Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

03 giugno 2010

«Adozioni: avere preferenze non è razzismo»
Avvenire, 03-06-2010
Paolo Ferrario
il caso
Il sottosegretario Giovanardi, presidente Cai, interpreta la sentenza della Cassazione
Milano- La coppia che intraprende il percorso dell'adozione, più che di giudizi sulle proprie convinzioni ha bisogno di essere accompagnata in un cammino non privo di difficoltà. Il giorno dopo la sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che ha escluso, per i genitori adottandi, la possibilità di esprimere preferenze riguardo l'etnia e il colore della pelle del figlio desiderato, il presidente della Commissione per le adozioni internazionali, Carlo Giovanardi, interviene con una nota per dare la corretta interpretazione delle parole della Suprema corte. Il contenuto della sentenza, si legge nel comunicato del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, «non significa che la coppia che desidera adottare sia costretta ad accettare qualsiasi tipo di proposta in qualsiasi parte del mondo, prescindendo dalle condizioni di età, salute, della presenza di handicap e dal numero di fratelli da mantenere uniti, così come della consapevolezza delle maggiori difficoltà da superare per l'inserimento di bimbi di colore».
In altre parole, esprimere preferenze anche circa la provenienza del figlio non significa affatto essere "razzisti". Spiega a riguardo Giovanardi: «Affidarsi a un ente che, per esempio, propone adozioni nell'Est europeo, piuttosto che a un ente che opera in paesi africani, non vuol dire di per sé essere razzisti, ma la maturazione di un orientamento, mediato dai servizi sociali, che possa garantire il successo del percorso adottivo nel superiore interesse del bambino. Ogni coppia pertanto va accompagnata e aiutata dai servizi, dagli enti autorizzati, a esprimere il meglio di sé nell'esperienza adottiva con generosità ed equilibrio ma anche senza eccessi ideologici». In definitiva, secondo l'interpretazione della Commissione per le adozioni internazionali, con questa sentenza, «la Cassazione ha affermato con la massima autorevolezza che l'adozione deve essere l'espressione dell'accoglienza e dell'accettazione delle "diversità" che caratterizza ogni bambino in stato di abbandono, da qualsiasi paese provenga, rispetto agli adulti che l'accolgono e che si impegnano per aiutarlo a crescere».
Sulle problematiche legate all'adozione, in particolare quando ad essere adottato è un bimbo di colore, è intervenuta anche la psicologa Anna Oliverio Ferraris, professore alla Sapienza di Roma. «Non necessariamente - spiega la docente universitaria -la coppia che non vuole adottare un bambino di colore va tacciata di razzismo. Semplicemente - aggiunge - può non sentirsi di affrontare i problemi che un diverso colore della pelle può comportare. Magari si pone il problema se il bambino si troverà bene». Quest'ultimo aspetto riguarda, in particolare, l'identificazione con i genitori adottivi, che un diverso colore della pelle potrebbe anche sfavorire.



Regione, Maroni: "Anche la Campania avrà un C.I.E. per gli immigrati"

