero semplicemente e definitivamente chiusi. Purtroppo questo non avverrà a breve, ma c'è almeno una questione su cui si può intervenire subito. La popolazione che transita all'interno dei Cie è composta, per la maggior parte, da persone che provengono dal carcere. Finito di scontare la pena, cioè, uomini e donne che hanno ricevuto provvedimenti di espulsione amministrativi, iudiziari,
o entrambe le cose, vengono portate nei centri per essere identificate ed espulse. La domanda che può venire in mente anche a un non esperto in materia è: una persona che è stata in carcere come può avere bisogno di essere ancora identificata?
Il problema, per l'identificazione ai fini dell'espulsione, è la collaborazione del consolato del Paese di cui la persona è cittadina. Dopo il riconoscimento del console, questi prepara il documento di viaggio necessario per effettuare il rimpatrio.
Per questa procedura può volerci molto tempo, e nel nostro Paese è contemplato il trattenimento per 18 mesi, mesi che in questo caso si sommano a una pena detentiva già scontata, dando l'impressione allo straniero di essere punito due volte. È per questo che all'interno del cosiddetto decreto «svuota carceri» il governo ha proposto delle modifiche al Testo unico sull'immigrazione, proprio per ovviare al problema della «doppia detenzione». Secondo l'Asgi,l'associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione, la proposta del governo potrebbe essere più efficace. Nel decreto, come nota l'Asgi nelle sue osservazioni, l'identificazione dello straniero in carcere viene proposta solo per chi è destinatario di espulsione a titolo di sanzione mentre per gli altri - coloro i quali hanno un'espulsione amministrativa o giudiziale per motivi di sicurezza - continuerebbero a transitare nei Cie. È inutile, poi, gravare di decreti di espulsione persone che si fa fatica a rimpatriare, in quel caso sarebbe meglio sospendere l'espulsione momentaneamente ineseguibile e, nel caso di pericolosità sociale,
convertirla con una differente misura di sicurezza. In concreto, ciò che prima era di competenza del ministero dell'Interno, cioè gli accordi con i vari consolati per l'identificazione, adesso deve essere condiviso con il ministero della Giustizia, così da agevolare il riconoscimento per tutti durante il periodo di detenzione in carcere. Se ciò avvenisse, non sarebbe cosa da poco: gli stranieri ex detenuti rinchiusi nei Cie sono quasi il 70%.



Stallo sull’abolizione del reato di clandestinità Il partito di Alfano fa muro: non c’è accordo
La mediazione del Pd: cancellarlo a condizione che non venga reiterato
Corriere della saera, 16-01-2014
Virginia Piccolillo
ROMA — Afonia provvidenziale per Felice Casson. Relatore del provvedimento sull’abolizione del reato di clandestinità, con il quale la maggioranza parlava a troppe voci, ha perso la sua. E ottenuto un rinvio. Tattico.
Il leghista Massimo Bitonci, pur esprimendo solidarietà a Casson, ha provato a dirlo in Aula: «La maggioranza è in difficoltà per merito della Lega». Subito redarguito, con una battuta, da Maurizio Gasparri: «Non si prenda il merito del malessere di Casson o si fa una cattiva fama».
Ma è lo stesso Maurizio Sacconi, presidente dei senatori del Nuovo centrodestra, ad ammettere con il Corriere , in serata: «L’intesa ancora non c’è. Noi siamo favorevoli a un intervento sulla Bossi-Fini ma solo per andare nella direzione di rendere più efficace e veloce l’espulsione coatta. Attualmente la norma prevede il nulla osta del magistrato, noi siamo anche interessati a ragionare sul modo in cui si può rendere più tempestiva la pratica di espulsione. Ma il rigore deve restare nei confronti di chi scappa e chi si sottrae».
Idea molto diversa da quella espressa nell’emendamento al provvedimento sulle pene alternative al carcere presentato in commissione Giustizia dal Movimento 5 Stelle, e passato con il via libera del governo (il sì espresso dal sottosegretario alla giustizia Cosimo Ferri) e della maggioranza.
