Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

15 luglio 2010

«Siamo profughi, aiutateci» Messaggio disperato da Brak
l'Unità, 15-07-2010
Umberto De Giovannangeli
Frattini aveva esultato: grazie all'Italia i 250 eritrei segregati nel lager di Brak sono tornati liberi. Tre giorni dopo, la drammatica testimonianza di uno di loro: siamo ancora qui, in balia dei militari...
ROMA.-Per Maroni il caso non è mai esistito. Per Frattini, il caso è stato brillantemente risolto grazie alla mediazione italiana e all'amicizia che lega il Cavaliere e il Colonnello. La realtà è un'altra. Questa: «Siamo stati fotografati e abbiamo riempito i formulari che ci hanno imposto le autorità libiche. Abbiamo sentito che saremo liberati ma non sappiamo quando e non sappiamo come, non sappiamo se davvero ci daranno un lavoro ma nulla viene fatto seguendo il nostro volere, tutto è imposto con la forza, nel campo ci sono solo militari e nessuna autorità che ci dia informazioni». È la testimonianza di Daniel, uno dei 250 rifugiati eritrei ancora prigionieri del governo libico nel campo di Brak, raggiunto telefonicamente ieri mattina da CNRmedia.
SOFFERENZA CONTINUA
«Acqua e cibo sono molto scarsi -prosegue Daniel - so che stanno preparando dei documenti per noi. Molti avevano provato a raggiungere l'Italia l'anno scorso, ma sono stati respinti e rimandati in Libia. Abbiamo bisogno di protezione internazionale che tuteli i nostri diritti. Non cerchiamo un lavoro, non siamo immigrati in cerca di lavoro, siamo rifugiati politici e chiediamo che sia riconosciuto il nostro status, chiediamo protezione internazionale, chiediamo di essere riconosciuti e rispettati come profughi che chiedono asilo, non come gente obbligata a lavorare qui per tre anni. Nessuno ci ha fatto visita, non abbiamo visto assistenza medica, acqua e cibo sono scarsi, chiediamo solo di essere rispettati». GIALLO LIBERAZIONE «Non ci risulta che qualcuno sia stato liberato dal campo di Brak. Non sappiamo quando avverrà, come non sappiamo quali siano le modalità di attuazione dell'accordo annunciato anche dal governo italiano
mercoledì scorso», ha denunciato l'altro ieri il direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir) Christopher Hein. «Non sappiamo nemmeno - ha aggiunto - le modalità di identificazione delle persone, e questo è molto importante. Sappiamo che Gheddafi ha chiesto un'indagine su tutta la vicenda, ma in Libia quando si fa un'indagine si blocca tutto. Ben venga l'impegno di Gheddafi ma se questo significa che la situazione di queste persone rimane invariata e che qualsiasi soluzione viene rimandata alle calende greche, allora questo non va bene».
Un rapporto difficile ma necessario: così la commissaria Ue per gli Affari interni, Cecilia Malmstrom, ha definito ieri lo stato delle relazioni tra la Libia e l'Ue. «Abbiamo mosso i primi passi» per far progredire le relazioni tra Bruxelles e Tripoli, ha affermato la commissaria ribadendo la sua disponibilità, se ce ne saranno le condizioni, a discutere con la controparte libica di argomenti sensibili come la salvaguardia dei diritti umani e la lotta  all'immigrazione OH clandestina. Per Malmstrom -che oggi incontrerà a Bruxelles l'Alto commissario Onu per i rifugiati Antonio Guterres - occorre comunque puntare alla definizione di accordi multilaterali con la Libia andando così oltre quelli bilaterali Roma-Tripoli. Puntando sull'accertamento della verità. E lo smascheramento delle bugie. L'altro ieri il ministro degli Esteri libico, Moussa Koussa, aveva confermato alla commissaria Ue agli affari interni, Cecilia Malmstrom, incontrata a Bruxelles, l'intenzione di liberare i 250 eritrei detenuti nei campi libici. «Il ministro ha detto che hanno intenzione di farlo», aveva riferito all'Ansa una fonte presente all'incontro. Sono passati tre giorni. E di questa asserita liberazione non c'è traccia. Lo sa Frattini? E cosa ne pensa? E che cosa ne è della «preziosa mediazione» italiana? La farsa continua...