il Levante, 03-06-2010
La pubblicazione del rapporto annuale sui diritti umani da parte di Amnesty International,  ha di fatto  costretto il ministro Frattini, impegnato a Caracas per un convegno, a prendere le distanze dal dettato dell’associazione per contestarne l’assunto. Il ministro ha ricordato come l’Italia sia, tra i paesi che si affacciano sul Mediterraneo, quello che sicuramente si è maggiormente prodigato per il salvataggio degli emigranti, soprattutto  per quel che concerne i dispersi in mare.
Giova ricordare che, nei mesi passati  l’Italia, sul piano internazionale, è stata molto contestata per i suoi ripetuti rifiuti ad ammettere nuovi immigrati, rispedendoli immediatamente  nei loro paesi di origine, spesso senza identificarli né verificare l’eventuale status di esiliato politico.
Da qui la necessità di ampliare e migliorare l’organizzazione di accoglimento e controllo, istituendo i C.I.E., acronimo di Centro di identificazione ed espulsione, che verranno creati in altre quattro regioni, tra le quali figura la Campania.
L’annuncio è stato dato direttamente dal Ministro degli Interni, onorevole Maroni, nel corso del question time alla Camera, scatenando le vibrate proteste non solo dei pro-immigrati ma anche di gran parte dei deputati della Campania, soprattutto del PD.
Tra gli altri, particolarmente accesi sono stati gli interventi degli onorevoli Tino Iannuzzi, Costantino Boffa, Luigi Nicolais e dell’ex sindaco di Castellammare di Stabia, Luisa Bossa, che hanno ricordato come la Campania rappresenti da sempre un pacifico crocevia di razze, amplificato nei secoli dalle diverse dominazioni che si sono succedute, esaltandone   i principi di umanità e di rispetto della persona umana.
Pure però, hanno sottolineato come, negli ultimi anni, la regione sia rimasta ai margini del fenomeno dell’immigrazione clandestina e la creazione di un centro per identificazione ed espulsione di questi ultimi, oltre ad offendere il senso civico degli  abitanti, andrebbe ad enfatizzare i problemi sociali e di disoccupazione che  attanagliano le province campane.
Da qui l’opposizione forte e decisa, per spostare in altre regioni il C.I.E., in contrasto con i piani del governo che invece, a detta dello stesso ministro Maroni, avrebbe già non solo deciso le regioni nelle quali collocarli, ma avrebbe individuato pure le aree di allocazione, privilegiando le zone circostanti gli aeroporti e comunque a debita distanza dai centri abitati, per evitare fughe e facili imboscamenti.
Staremo a vedere gli sviluppi della situazione, dato che il problema è comunque tutt’altro che risolto ed i prossimi giorni saranno decisivi per la definizione delle fasi operative.



Reportage. Immigrati in Italia. Chi sono, cosa fanno, come arrivano?