Il Pd è ancora su quella linea. Spiega Luigi Zanda: «Il testo varato dalla commissione Giustizia, che prevede la depenalizzazione del reato di clandestinità, è buono e ora va approvato dall’aula. Il reato di immigrazione clandestina non ha prodotto alcun beneficio, né al nostro Paese, né agli immigrati. È quindi sufficiente garantire la sanzione amministrativa». Gli alfaniani no: «Serve un intervento del governo perché questa materia deve far parte del pacchetto immigrazione», dice Sacconi.
La Lega intanto suona la grancassa della protesta. Dopo essere intervenuti in aula per 20 minuti ciascuno bollando il testo come «pericoloso», «vantaggioso per i delinquenti» e «indulto mascherato», tutti i senatori del Carroccio hanno sventolato la Padania . E alla fine hanno rivendicato l’afonia di Casson. Contraria anche Forza Italia.
Il Pd per tutto il giorno ha cercato una mediazione con l’Ncd. Individuandola in un «lodo» che prevedeva l’eliminazione del reato di clandestinità a condizione che non venisse reiterato. Ma a tarda sera le posizioni erano ancora distanti. E non solo su questo. Con il Pd interessato ad aprire di più i flussi di ingresso e rendere più facile la cittadinanza. E gli alfaniani a difendere il rigore sui flussi regolari e ad osteggiare ogni automatismo sullo «ius soli»: il diritto di cittadinanza per chi nasce in Italia.
Come se ne uscirà? Ieri a Palazzo Madama circolava la voce di richieste di voto segreto in arrivo. «Lo chiederanno di certo. Perché i colleghi della maggioranza non hanno il coraggio di scegliere», assicurava ieri Alessio Cioffi del Movimento 5 Stelle, molto fiero del fatto che l’emendamento, inizialmente criticato da Beppe Grillo, fosse alla fine stato approvato dal referendum online («Visto che la democrazia interna nel nostro movimento esiste?»). «Il nostro emendamento — fa notare Cioffi — non fa altro che levare un pezzettino della Bossi-Fini. Quella bandierina che era stata sventolata dalla Lega per far leva sulla paura dell’immigrato. Ma che non ha effetti. Introduce solo fascicoli che si aprono, ingolfamenti dei tribunali, spese per i giudici di pace e gli avvocati d’ufficio per i clandestini che devono pagare gli italiani. Allora, diciamo noi, interveniamo in maniera razionale e invece di cercare indulti depenalizziamo».



L'INTERVISTA
Aldo Bonomi
«Non sono affatto battute, il pericolo del razzismo esiste»
Per il sociologo non vanno sottovalutati gli attacchi alla ministra:«La politica deve intervenire. Non si può tacere o ignorare quantosta avvenendo»
l'Unità, 16-01-2014
ORESTE PIVETTA
Milano- Razzismo alle porte, cioè in Europa, razzismo in casa? La crisi ci regala anche questo? Aldo Bonomi, sociologo, direttore dell’Istituto di ricerca Aaster, cerca un termine che attenui la sensazione e che ci aiuti a misurare la storia nostra
politica e «territoriale», in una stagione in cui ci sentiamo (cito una definizione da uno degli ultimi libri di Bonomi, «Elogio della depressione», scritto per Einaudi insieme con lo psichiatra Eugenio Borgna): «vulnerabili e impoveriti». La parola di Bonomi è: «rancore». Con questo ci rimanda al cammino della Lega: le origini conflittuali, la fase del governo e della istituzionalizzazione, il ritorno all’opposizione, le rotture interne e il ricambio in un periodo di profonda crisi del paese.
Come rubricare, professor Bonomi, le offese a Cécile Kyenge, l’insistenza odiosa nei confronti del ministro, gli incitamenti di Salvini e della Padania, i trucchi di Maroni per non chiedere scusa e infine pure gli “abbronzati senza bisogno di trucco”, di berlusconiana memoria, di un ex sottosegretario al lavoro?
«Intanto non rubricando certe espressioni certi atteggiamenti, certe parole come battute. Sono battute che allarmano e che pongono una questione, che la politica alta, dico alta, dovrebbe mettere in agenda. Non si può tacere, ignorare, accantonare, perché il pericolo del razzismo esiste nel momento in cui non si teme di usare un determinato linguaggio o quando si mettono sotto tiro persone solo per la diversità del loro colore».