Una vergogna. L'Italia li accolga subito e cessi i respingimenti

l'Unità, 15-07-2010
Rita Borsellino
Profughi torturati e imprigionati. Il governo è complice Il ministro Maroni conferma di averli consegnati a Gheddafi in modo indiscriminato, senza rispettare le nostre leggi
Li hanno rinchiusi e torturati nelle carceri. Poi, dopo la mobilitazione internazionale innescata dall'impegno di giornalisti e organizzazioni umanitarie, hanno deciso di condannarli ai lavori forzati, senza riconoscimento del loro status di rifugiati. È la sorte toccata ai circa 400 migranti eritrei rinchiusi nel centro di detenzione di Brak, in Libia. Una sorte di cui l'Italia porta senza dubbio l'onta della complicità, a dispetto di quanto detto in questi giorni dal Governo.
L'Italia, purtroppo, è complice, perché da due anni ha deciso di applicare respingimenti in mare nei confronti dei migranti. È complice, perché questi respingimenti vengono fatti in direzione della Libia, dove vige un regime militare e dove i diritti umani continuano a essere violati.
Tripoli non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra. Eppure, il Governo non ha avuto dubbi nel consegnare in maniera indiscriminata al colonnello Gheddafi migliaia di vite umane, siano pure bambini e profughi. Prova ne sia ciò che ha detto il ministro Maroni a proposito della situazione dei detenuti di Brak: «Non è dimostrato che queste persone siano tra gli 850 migranti respinti dall'Italia verso la Libia». Senza accorgersene, il ministro ha confermato quello che, dal Parlamento di Strasburgo, io e Patrizia Toia abbiamo denunciato alla Commissione europea: l'Italia ha applicato i respingimenti senza neppure curarsi dell'eventuale status di rifugiato di chi ha respinto. Non si tratta di una premura umanitaria, ma del rispetto delle leggi italiane ed europee, oltre che della Convenzione di Ginevra.
Il ministro Maroni, poi, afferma a cuor leggero che, in questa vicenda, le responsabilità sono dell'Unione europea, che ha mostrato «un atteggiamento di disinteresse incredibile e singolare». Ma è stato proprio il Consiglio d'Europa, dopo una mobilitazione partita dal gruppo dei Democratici a chiarire che l'Italia ha «il dovere di vigilare sul rispetto dei diritti umani», invitando il nostro governo, fino ad allora immobile, a muoversi per risolvere diplomaticamente il caso dei profughi di Brak.
La soluzione è arrivata, ma è stata una beffa: i migranti eritrei hanno ottenuto la libertà, ma a patto di svolgere «lavori socialmente utili» sotto la sorveglianza dei militari libici. In pratica, lavori forzati. Inoltre, sottoscrivendo questo accordo, i 400 profughi diventano dei «migranti economici», e rischiano di perdere la possibilità di ottenere, anche da parte dell'Unchr, lo status di profughi.
Anche di questo l'Italia è complice. Per levarsi di dosso l'onta, il Governo accolga gli eritrei detenuti a Brak. E sospenda, ci auguriamo immediatamente, i respingimenti in Libia.