Cultumedia, 03-06-2010
Patrizia Tonin
Il fenomeno della migrazione è sempre stato fondamentale per lo studio delle tendenze economiche e sociali di un Paese e l’Italia con la sua storia di emigrazione prima e immigrazione poi, ha assunto un ruolo sempre più importante con il passare del tempo, anche in quanto “culla delle civiltà”.
Mentre verso la fine dell’800 erano soprattutto gli italiani a espatriare e a raggiungere terre “migliori”, come l’America, per trovare lavoro e una solidità economica e sociale, la tendenza di tutto il ‘900 è stata, e lo è ancora ai giorni nostri, quella della migrazione interna, vale a dire il trasferimento dei cittadini del Sud del Paese al Nord per trovare lavoro, farsi una famiglia e, spesso, spedire i soldi a casa.
Negli ultimi venti anni, il nostro Paese ha visto invece nascere e approdare nuovi flussi migratori con l’arrivo di popoli dall’Africa, dall’Asia e, più recentemente, dall’Est Europa, che costituiscono attualmente la classica manodopera: tutti i lavori che un tempo svolgevano gli italiani come il fattorino, l’operaio, il muratore, il lavoro in fabbrica, il falegname, ora li fanno gli immigrati. Prima, essi infatti potevano essere solo vu cumprà o spesso erano associati ai “topi d’appartamento e di ville” o alle prostitute, ora invece questi popoli e soprattutto le nuove generazioni, cosiddette “seconde generazioni”, sono sempre più integrate all’interno della nostra società: lavorano, spesso introducono nuovi mestieri come quello della badante, studiano e nascono in Italia. E spesso sono più italiani di noi, cioè migliori di noi.
Le ragioni che hanno portato gli immigrati a scegliere l’Italia come loro terra della speranza sono molteplici: innanzitutto la sua collocazione geografica nel Mediterraneo, che la rende particolarmente esposta ai flussi provenienti dai paesi nordafricani,  e anche il suo essere paese di confine dell’Unione Europea sia a sud che a est;inoltre le caratteristiche dei confini italiani ne rendono molto difficile una completa e corretta supervisione, costituiti infatti per lo più da coste facilmente raggiungibili e difficilmente controllabili. E ancora il realistico recupero, attraverso le regolarizzazioni, degli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno ma già inseriti nell’area del lavoro nero; oltre alla presunta minore rigidità rispetto ad altri paesi europei dal punto di vista legislativo. Tuttavia, nel nostro Paese si è cercato a lungo di dare delle norme e dei criteri per regolare l’entrata degli stranieri, in particolare dei clandestini: un modo, forse, per apparire “aperti”, “accoglienti” e “civili” anche e soprattutto agli occhi degli altri Paesi europei. La prima legge promulgata per introdurre la programmazione dei flussi d’ingresso, dopo una timida legge nel 1986, e costituire una sanatoria per quelli che si trovavano già nel territorio italiano: allo scadere dei sei mesi previsti, fu la legge Martelli del 1990. In tal modo, furono regolarizzati circa 200 mila stranieri, soprattutto provenienti dal Nord-Africa.
Appena l’anno successivo, l’Italia visse la prima immigrazione di massa proveniente dall’Albania: risalgono infatti al 1991 le immagini di intere navi sommerse, è il caso di dirlo da migliaia di persone, uomini, donne incinte, vecchi, bambini che ogni giorno raggiungevano le coste italiane, risolta con accordi bilaterali, che seguirono anche negli anni successivi con altri Paesi, principalmente dell’area mediterranea.
Siccome il numero degli immigrati tendeva ad aumentare in modo esponenziale, nel 1998 fu indetta la legge Turco-Napolitano, che cercava di regolamentare ulteriormente i flussi in ingresso, che cercava tra le altre cose di scoraggiare l’immigrazione clandestina attraverso l’istituzione di  centri di permanenza temporanea, creati per la prima volta in Italia, per gli stranieri “sottoposti a provvedimenti di espulsione”. L’ultima legge risale al 2002, la cosiddetta legge Bossi-Fini, che regolamenta ulteriormente l’ingresso degli immigrati e prevede la possibilità dell’espulsione immediata dei clandestini da parte della forza pubblica.
Se all’inizio del 2001, gli stranieri in Italia erano poco più di un milione, attualmente, secondo dati Istat del gennaio 2010, sono circa 4 milioni, numeri che ovviamente sono destinati a crescere, anche perché spesso dietro le cifre ufficiali si nascondono numeri purtroppo non noti di clandestini e lavoratori a nero.
Oggi si calcola inoltre che sul territorio italiano siano presenti circa 631 associazioni di volontariato che si occupano di immigrazione e 470 associazioni di immigrati, le quali, pur non costituendo ancora un soggetto rappresentativo indipendente, sono realtà fondamentali per promuove i diritti degli immigrati e per valorizzare le loro culture d’origine, in particolare nella  fase delle seconde generazioni.
Sono anzi quest’ultime le nuove voci della politica di integrazione degli immigrati che vivono in Italia, ma anche di quelli che immigrati non lo sono
per niente, anzi come detto prima sono italiani più di noi e migliori di noi.
E’ attraverso le seconde generazioni che il dialogo tra le istituzioni del paese di accoglienza e i nuovi abitanti si fa sempre più costante, tanto che nel 2007, il Presidente della Repubblica Italiana ha chiesto una legge sulla cittadinanza più aperta nei confronti dei figli dell’immigrazione, nati e/o cresciuti in Italia, dopo aver ricevuto una richiesta da parte della Rete G2 – seconde generazioni, i figli e le figlie di immigrati e rifugiati, nati in Italia o arrivati da minorenni, che sono e si sentono italiani, pur non dimenticando le proprie origini.
Essi sono cittadini del mondo, ma sono prima di tutto italiani anche se, a differenza di altri Paesi, come gli Stati Uniti, nascere in Italia non basta per essere considerati cittadini italiani. Occorre dimostrare di essere residenti da almeno dieci anni: un requisito che, nonostante sia solo il punto di partenza,  incontra costantemente un’infinità di problemi burocratici nell’espletazione delle pratiche per ottenere la cittadinanza italiana. E’ proprio al superamento di questi ostacoli, come l’accesso alla cittadinanza e la trasformazione culturale della società italiana perché sia più consapevole e si riconosca in tutti i suoi figli, indipendentemente dalle origini (da Rete G2-seconde generazioni) e dal colore della pelle e dalle loro tradizioni, che la rete G2 lavora senza sosta al fine di smuovere le coscienze di un Italia, ahinoi, ancora troppo “civilmente razzista”.
Anche se ci sono piccoli segnali, provenienti soprattutto dai media e dal mondo dell’arte come la mostra “Volti Italiani – Uguali Diversi” del fotografo Giorgio de Camillis, che parlano di una nuova Italia, che si sta aprendo a una futura società multietnica, dove non esistono più solamente identità differenti accostate. Certo, esiste un’intera generazione di persone con tradizioni culturali, religiose e psicologiche differenti, ma sono proprio queste persone ad essere più aperte all’interscambio culturale e a trasformare l’Italia in un Paese multiculturale, non solo multi etnico, ma anche più stimolante e creativo.



