Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

14 marzo 2012

Immigrati, un esercito di irregolari Ma meno numeroso di 10 anni fa
L'analisi dell'European Migration Network. Indipendentemente dai provvedimenti del governo per il contenimento dei flussi, resta aperto il problema dei permessi d'ingresso a breve termine, che non vengono quasi mai rispettati. Nel 2010, 1.543.408 visti d'entrata, ma di transito; quelli validi per soggiorni superiori ai 3 mesi solo 218.318
la Repubblica, 14-03-2012
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - Come si entra oggi in Italia? Per quali canali si esce? E come si diventa irregolari? Nell'ultimo anno il nostro Paese ha rilasciato un milione e 543mila visti d'ingresso, di questi circa un milione e 300 mila sono permessi di entrata turistici, a breve a termine. Un termine che non viene quasi mai rispettato. Ecco, è esattamente questo il momento in cui si alimenta il fenomeno delle presenze irregolari in Italia, indipendentemente dai provvedimenti dedicati al contenimento e alla regolamentazione delle migrazioni, di volta in volta decisi dal governo. Così, oggi l'esercito degli irregolari supera quota 500mila. È quanto emerge dal quarto rapporto European Migration Network 1: una fotografia dei complessi canali migratori italiani, scattata dal Viminale col supporto del centro studi Idos.
Un milione e mezzo di visti. Nel 2010 dall'Italia è partita una valanga di visti d'ingresso: 1.543.408, circa il 10% in più rispetto all'anno precedente e oltre il 63% in più in confronto al 2001. La stragrande maggioranza sono visti di transito o di breve durata, mentre quelli validi per soggiorni superiori ai 3 mesi sono solo 218.318 (diminuiti del 27% rispetto al 2009). Le sedi consolari più "generose" nel rilascio dei visti sono quelle di Casablanca (18mila), Chisinau in Moldavia (12mila) e New Delhi (11mila). Perché vengono rilasciati i visti superiori a tre mesi? In prevalenza per ricongiungimenti familiari, poi per motivi di lavoro (in base ai vari decreti flussi annuali), infine (per circa un sesto) per motivi di studio.
Come si diventa irregolari? Stando ai numeri, in Italia oltre un milione e 300mila visti sono di breve durata. È qui che si creano e crescono le sacche di clandestinità. Per capire: oggi si fanno decreti flussi sempre più ristretti (o non se ne fanno affatto, come quest'anno) per arginare le ondate di migranti, eppure - come conferma il rapporto Emn - "il regolare ottenimento dei visti non preserva dal rischio della irregolarità perché la presenza irregolare è dovuta, nella maggior parte dei casi, non all'ingresso in Italia senza autorizzazione bensì alla permanenza che si protrae oltre il dovuto (overstaying)". Insomma, si entra con un visto di breve durata e si rimane in Italia anche alla scadenza di questo.
Quanti sono gli irregolari? Il rapporto Emn ricorda l'abbassamento del livello della irregolarità a seguito della regolarizzazione del 2002 (703mila domande presentate, per lo più accolte), ma anche "l'effetto di svuotamento" esercitato dalla regolarizzazione del 2009, che ha riguardato il settore dell'assistenza alla famiglia (295mila domande pervenute). "Pertanto - scrivono i tecnici - se nei primi anni del 2000 la stima di poco meno di 1 milione di irregolari poteva essere accettata come vicina alla realtà, attualmente tale presenza può essere ritenuta dimezzata. Resta, tuttavia, da approfondire in quale misura i titolari degli oltre 600mila permessi per lavoro e per famiglia, validi al 31 dicembre 2009 e non più rinnovati, si siano trattenuti irregolarmente in Italia anziché rimpatriare".
Il fragile muro delle espulsioni. Nel 2010 in Italia sono stati rintracciati dalle forze dell'ordine 47mila immigrati irregolari. Di questi, quelli effettivamente espulsi si sono fermati a quota 4.890, mentre i respinti direttamente alle frontiere sono stati 4.215. I più espulsi sono gli albanesi, seguiti da marocchini e tunisini (bisogna ricordare che dal 2007 i cittadini romeni sono comunitari). Tutti i dati sulle espulsioni sono in costante calo da anni (nel 2009 gli espulsi erano stati 5.315). Per questo il rapporto Enm esamina (e cerca di promuovere) anche le varie misure preventive, quali le campagne di sensibilizzazione e i progetti informativi nei Paesi terzi, creati dall'Italia in questi anni per prevenire l'immigrazione irregolare nelle aree a forte pressione migratoria.