GLI ERITREI A BRAQ E IL TRATTATO ITALIA-LIBIA
I profughi respinti dal rimosso coloniale
il manifesto, 15-07-2010
Giampaolo Calchi Novali
La pretesa dell'Italia di riversare tutte le responsabilità degli effetti collaterali del pactum sceleris stipulato con Tripoli sulla sola Libia è una specie di secondo round, quasi una sublimazione, del respingimento a carico dei profughi che ora si dice di voler proteggere. È probabile che Palazzo Chigi e la Farnesina si siano preoccupati di ottenere dalla Libia qualche garanzia di moderazione. Nessuno a Roma ha interesse che Gheddafi tomi a figurare fra i «cattivi». La politica di scuse e riconciliazione presuppone che il colonnello libico smetta i panni del «paria», diventi un partner con cui fare affari senza suscitare obiezioni e soprattutto difenda la linea del fronte con i mezzi militari o paramilitari fomiti dall'Italia. È questo il ruolo che l'Italia pensa spetti a un ex possedimento, a un paese del Sud un po' arabo e un po' africano. II colonialismo è stato una grande occasione d'incontro fra Europa e Oriente, ma come scriveva più di mezzo secolo fa Aimé Césaire, fra tutti i modi di conoscersi il colonialismo è stato il peggiore per l'una parte e per l'altra.
L'assunto originario degli studi postcoloniali era che il rapporto fra colonizzatori e colonizzati potesse uscire finalmente dalle mistificazioni del discorso coloniale e dai limiti della stessa narrativa nazionalista. La realtà storica è fatta di influenze reciproche e reciproche acquisizioni, Le società dei colonizzatori e quelle dei colonizzati non sono poi così lontane, non sono compatte e omogenee, sono percorse da dinamiche e contraddizioni. Per la percezione che prevale in Italia, purtroppo senza differenze sostanziali fra destra e sinistra ufficiale, la Libia è poco più di uno spazio con risorse da sfruttare, fissata in un'aura di irrazionalità fuori della storia. Il Terzo mondo è stato privato delle sue specificità: le sue ricchezze e la sua gente sono state ridotte a merce. Nessuno apparentemente si era chiesto con un minimo di serietà perché poche centinaia di profughi, provenienti dalla Libia ma non libici, fossero incompatibili con l'ordine pubblico e le finanze dell'Italia ma potessero essere inghiottiti senza colpo ferire da una Libia già alle prese con problemi tremendi come l'istituzionalizzazione della politica, l'accesso alla modernità, l'integrazione fra notabilato tribale e borghesia urbana, il culto dell'islam senza scadere nel fondamentalismo e con il peso mai risolto della diffidenza reciproca fra arabi e africani dopo l'epopea negativa della schiavitù. In Sudan le popolazioni nere sembrano decise alla secessione, andando forse verso un disastro, pur di non accettare il governo dell'éli te arabo-musulmana che ha trattato il Sud come un serbatoio di beni e di forza-lavoro in stato servile. Il sottinteso da cui partiva l'Italia era che una violazione anche macroscopica dei diritti al di là del Mediterraneo, come fatalmente è accaduto, sarebbe stata accettabile e accettata perché la Libia è «inferiore». Il deserto è un non-luogo. Abbiamo imparato dal nostro maggiore alleato a «esternalizzare» le torture. Come se non bastasse, le vittime delle violenze libiche nel deserto - ma anche dei respingimenti italiani in mare o sulle coste - sono soprattutto eritrei e con l'Eritrea, salvo errore, l'Italia avrebbe obblighi particolari. Nell'ultimo viaggio in Africa il ministro Frattini ha «saltato» l'Eritrea, ormai poco presentabile e abbandonata alle fobie autoritarie del suo padre-padrone, e ha elevato Meles Zenawi a grande «protettore» del Corno come se l'Etiopia non fosse in guerra sia con l'Eritrea che con la Somalia
Nonostante i tentativi del blocco dominante di passar sopra alle divisioni enfatizzando la necessità di presidiare comunque la Fortezza, la cultura occidentale non ha perso la capacità della critica e dell'autocritica. Non è proibito denunciare i crimini e le miserie di un Blair. Il compito è affidato a Polanski contando sul lenimento della mediazione artistica. Per Bashir c'è, o ci dovrebbe essere, I'incriminazione alla Corte penale dell'Aja. Ben venga un'inchiesta intemazionale nei lager sparsi sul territorio della Libia. Peccato che nessuna commissione internazionale sia stata invitata a Guantanamo o, nel nostro piccolo, a Lampedusa e nelle carceri sovraffollate di detenuti in attesa di giudizio. Giustamente ci si chiede con che cuore Gheddafi infierisca contro i «fratelli» africani di cui voleva essere incoronato re, ma se, provocazione o no, invia una nave di soccorsi a quegli altri fratelli di Gaza viene subito sanzionato.
La «mondializzazione» del Terzo mondo è uno dei prodotti del colonialismo. La fine del colonialismo ha permesso di vivere dopo il colonialismo ma non senza il colonialismo. La relazione fra Nord e Sud risponde ancora alle logiche della subalternità se non della dominazione diretta. A meno di un ripensamento integrale, che alla lunga ha come posta non mille uomini e donne alla deriva nel Mediterraneo bensì le moltitudini che premono ai confini dell'Europa in cerca di lavoro e diritti, la memoria del passato e le pratiche in atto sono destinate a generare un fiume di veleno. La cultura va bene, ma ormai è la politica che deve intervenire.