Sabato e domenica a Sassuolo: ‘Scambiare messaggi vincenti’

Sassuolo2000, 03-06-2010
Dal dopoguerra ad oggi la nostra comunità ha subito trasformazioni profonde, in particolare legate alla composizione demografica. Viste le notevoli opportunità di lavoro offerte dal distretto ceramico, si sono infatti susseguiti diversi flussi migratori: dopo i primi lavoratori provenienti prevalentemente dalle montagne e dalle pianure vicine, si è passati all’immigrazione dal meridione e dall’estero. In particolare, il recente e massiccio fenomeno dell’immigrazione di stranieri, che ormai superano il 10% della popolazione, ha causato non pochi problemi, soprattutto a causa della scarsa comprensione e dell’importazione di usi e costumi molto differenti. Si calcola che oggi nel distretto ceramico vivano persone provenienti da oltre 50 nazioni e siano rappresentati tutti i continenti: è anche troppo facile immaginare il nostro territorio come una nuova Babilonia, in cui risulta quasi impossibile capirsi e ancor più comunicare.
Se però consideriamo il fatto che la maggioranza degli immigrati si è mossa da sempre per un motivo giustissimo e condivisibile, e cioè la ricerca di un lavoro dignitoso, con la possibilità di poter vivere adeguatamente e ancor di più l’opportunità di poter istruire i propri figli ed offrire loro un futuro probabilmente negato nel paese di origine, non possiamo che dispiacerci nel percepire l’isolamento e la diffidenza che li circonda, per non parlare della scarsità di comunicazione e di relazioni sociali tra la popolazione autoctona e le altre etnie.
Al contrario, noi riteniamo che sia fondamentale fare tutti gli sforzi possibili per cercare di avviare un dialogo attivo e positivo tra tutte le popolazioni e confessioni religiose presenti sul territorio. In questo già la scuola ha un ruolo fondamentale, ma tuttavia lascia scoperta una fascia di età altamente problematica, quella dai 16 anni in poi, percepita come il momento di formazione dei giovani adulti. È proprio a loro che ci rivolgiamo, lanciando un’iniziativa che contribuisca a creare un’atmosfera di festa per andare al di là delle evidenti tensioni presenti sul territorio, e che proponga come arma efficace per la costruzione di una società coesa la comunicazione tra tutti coloro che sono presenti oggi sul nostro territorio: perché tutti possano scambiare messaggi vincenti, appunto.
A questo scopo abbiamo organizzato col Patrocinio del Comune un’iniziativa che si svolgerà il 5 e 6 Giugno presso il Parcallegro in via Valle d’Aosta incrocio con Via Toscana a Sassuolo.

Questo è il programma:
SABATO 05/06/2010
Dalle ore 18,00 alle 23,00: concerto di gruppi di varia provenienza: “il mondo in musica e parole”. Hanno assicurato la loro presenza: “Al Afaq” “Rapper Benna” “Unità distruZione del suono” i gruppi saranno intervallati da interventi delle associazioni che aderiscono.

DOMENICA 06/06/2010
Inizio ore 16,00: “Esperienze dal mondo raccontate dai protagonisti”: gli immigrati si raccontano. Mini corso di pasta colorata e emiliana per adulti e piccini. Sfilata di costumi tradizionali organizzata da GMI (Giovani Musulmani Italiani). Saluto del Sindaco ai partecipanti.
Ore 20,00: Cena “comunitaria” tutti assieme gli organizzatori ed i partecipanti all’iniziativa.
Ore 21,00: Proiezione di filmati sul tema ‘immigrazione’ e diritti negati.
(Il gruppo promotore e AreaEtica, ACIS (Ass.ne Comunità Islamica di Sassuolo), Artemisia, Anpi, CGIL-Sassuolo,CSL-Sassuolo, GMI (Giovani Musulmani d’Italia sez. Sassuolo), Istituto Antonio Gramsci, Terra Pace e Libertà)