Si è sempre detto, lo sostenevano Laura Balbo e Luigi Manconi in un libro del 1990, “I razzismi possibili”, chel’Italia è un paese a forte rischio di razzismo, come di mostrano le sue leggi razziali, il suo maschilismo, la sua omofobia… Sarebbe stato sufficiente che il razzismo incontrasse il suo imprenditore politico. La Lega lo è stata imprenditore politico del razzismo? Potrebbe esserlo ancora?
«Ripensiamo alla nascita in un altro secolo della Lega, movimento intanto territoriale, che si autodefinisce facilmente
nella sua geografia, che raccoglie una protesta, che ha pure ragioni d’essere, che interpreta lo spaesamento di una parte del paese, di un ceto sociale che non si sente rappresentato e che si ricolloca quindi nella dimensione di quella che io chiamo società del rancore, che si esprime nell’autodifesa, nella chiusura territoriale, nel mito della Padania o delle ‘valli’, e nella individuazione dei nemici, degli estranei, nemici ed estranei da un punto di vista proprio della provenienza territoriale. Di questo, appunto, la Lega si fa imprenditore politico, del rancore di chi si sente tradito…».
Che dire dei recenti scandali, della fine del regno di Bossi, del declino?
«Uso per la Lega il motto ‘declinar vincendo’: perde voti ma riesce a conquistare la Lombardia, a riaccendere la fiammella della macroregione, con il Veneto e il Piemonte, in questo modo dando la sensazione di poter scavalcare i travagli interni.Ma la crisi economica riporta indietro, al rancore, tra micro conflitti territoriali e nel senso di una ricomposizione sociale i cui protagonisti io sento provenire ‘più dai campi che dalle officine’. Uno strano popolo di agricoltori, artigiani, piccoli imprenditori, camionisti, che documenta un disagio autentico. C’è la Lega in mezzo? Loro, i forconi, insistono a dichiararsi non quotabili sul piano della politica. Ma è ancora di rancore che si deve parlare, come fu al sorgere delle prime proteste leghiste, un quarto di secolo fa. Se poi quel rancore possa diventare razzismo è difficile prevedere. Quegli italiani portavoce del proprio rancore sono ormai prossimi al razzismo? Rispondiamo che sono bordeline. Dipende dalla politica. Dalla politica alta.
Certo che i leghisti alla Borghezio potrebbero ritrovare la voce che avevano via via smarrito. Il cammino della Lega in Europa, l’inseguire movimenti di destra, l’abbraccio con Marie Le Pen rafforzano i contenuti alla Borghezio… Se ne tenga conto».
Il terreno sarebbe fertile nella crisi che continua. Se latita la responsabilità politica, l’erosione dei legami sociali apre varchi enormi al peggio, che può essere qualunquismo, populismo o razzismo. Che cosa pensa di quella valanga di insulti sessisti e razzisti che tracina tra siti on line, blog, facebook, eccetera eccetera? A proposito di qualsiasi argomento, anche
politico…
«È la dimostrazione di quanto in questo ventennio siano cambiati anche i codici della politica e dello spazio pubblico. La
rete è uno straordinario catalizzatore, un luogo accessibile, a disposizione di tutti, aperto a qualsiasi protagonismo,
nel segno di un individualismo che cerca di imporsi all’attenzione, sapendo che per questo bisogna alzare i toni. Non trascuriamone il significato”.



Il colore delle critiche
Il Giornale,16-01-2014
Marcello Veneziani
Non so se la Kyenge sia contestata dai leghisti perché è negra. Ma so che la Kyenge è ministro solo perché è nera. Non ha alcun titolo e competenza per occuparsi di immigrazione, non è neanche una figura di spicco diventata ministro per la sua carriera politica. È li solo perché è nera. Non dico che sia l'eccezione del governo, anzi la pecora nera, perché mezzo governo, di oggi come quelli di ieri, è li per meriti misteriosi. Penso che i leghisti e le destre abbiano tutto il diritto di contestare la sua politica dell'immigrazione perché lei non si pone dal punto di vista dell'Italia, ma dei migranti. Questo non c'entra un tubo col razzismo. Se il discorso si sposta sul piano personale, Cécile Kyenge è una persona gradevole, colta, anzi troppo colta per rappresentare davvero la massa degli immigrati e sicuramente più colta e civile di molti esponenti leghisti. Reagisce in modo composto e accorto agli attacchi, sa che per lei nera funziona da dio essere contestata, meglio se in modo rozzo, e rispondere con garbo. Il nodo è qui: contestare il suo ruolo pubblico, ma rispettare la sua persona, come ogni persona, anzi nel suo caso di più e non perché nera ma perché educata. E tener fuori ogni discorso di razza, colore e zoologia. Amerei vivere in un Paese dove il colore della pelle non è motivo di discriminazione né di carriera, dove provenire dal Congo non è titolo di colpa né di merito e dove un ministro ha come priorità l'interesse generale del mio Paese e degli italiani. Non dei padani, degli italiani.