Belviso: "Da lunedì ospitati in 3 centri"
Occupato assessorato contro sgombero afghani

la Repubblica, 15-07-2010
UN CENTINAIO di persone, soprattutto immigrati  afghani sostenuti dalla 'Rete romana per il supporto dei profughi afhgani', hanno occupato ieri mattina la sede dell'assessorato alla Politiche sociali del Comune di Roma come forma di protesta per l'imminente sgombero del campo di via Capitan Bavastro, all'Ostiense. «Lì— hanno spiegato dalla Rete—vivono da tempo, circa 150 afgani in condizioni alloggiative e sanitarie estremamente drammatiche, aggravate dalla decisione del consorzio che sta costruendo centinaia di alloggi nelle immediate vicinanze, di chiudere un mese e mezzo fa l'unica fonte d'acqua disponibile. Attualmente i rifugiati vivono senza acqua da tre giorni. I continui appelli rivolti all'amministrazione comunale — hanno concluso—finora sono caduti nel vuoto». L'Assessore alle Politiche sociali Sveva Belviso ha assicurato che da lunedì saranno ospitati in 3 centri d'accoglienza del Comune.



E la battaglia contro il "niqab" parla l'arabo

La Stampa, 15-07-2010
ROMA.-C'è una domanda tenuta sullo sfondo nel dibattito sul velo integrale islamico che l'Assemblea Nazionale francese ha appena deciso di mettere al bando dai luoghi pubblici. Per chi si battono veramente i paladini del diritto femminile alla copertura del volto come il «Parti Socialiste», che martedì s'è rifiutato di partecipare al voto chiesto da Sarkozy? In teoria per i musulmani  e per il rispetto alle loro tradizioni. In pratica in molti dei Paesi arabi che riconoscono il tramonto dal canto del muezzin l'ormai celebre niqab è proibito da un pezzo. L'ultimo in ordine di tempo è la Siria, dove un mese fa il ministero dell'educazione ha rimosso dalle rispettive scuole 1200 insegnanti ree d'indossare il più estremo dei foulard, quello da cui sbucano solo gli occhi.
«Il velo che cela il viso è un ostacolo alla relazione tra docente e studenti e una minaccia per la laicità dello Stato», spiega Ali Saad, il corrispettivo della nostra Gelmini, lasciando intendere che altri colleghi titolari d'incarichi governativi lo seguiranno a breve. E pazienza se il leader della Syrian League for the Defence of Human Rights, Abdel Karim Rihawi, denuncia «la violazione della costituzione che non impedisce alle cittadine con il niqab di lavorare».
Negli ultimi anni le strade di Damasco e di Aleppo si sono riempite di donne in nero dalla testa ai piedi e il presidente Assad teme la sfida politica più di quella religiosa. Pare che siano stati alcuni genitori a sollevare il caso, lamentandosi delle maestre, proprio come mamme e papà di Parigi, Bruxelles, Barcellona, furono i primi ad avanzare l'«obiezione burqa» nelle aule del multiculturale vecchio continente.
«Non è la prima volta che, in materia d'Islam, l'Europa si dimostra più realista del re», osserva la parlamentare del Pdl, Souad Sbai. Il suo Marocco, dove all'alba dell'indipendenza l'allora re Mohammed V chiese alla figlia di scoprirsi il capo in pubblico per testimoniare l'emancipazione femminile, è allergico al niqab al punto d'aver permesso alle società private di vietarne perfino la variante soft, l'hijab: «Le impiegate dell'aeroporto non possono indossare neppure il semplice fazzoletto sulla testa. La paura seguita agli attentati terroristici è talmente diffusa che le donne col volto coperto vengono chiamate dispregiativamente ninja: i tassisti non le fanno salire in macchina, i ristoranti le respingono, la popolare spiaggia di Casablanca Mohammedia le ha interdette dall'accesso al mare».
Al di fuori della fortezza Europa la battaglia contro il niqab parla arabo. In Turchia è un tabù dal 1924, l'anno in cui, dall'altra parte del Mediterraneo, l'egiziana Hoda Sharawi libera i capelli dal foulard, lanciando il movimento femmini¬sta dello «svelamento».
In Tunisia, dove attualmente una donna su quattro sceglie l'hijab, il bando negli uffici pubblici, firmato Habib Bour-
guiba, risale a mezzo secolo fa ed è stato ribadito nel 2006 dal presidente Ben Ali.
L'Arabia Saudita, nei cui meandri sabbiosi è generato il radicalismo islamico contemporaneo, sbarra le porte della cit-
tà sacra della Mecca alle pellegrine coperte fino ai piedi. E in Egitto il rispettato sceicco Muhammad Tantawi, grande
imam dell'istituto islamico Al Azhar, ha elaborato una sorta di fatwa, sostenendo che si tratta di «una tradizione lontana
dall'Islam» e in quanto tale va sradicata dagli atenei.   