Prato «assume» la prima cinese

il Sole.it, 03-06-2010
Massimiliano Del Barba
PRATO -L'obiettivo è quello di combattere il sommerso e il lavoro nero gettando un ponte utile a mettere in contatto la comunità cinese immigrata in Italia con i canali legali del mercato del lavoro. E una prima pietra è stata posata proprio pochi giorni fa a Prato, capitale italiana del made in China, dove l'agenzia per il lavoro Ali Spa ha reclutato e contrattualizzato – attraverso la sua filiale fiorentina – il primo lavoratore proveniente dal gigante asiatico: è una ragazza di 20 anni e andrà a lavorare presso una gelateria in uno dei principali centri commerciali della città toscana, l'Omnia Center.
«In realtà stiamo sviluppando dei progetti dedicati anche ad altre specifiche comunità di immigrati, come quelle marocchine e senegalesi, molto attive nel settore metalmeccanico e della concia – spiega Simona Lombardi, responsabile relazioni esterne di Ali Spa –, ma ci siamo concentrati in particolare su quella cinese che sta monopolizzando il tessile toscano poiché è tuttora praticamente impossibile intercettare e riportare alla luce il meccanismo occulto che governa la dinamica di domanda e offerta di questi lavoratori. Il contratto interinale firmato con la nostra prima lavoratrice cinese apre una nuova via, che siamo fiduciosi potrà creare nuovi canali di comunicazione fra le due comunità».
Un'idea pilota, quella di Prato, che potrebbe essere in futuro allargata anche ad altri centri ad alta percentuale di immigrati cinesi, come ad esempio la stessa Milano. La filiale toscana di Ali sta infatti collaudando un inedito modello operativo per cercare di far convergere due realtà ancora distanti fra loro. E Prato, con le sue officine spesso abusive e con i suoi operai fantasma, rappresenta il pass ideale per cercare di scardinare il muro che separa le chinatown italiane dal resto del Paese.
L'esperimento in chiave multietnica di Ali ha preso il via alla fine di febbraio, con l'apertura in via Curtatone di una vera e propria filiale italo-cinese. Un'insegna con gli ideogrammi, una vetrina tappezzata di inserzioni bilingui, in italiano e mandarino dirette agli immigrati di prima generazione e soprattutto ai loro figli, con i quali "potrebbero essere possibili scambi di risorse e sinergie importanti sia per gli imprenditori italiani che cinesi" e, ciliegina sulla torta, in arrivo a settembre da Pechino un'operatrice madrelingua in grado di interfacciarsi con i connazionali in cerca di occupazione, rassicurarli e creare quel rapporto di fiducia giudicato indispensabile per il decollo del progetto.
«Per cercare di specializzare la filiale di Prato nella ricerca di personale di origine cinese – prosegue Simona Lombardi – abbiamo pensato che la scelta più intelligente potesse essere quella di farla gestire direttamente da una professionista proveniente dalla Cina». Ali si è così così rivolta alla Camera di commercio italo-cinese e, in accordo con la comunità immigrata locale e con l'ambasciatore cinese in Italia, ha individuato una rosa di tre candidati da cui è stata poi scelta una ragazza di 27 anni con un curriculum da fare invidia a molti, anche in Italia, dato che ha studiato a Pechino, dove si è laureata in design e economia applicata alle industrie tessili, negli Stati Uniti, dove ha frequentato un master in comunicazione e scienze umanistiche, e infine a Perugia, dove sta perfezionando la conoscenza della lingua italiana seguendo un corso che terminerà ad agosto.
«A breve – aggiungono da Ali – la ragazza inizierà un affiancamento improntato al trasferimento di una serie di competenze specifiche che riguardano le normative italiane in materia di diritto del lavoro e, più in generale, tutte le procedure legate all'attività di un'agenzia di lavoro. Per settembre – assicurano – il progetto potrà così prendere il largo in maniera definitiva».



Bugingo: «Sfuggito al genocidio aiuto il Rwanda dall'Italia»