Interverti & Repliche
Le politiche sull'immigrazione
Corriere della sera, 16-01-2014
Ho letto con perplessità il fondo del professor Angelo Panebianco sulle politiche dell'immigrazione (Corriere, 13 gennaio). Si tratterebbe ïn sostanza, superando le ipocrisie che sono vere e che mascherano spesso opportunismi di aree politiche finalizzate all'acquisizione di consenso, di adottare una politica realística fondata sulla convenienza, in contrapposizione ad una cosiddetta politica «dell'accoglienza» che non potrebbe, di fatto, costituire un criterio razionale cui ispirarsi. Devo in primo luogo chiarire e lo faccio da tempo, ma con scarso successo, la differenza sostanziale tra i migranti richiedenti asilo e migranti per motivi economici: diversi sono gli obblighi del nostra Paese nei confronti di queste due categorie di persone. Per i richiedenti asilo è in fase avanzata una politica comune dei Paesi dell'Unione, mentre la migrazione economica rimane nella piena sovranità delle politiche nazionali. Oggi i temi dell'asilo e della protezione internazionale o sussidiaria, cioè i titoli che danno diritto all'accoglienza nel nostro Paese e soprattutto ci impongono il dovere di fornire assistenza e servizi, è materia trasferita alle Autorità dell'Ue attraverso una cessione di sovranità che in parte abbiamo recepito o stiamo recependo. Di fatto il tema dell'asilo è ormai sottratto alla competenza degli Stati membri. E allora per questa categoria di persone (chi proviene, ad esempio, dalla Somalia, dalla Siria, dall'Eritrea e da alcune regioni della Nigeria) non si può parlare né di convenienza, né di accogiienza, ma del dovere di offrire diritti che sono stati negati nei Paesi di origine con una politica di integrazione all'altezza degli standard di civiltà di un Paese come l'ltalia. Diverso appare il discorso relativo alla migrazione economica dove al termine convenienza usato dal prof. Panebianco preferirei il termine sostenibilità del nostra sistema socio-economico. La ricchezza di un Paese e parlo non solo di economia, ma di cultura, innovazione e complessivamente di vitalità è data proprio dalla capacita di fare sintesi delle peculiarità di altre culture: questa è stata la nostra storia di cui, peraltro, andiamo orgogliosi. Cosi faccio davvero fatica a immaginare che si possa pensare di favorire una componente religiosa rispetto a un'altra, tradendo di fatto i nostri valori costituzionali, mentre considero effettivamente realistico regolare i flussi di ingresso della migrazione economica sulla base dell'effettiva disponibilità del mercato del lavoro.
Mario Morcone
Ex capo dipartimento dell'immigrazione del Viminale
Chiariamo un equivoco, io non ho affatto parlato di profughi proprio perche, come scrive il prefetto Morcone, è un tema che non sta nella disponibilità dei singoli Stati. Né ho toccato la questione dei diritto d'asilo. Parlando di politica (statale) dell'immigrazione mi ríferívo, esclusivamente, al controllo dei flussi di mano d'opera. È in questo ambito che, se lo si vuole, è possibile fare scelte. Siamo almeno d'accordo (per fortuna) sul fatto che i flussi di ingresso debbano essere regolati sulla base della disponibilità del mercato del lavoro. Il disaccordo riguarda il fatto se sia preferibile o meno incentivare l'immigrazione da certi Paesi piuttosto che da aItri sulla base della maggiore affinità culturale. Al fine di minimizzare i rischi di futuri possibili conflitti. Si può pensarla come si vuole ma, almeno, dovrebbe essere lecito discuterne liberamente. Il nostra dibattito pubblico è già cosi sovraccarico di tabu, di temi che in tanti evitano di toccare, che non mi pare proprio il caso di aggiungerne un altro.
Angelo Panebianco

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