Un comunista contro l'islamismo

Il Foglio, 15-07-2010
A Parigi la proibizione del burqa si deve a André Gerin, vecchio leone del Partito comunista in guerra con il fondamentalismo. Dice che "ombre nere minacciano la Repubblica", e la rive gauche gli dà di " petainista"
Roma. Il Parlamento francese ha approvato un progetto di legge che vieta l'utilizzo del velo islamico integrale nei luoghi pubblici. Il partito della maggioranza di destra (Ump) e ì centristi del Nouveau centre si sono espressi a favore della messa al bando. I Socialisti (Ps) non hanno partecipato al voto. Così anche i comunisti (Pcf), tranne uno che non soltanto ha voluto partecipare alle votazioni e si è espresso a favore della norma: André Gerin, questo il suo nome, è anche il presidente della commissione d'inchiesta sul velo integrale. Quella di Gerin è una figura unica in tutta Europa, vecchio leone e gloria del mondo comunista francese da anni impegnato contro il fondamentalismo islamico.
Il deputato comunista del Rodano si dice lanciato in una "crociata" contro quelli che chiama "i talebani francesi", perché "ombre nere minacciano oggi la Repubblica". Storica la sua battaglia contro Cheikh Abdelkader, l'imam algerino della città di Vénissieux, vicino a Lione, di cui Gerin è stato sindaco per quindici anni. Poligamo, padre di sedici figli, in un'intervista al quotidiano Lyon Mag Abdelkader ha detto che "il Corano autorizza in certi casi un musulmano a picchiare la propria moglie" e che la donna deve essere sottomessa al marito perché non è uguale all'uomo. Non a caso la città di Gerin è stata definita in un reportage della Bbc "confondibile con un pezzo di medio oriente". Un altro religioso in città, l'imam Benchellali, nella propria abitazione preparava un devastante attentato chimico: botulino nelle scatolette di crema Nìvea. Un figlio dì Benchellali è detenuto a Guantanamo, l'altro si trova nelle prigioni francesi. Pare che nella sua moschea venissero reclutati giovani musulmani da spedire nei campi di addestramento in Cecenia. Lo stesso sindaco Gerin ha fatto mea culpa sulle sue politiche in tema di immigrazione  islamica: "Forse abbiamo peccato di angelismo".
Commentatori di sinistra gli hanno dato del "petainista" e del "reazionario". Gerin si smarcò dall'ortodossia progressista francese già quattro anni fa, quando scrisse una lettera in difesa del filosofo francese Robert Redeker, critico dell'islamismo e marchiato da una fatwa, dall'attacco del quotidiano comunista Humanité che a Redeker diede del "razzista". Gerin dice di voler tutelare la "pace sociale" e afferma di aver preso coscienza del pericolo islamista "dopo  l'11 settembre". Un giorno scoprì che nel carcere di Guantanamo si trovavano due musulmani provenienti dal suo paese, Vénissieux. Niente fu più uguale, Spiega Gerin: "Non abbiamo scelta. L'islam è la seconda religione di Francia. Se si desidera integrare la comunità musulmana, deve essere ripulita del suo fondamentalismo". Parole dure, che fanno gridare all'allarme la rive gauche.
I compagni comunisti non riconoscono il vecchio Gerin che si batteva per bandire le bombe a grappolo, che lottava per la creazione di un servizio pubblico delle acque e che scriveva lettere a Fidel Castro. "L'll settembre e gli eventi successivi dimostrano che dobbiamo combattere l'ideologia fondamentalista trasportata in periferia da parte degli islamisti e che porta al terrorismo", spiega Gerin. Un comunista molto lontano dall'apatia liberal sull'integrazione: "Il ruolo dell'islam nella nostra Repubblica laica è per me la sfida europea che sì pone agli albori dì questo millennio". Gerin ha persino attaccato l'islamologo Tariq Ramadan, una star in Francia, e ha denunciato "il razzismo antibianco" che si respira nelle banlieue. Gerin si dice convinto di fare un favore all'islam mettendo al bando il burqa. "Vedere i fantasmi e le prigioni ambulanti camminare per strada crea un vero e proprio malessere. Il velo è solo la punta di un iceberg, è un processo di indottrinamento che inizia nell'infanzia". Per Gerin, la sha¬ria porta con sé "i semi della guerra civile". Nella retorica di questo "comunista dissidente" l'islam radicale diventa infine "il cancro che corrode la nostra città",