FFweb Magazine, 03-06-2010
Rosalinda Cappello
Noel Felix Bugingo è italiano dal 2008, si sente italiano e ama l’Italia. Ma il suo paese d’origine non lo ha dimenticato. Anzi, presiede l’associazione Progetto Rwanda di Ferrara che realizza interventi a sostegno della microimprenditorialità e di lotta alla povertà in quel paese sconvolto dal genocidio degli anni Novanta. Lo stesso nel quale sono morti i suoi genitori e dal quale è riuscito a mettersi in salvo venendo in Italia. Quando sei arrivato per la prima volta nel nostro paese?
Avevo dieci anni - sono nato nel 1978 - quando con la mia famiglia ci siamo trasferiti a Roma perché mio padre era un diplomatico dell’ambasciata del Rwanda. Nel 1993, però, è stato richiamato indietro, noi l’abbiamo seguito e così ci siamo ritrovati in mezzo al conflitto e al genocidio. I miei genitori hanno scelto di rimanere lì con i miei fratelli minori, mentre io e mia sorella siamo riusciti a tornare in Italia nel ’94. Dei miei genitori non abbiamo più avuto notizia, sono morti durante la guerra, mentre i miei fratelli si sono messi in salvo fuggendo con l’aiuto di uno zio verso il confine con lo Zaire. Che cosa avete fatto quando con tua sorella siete tornati in Italia?
Per un paio di anni ci siamo appoggiati ad alcuni amici in Emilia Romagna, io ho proseguito gli studi e mia sorella, più grande di me di un anno, ha cominciato a lavorare nei ristoranti. Io l’aiutavo nei fine settimana. In questo modo siamo potuti andare avanti. Ho preso il diploma di geometra e nel 2002 mi sono iscritto alla facoltà di Architettura a Ferrara. Nel frattempo ho avuto un bambino, che oggi ha quattro anni, con una ragazza italiana di Rovigo e, pur non avendo abbandonato l’idea di laurearmi, adesso mi occupo a tempo pieno dell’associazione che abbiamo fondato nel 2005, attiva nella cooperazione internazionale con il Rwanda. Com’è stato il percorso che ti ha portato a diventare cittadino italiano?
La mia esperienza è positiva, non ho mai subito atteggiamenti ostili perché ero straniero, nel lavoro, come nelle amicizie, e nemmeno all’università. Ovviamente, qualche sguardo di curiosità non manca, ma insulti nei miei confronti non ne ho mai ricevuti. Certo, sono consapevole che per altre persone non è così. È stato difficile ottenere la cittadinanza?
Da quando ho fatto domanda, nel 2004, ho aspettato quattro anni. Intanto, sei mesi dopo l’arrivo in Italia con mia sorella avevamo ricevuto il riconoscimento di rifugiati politici. Con l’ottenimento della cittadinanza mi sono sentito pienamente parte di questa società. È stato allora che mi sono accorto di essere accettato totalmente e che i miei diritti erano rispettati. Com’è iniziata la tua esperienza nell’associazione?
L’abbiamo fondata insieme con alcuni amici dell’Emilia Romagna e del Veneto, e abbiamo lavorato per guadagnarci poco per volta il sostegno per la realizzazione dei nostri progetti. All’inizio era del tutto su base volontaria, poi abbiamo cominciato ad avere l’aiuto delle amministrazioni locali, come la provincia di Ferrara. Ora lavoriamo molto con la Regione Veneto che finanzia la maggior parte dei programmi che abbiamo in Rwanda. Tra l’altro, abbiamo costruito una fattoria per l’allevamento di animali, gestito dalla diocesi di una città del nord del Rwanda. Operate soltanto laggiù, o assistete anche i rwandesi in Italia?
Sono prevalentemente interventi sul territorio in Rwanda. In Italia, non ci sono molti rwandesi però organizziamo dibattiti per far conoscere quello che è successo nel mio paese di origine, svolgiamo attività di sensibilizzazione sulla povertà, sul Terzo Mondo. Ma l’impegno principale è quello mirato all’avvio di iniziative in Rwanda per i quali raccogliamo fondi durante le nostre iniziative. Come gli altri giovani italiani ti sei dovuto confrontare con il mondo del lavoro. Com’è stato il tuo approccio?
Quando parlo con i miei coetanei italiani vedo che i problemi sono sempre gli stessi. Innanzitutto la difficoltà maggiore è quella di trovare spazi d’azione e prospettive. È un problema trasversale che riguarda gli italiani come le seconde generazioni. Tuttavia, queste ultime hanno una difficoltà in più, perché chi non ha la cittadinanza non può accedere a determinati lavori né fare, per esempio, i concorsi pubblici. Hai incontrato molti ostacoli per far accettare i progetti della tua associazione alle amministrazioni locali?
All’inizio è stato un po’ complicato, anche perché si trattava di cooperazione internazionale. Nei primi tempi, ricevevamo piccole somme, mille o duemila euro, cifre bassissime con le quali è difficile realizzare interventi apprezzabili. Il problema maggiore è quello di riuscire ad avere accesso a quel meccanismo, perché spesso vengono privilegiate associazioni che hanno realizzato già altri progetti e che sono riconosciute a livello nazionale, oppure organismi legati alle amministrazioni locali o appartenenti a certe aree politiche, come avviene soprattutto in Emilia Romagna.
E tu come sei riuscito a ritagliarti il tuo spazio?
A piccoli passi, siamo riusciti a mantenere gli impegni presi. Se riesci a dimostrare che hai raggiunto gli obiettivi, allora ti finanziano un’altra volta. Si procede in modo molto graduale, lentamente. In seguito, quando siamo riusciti a ritagliarci la nostra credibilità, abbiamo ottenuto anche finanziamenti molto più consistenti. Naturalmente, il progetto deve essere ben fatto. L’ostacolo più grosso è che devi dimostrare di aver svolto per tre anni attività nel campo della cooperazione internazionale. Se non hai modo di dimostrarlo il finanziamento non arriva. Noi, ormai, siamo al quinto anno e possiamo vantare un background. Questo ci facilita rispetto alle associazioni che sono appena nate. Vai in Rwanda a seguire i lavori?
Certo, è importante per assicurare la buona riuscita del progetto e per verificare che la popolazione locale ne tragga vantaggio. La verifica serve anche per dimostrare che i finanziamenti ottenuti hanno raggiunto lo scopo. Tu sei un esempio di integrazione riuscita. Che cosa si potrebbe fare di più in proposito?
Le politiche in questo settore non sono ancora efficaci. Mentre Francia e Inghilterra, nonostante i loro modelli non siano perfetti, riescono a favorire l’integrazione sociale, permettendo agli immigrati di esprimersi in campo sociale e politico, in Italia gli immigrati ancora non sono valorizzati, non vengono riconosciuti come una parte importante della società. Prima o poi anche qui avverrà come in Francia e in Inghilterra, si dovrebbe iniziare già da ora. I figli degli immigrati nati qui dovrebbero essere agevolati nell’ottenimento della cittadinanza, si dovrebbe lavorare su un avvicinamento culturale, insegnare a queste persone ad amare il nostro paese, a conoscere la cultura italiana, le tradizioni italiane. Dalla conoscenza nasce l’amore per questo paese, com’è accaduto a me. Ma non penso che l’Italia sia un paese razzista, anche se quando guardo la tv non mi sembra di riconoscere il posto in cui vivo.



Una divorziata con tre figli vuol sconfiggere le poche donne saudite che chiedono la libertà
C'è una pasionaria del velo

ItaliaOggi, 03-06-2010
Elisabetta Iovine
E giusto che sia un uomo a decidere per il gentil sesso
In Arabia Saudita due donne si fronteggiano senza esclusione di colpi: una chiede più libertà d'azione per il gentil sesso, l'altra dice che le cose vanno bene così ed è una pasionaria del velo e della tradizione rigorosa.
Quest'ultima si chiama Rowdha Yousef e si oppone con forza a Wajeha al-Hu-waider, diventata paladina dei diritti delle donne lanciandosi in un blitz: è andata alla frontiera del Bahrein chiedendo di attraversarla unicamente con il suo passaporto e in assenza, come previsto invece dalla legge, di un accompagnatore maschile o di un permesso scritto del proprio tutore. Per questo ha ricevuto minacce di morte, ma non si arrende, anche se al momento il suo tentativo di modificare i costumi sociali è andato a vuoto.
Gli atteggiamenti di questa donna non sono affatto piaciuti a Rowdha Yousef, 39 anni, divorziata e madre di tre figli, mediatrice volontaria nei casi di abusi domestici. Tutt'altro che una persona succube e che rinuncia a far valere i propri diritti, dunque. A lei non va giù questa smania di chiedere il diritto di guidare l'auto, di poter scegliere se indossare o meno il velo, di lavorare senza il permesso del consorte. Così ha organizzato una campagna dal nome significativo: «Il mio tutore sa che cosa è meglio per me». In due mesi ha raccolto oltre 5.400 firme per una petizione che rifiuta le richieste ignoranti di chi incita alla libertà, domandando addirittura punizioni per chi vuole l'uguaglianza tra uomini e donne, collocandoli in ambienti promiscui, e spinge per altri comportamenti definiti inaccettabili.
In effetti la separazione plateale tra i sessi è una caratteristica che distingue l'Arabia Saudita. D'altra parte, considerato il ruolo pressoché inesistente del gentil sesso nella vita sociale, è significativo che un simile dibattito si sia imposto nell'opinione pubblica anziché rimanere nascosto.
A ogni modo, Yousef è convinta che la maggior parte dei sauditi condivida i suoi valori conservatori, ma insiste sul fatto che l'adesione alla legge della Sharia e i costumi familiari non mettono un freno alle donne che vogliono manifestare la loro idea. Ella afferma che le sostenitrici delle riforme sono influenzate dalle correnti di pensiero occidentali che, però, non capiscono le necessità e le credenze delle donne saudite. Non è vero, dunque, che il mondo intero sia allineato allo stile di vita che si è imposto in una parte del pianeta.