Housing sociale bandi comunali per 3200 alloggi

il Giornale, 15-07-2010
Rita Smordoni
Il Piano Casa del Comune entra nel vivo. Ieri sono stati approvati dalla giunta capitolina due nuovi bandi per un totale di 3.200 alloggi. Più in dettaglio, 2.700 alloggi in housing sociale e 500 di edilizia sovvenzionata (Erp), da realizzare mediante cambi di destinazione d’uso di fabbricati non residenziali e di zone urbanistiche non residenziali. I privati avranno tempo fino a dicembre 2010 per le proposte, poi i progetti approvati passeranno alla fase attuativa. Gli alloggi in housing sociale saranno destinati a nuclei familiari a basso reddito o con a carico portatori di handicap, anziani in condizioni socio-economiche svantaggiate, studenti fuori sede, famiglie di sfrattati, immigrati regolari a basso reddito residenti da almeno 10 anni in Italia o da 5 nel Lazio, addetti all’ordine pubblico e alla sicurezza.
I bandi, che saranno pubblicati nei prossimi giorni, sono stati illustrati ieri in Campidoglio dal sindaco Gianni Alemanno, dall’assessore alla casa Alfredo Antoniozzi e dall’assessore all’urbanistica Marco Corsini. Con loro il delegato del sindaco all’emergenza casa Marco Visconti. Gli alloggi dovranno essere assegnati in locazione per una durata minima di 25 anni a canone sociale mensile pari a 6 euro a metro quadro. «Si tratta di un canone inferiore del 50% ai prezzi di mercato - spiega Alemanno - È la prima volta che a Roma si fa un’operazione del genere. A questi bandi ne seguiranno presto degli altri». Il primo in dirittura d’arrivo è quello per la densificazione dei Piani di Zona del II Peep mediante l’utilizzazione delle aree extra-standard per un totale di 2.400 alloggi. È in corso anche l’individuazione di aree nei cosiddetti Ambiti di riserva (previsti 10.000 alloggi in housing sociale).
«I bandi illustrati ieri sono a costo zero per l’amministrazione comunale», precisa Antoniozzi. Con il primo verranno trasformati in appartamenti edifici dismessi per un totale di 3.500 alloggi, di cui il 30% (1.000) dovrà essere destinato all’housing sociale. Con il secondo, invece, saranno 4.250 gli alloggi realizzati, di cui 1.700 in housing». I cambi di destinazione d’uso dovranno essere associati a interventi di recupero urbanistico (ristrutturazione edilizia o urbanistica, demolizione/ricostruzione). I lavori non dovranno oltrepassare la durata di 27 mesi dalla data di rilascio del permesso di costruire.
Per quanto riguarda i cambi di destinazione d’uso di zone non residenziali gli interventi potranno essere proposti all’interno di zone che il Prg identifica come edificabili, nel rispetto degli standard urbanistici (verde pubblico, parcheggi, servizi pubblici) minimi. In ogni caso fuori dall’agro e dal centro storico. I due progetti attiveranno circa 2.200 nuovi posti di lavoro nel comparto edile romano, con una movimentazione di capitali stimata in 850 milioni. «Nella somma sono compresi anche 140 milioni destinati alla realizzazione di edilizia Erp e relative opere di urbanizzazione» precisa Marco Visconti.



Il Cnel: i Romeni la comunità meno criminale in Italia. Il pericolo viene semmai dai magrebini

il legno storto, 15-07-2010
Sergio Bagnoli
Presentando alla stampa il proprio rapporto annuale, il Presidente del Cnel Antonio Marzano, già Ministro delle Attività Produttive nel secondo governo Berlusconi, ha sfatato un mito negativo che voleva gli immigrati romeni in Italia come una comunità in buona parte dedita alla criminalità ed alla delinquenza. I Romeni, unitamente ai loro “cugini” moldavi, risultano essere infatti, tra gli stranieri dimoranti nel nostro paese, quelli che meno spesso infrangono la legge penale in proporzione al numero di residenti allogeni in Italia. Bisogna, per onestà, comunque sotto lineare come sia ovvio che in termini assoluti gli inquisiti di origine romena rispetto ad esempio a quelli di altra origine sia molto maggiore giacché la loro è una comunità che oggi conta più di un milione di residenti entro i nostri confini nazionali.
Tanto per rendere l’idea basta osservare come le altre due nazionalità maggiormente presenti in Italia, cioè quell’albanese e quella marocchina, assommate abbiano una consistenza numerica ad essa inferiore.  La spietata realtà delle cifre correttamente espresse in valori percentuali, come in ogni seria facoltà di diritto si insegna si debba fare quando si voglia studiare l’indice di criminalità di un determinato gruppo di persone, contraddice dunque clamorosamente, come giustamente ha sottolineato il professor Marzano, le spietate campagne “romenofobiche” in cui si è distinta, ad ondate periodiche, negli ultimi anni la stampa italiana, particolarmente quella di sinistra. Fu infatti all’indomani dell’orribile omicidio della signora Reggiani, che agonizzante fu fatta oggetto di turpi atti di libidine, consumatosi in un quartiere di Roma ad opera di un criminale romeno di etnia rom che l’allora Sindaco della Capitale, nonché segretario del Pd, Walter Veltroni, affermò che la Città Eterna sino all’ingresso della Romania nell’Unione Europea era uno dei luoghi più sicuri al mondo e che a causa dell’immigrazione entro i suoi confini municipali di tantissimi cittadini del paese danubiano aveva raggiunto picchi di criminalità inaccettabili per una metropoli del mondo civile.
Successivamente fu soprattutto la stampa di sinistra, l’Unità ed Il Riformista in primis, a pubblicare articoli apertamente denigratori contro la Romania ed i romeni, ben presto imitata dai cosiddetti altri giornali italiani “indipendenti”. Non tutti comunque nel Partito Democratico seguirono l’esempio del loro segretario e, per esempio, l’onorevole Guido Melis, sardo di Sassari, oggi è tra i più convinti sostenitori della necessità di instaurare un buon rapporto d’amicizia tra i popoli italiano e romeno.
Marzano ci dice, per giunta, che il tasso di criminalità della comunità di immigrati romeni in Italia è di sei punti e mezzo percentuali inferiore a quello presente tra gli autoctoni e che dunque subito dopo gli immigrati moldavi, tra l’altro parenti stretti dei romeni di cui parlano la medesima lingua e da cui furono separati solamente per volere del dittatore sovietico Stalin, i cittadini della nazione neo- comunitaria sono quelli che in Italia commettono, in proporzione alla loro consistenza numerica, meno reati.
Anche gli albanesi, una volta molto temuti, non si segnalano particolarmente per la loro pericolosità pur se rimangono tra gli europei quelli che più spesso infrangono il codice penale. Particolarmente pericolosi invece gli appartenenti ad altre nazionalità extra- europee come marocchini, tunisini, nigeriani, senegalesi e cinesi. Per tutte queste comunità, compresa quella albanese, bisogna però operare una distinzione importantissima: non è l’appartenenza ad una nazionalità piuttosto che ad un’altra l’elemento di per se sufficiente a sottolinearne la pericolosità, quanto piuttosto la condizione giuridica in Italia dei loro appartenenti nonché lo stile di vita perseguito. Moltissimi extra- comunitari sono clandestini e, spessissimo, tale condizione è di per se il fattore criminogeno per eccellenza. Se alla clandestinità si aggiunge poi l’adesione ad una condotta esistenziale incompatibile ed antagonista a quella occidentale ecco che compiutamente si spiegano i sorprendenti dati snocciolati ier l’altro dal Cnel.
Sono dati che contraddicono clamorosamente quanto ha pensato sino ad oggi l’italiano medio che non avverte tanto la pericolosità sociale di cinesi ed africani quanto soprattutto, anche perché influenzato da certa stampa, quella dei romeni. Sono dati però che confermano quanto va da tempo, almeno un anno, predicando il Ministro degli Interni Roberto Maroni che i numeri reali li conosce per davvero.

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