"Parli italiano?": 13 mila stranieri a scuola  E col permesso a punti boom d'iscrizioni

la Repubblica.it, 03-06-2010
Chiara Righetti
Ogni anno siedono sui loro banchi quasi 6.500 cittadini stranieri. Che seguono corsi gratuiti d'italiano, ma ricevono anche consulenza legale e un aiuto per orientarsi nella cultura e nella burocrazia del Paese che li accoglie. Sono le scuole d'italiano per stranieri gestite dal volontariato e dal privato sociale, da poco più di un anno riunite in una rete ("Scuole migranti", appunto) che raccoglie esperienze che vanno dall'associazionismo cattolico ai centri sociali passando per le biblioteche. Oggi le 27 scuole in rete si avvalgono dell'impegno di circa 300 volontari. Un universo variegato: ci sono professionisti, insegnanti d'italiano in pensione, abilitati Ditals e studenti universitari. Si va da storiche realtà d'ispirazione cattolica come i corsi di Sant'Egidio (2.323 iscritti), Caritas (649) e missionari comboniani (473) fino alla Federazione delle chiese evangeliche e a solide esperienze laiche come la Casa dei diritti sociali: nella sede di via Giolitti si fa lezione tutti i giorni dell'anno per quasi 1.500 persone. Ma aderiscono a Scuole migranti anche realtà come Asinitas, specializzata nella formazione dei rifugiati, l'associazione "Di 28 ce n'è 1", che si dedica agli immigrati con disabilità, o la Casa di Kim, struttura per minori stranieri con patologie difficilmente curabili in patria: qui a studiare l'italiano sono le mamme che li seguono in Italia durante il periodo di cura.
Elemento comune è la gratuità dei corsi, che non hanno particolari requisiti d'accesso: si stima che circa il 20% dei frequentanti sia in attesa di regolarizzazione. Alcune scuole propongono moduli che si ripetono ciclicamente durante l'anno, altre hanno formule ad hoc per le frequenze "a singhiozzo" dettate dalla precarietà lavorativa. Tutte però offrono percorsi che non si esauriscono nell'alfabetizzazione, ma puntano ad aiutare gli stranieri a usufruire dei servizi sociali, a superare i traumi trascorsi - è il caso dei rifugiati - e ad acquisire piena coscienza dei loro diritti.
Per capire il peso della rete basta guardare ai numeri: nel 2008-2009, gli iscritti sono stati 6.417, tanti quanti gli stranieri che nello stesso anno hanno frequentato i Ctp - Centri territoriali permanenti: 6.747. "Oggi la domanda non è canalizzata - spiega Augusto Venanzetti, coordinatore di Scuole migranti - ma stimiamo che quella sommersa sia almeno doppia. Ed è destinata ad aumentare ancora con il varo del regolamento sul "permesso a punti". Da quando cioè chi chiede il permesso di soggiorno dovrà firmare un "accordo d'integrazione" in cui si impegna, nel giro di due anni, ad acquisire specifiche conoscenze della lingua e della cultura italiane. E in particolare, stando alla bozza di decreto licenziata dal Consiglio dei ministri il 20 maggio, un livello certificato "A2" di conoscenza dell'italiano". Per questo le scuole si sono già attivate con percorsi di formazione per gli insegnanti e sono in cerca di accordi con le istituzioni. "Non chiediamo fondi - spiega Venanzetti - quanto un aiuto per portare avanti le nostre attività: già ottenere in concessione gratuita locali per le lezioni ci consentirebbe di moltiplicare il numero dei corsi". Da settembre la rete si è dotata di un sito internet (www. scuolemigranti. it) sul quale consultare in tempo reale l'elenco di quelli attivi nelle diverse zone della città. Info: scuolemigranti cesv.org

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