Le testimonianze di eritrei, etiopi e somali raccolte da Andrea Segre e Stefano Liberti
In un video con il telefonino i migranti portati a Gheddafi
Girato su un barcone, accusa l'Italia. Nel film documentario «Mare chiuso» ecco le storie dei profughi fatti tornare indietro
Corriere della sera, 14-03-2012
Gian Antonio Stella
«Ci state gettando nelle mani degli assassini... Dei mangiatori di uomini...». Così gli eritrei fermati su un barcone supplicarono i militari italiani che li stavano riconsegnando ai soldati di Gheddafi. Avevano diritto all'asilo, quegli eritrei: furono respinti prima di poterlo dimostrare. C'è un video, di quell'operazione. Girato con un telefonino. Un video che conferma le accuse che due settimane fa hanno portato la Corte dei diritti umani di Strasburgo a condannare l'Italia.
Quel video, miracolosamente sottratto alle perquisizioni dei gendarmi italiani e libici, messo in salvo e gelosamente custodito per due anni nella speranza che un giorno potesse servire, è oggi il cuore di un film documentario che uscirà domani. Si intitola «Mare chiuso», è stato girato da Stefano Liberti e Andrea Segre e racconta la storia di un gruppo di profughi, in gran parte eritrei e cristiani, in fuga dalla guerra che da troppo tempo si quieta e riesplode sconvolgendo la regione.
«Non si è mai potuto sapere ciò che realmente succedeva ai migranti durante i respingimenti, perché nessun giornalista era ammesso sulle navi e tutti i testimoni furono poi destinati alla detenzione in Libia», raccontano gli autori. Lo scoppio della rivolta contro il tiranno libico, nel marzo 2011, cambiò tutto. Migliaia di poveretti rinchiusi nei famigerati campi di detenzione di Zliten o Tweisha o nella galera di Khasr El Bashir riuscirono a scappare. E tra questi «anche profughi etiopi, eritrei e somali vittime dei respingimenti italiani che raggiunsero in qualche modo il campo Unhcr delle Nazioni Unite per i rifugiati a Shousha in Tunisia, dove li abbiamo incontrati».
L'atto di accusa contro l'Italia per avere violato le regole del diritto d'asilo è una conferma della sentenza della Corte di Strasburgo. Il processo, come noto, aveva un punto di partenza preciso: il 6 maggio 2009 a sud di Lampedusa, in acque internazionali, le nostre autorità intercettarono una nave con circa 200 persone di nazionalità somala ed eritrea tra cui bambini e donne incinte. Tutti caricati su navi italiane e riaccompagnati a Tripoli «senza essere prima identificati, ascoltati né informati preventivamente sulla loro effettiva destinazione».
Le regole, come inutilmente tentarono allora di ricordare l'alto commissariato Onu per i rifugiati, le organizzazioni umanitarie, molti uomini di chiesa e diversi giornali tra i quali Avvenire e il Corriere , erano infatti chiarissime. La Convenzione di Ginevra del 1951 dice che ha diritto all'asilo chi scappa per il «giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche». E l'articolo 10 della Costituzione conferma: «Lo straniero al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana ha diritto d'asilo».
Non bastasse, il direttore del Sisde Mario Mori, al comitato parlamentare di controllo, aveva chiarito com'erano trattati i profughi in Libia: «I clandestini vengono accalappiati come cani, messi su furgoncini pick-up e liberati in centri di accoglienza dove i sorveglianti per entrare devono mettere i fazzoletti intorno alla bocca per gli odori nauseabondi...». Oppure, stando alla denuncia dell'Osservatorio sulle vittime delle migrazioni «Fortress europe», venivano abbandonati a migliaia in mezzo al deserto del Sahara. Per non dire della sorte riservata alle prigioniere. Spiegò un comunicato del servizio informazione della Chiesa: «Non possiamo tollerare che le persone rischino la vita, siano torturate e che l'85% delle donne che arrivano a Lampedusa siano state violentate». L'Osservatore Romano ribadì: «Preoccupa il fatto che fra i migranti possa esserci chi è nelle condizioni di poter chiedere asilo politico. E si ricorda anzitutto la priorità del dovere di soccorso nei confronti di chi si trova in gravi condizioni di bisogno».
Il film documentario di Liberti e Segre, attraverso testimonianze da far accapponare la pelle, ricostruisce appunto come il destino di tanti uomini, donne, bambini fu segnato dalla violazione di tutti i diritti di cui dovevano godere. Basta mettere a confronto le parole di tre protagonisti di questa storia.
Muammar Gheddafi: «Gli africani non hanno diritto all'asilo politico. Dicono solo bugie e menzogne. Questa gente vive nelle foreste, o nel deserto, e non hanno problemi politici». Silvio Berlusconi: «Abbiamo consegnato delle imbarcazioni al fine di riportare i migranti in territorio libico, dove possano facilmente adire l'agenzia delle Nazioni Unite per mostrare le loro situazioni personali e chiedere quindi il diritto di asilo in Italia». Un anziano somalo filmato in un campo profughi: «Era domenica quando ci hanno riportato a Tripoli. I libici ci hanno portati via con dei camion container e poi nel carcere di Khasr El Bashir. Ci hanno bastonato. Ci hanno picchiati. Ci hanno rinchiusi».
Una testimonianza confermata da Omer Ibrahim e Shishay Tesfay e Abdirahman e tanti altri. Del resto Laura Boldrini, la portavoce, ricorda che l'Alto commissariato Onu per i Rifugiati aveva denunciato l'impossibilità di svolgere laggiù, in Libia, sotto il tallone di un tiranno come Gheddafi che non riconosceva la convenzione di Ginevra, quell'attività prevista dagli accordi: «Non avevamo neppure accesso ai campi di detenzione. A un certo punto ci chiusero, dicendo che non avevamo le carte in regola. Per poi riaprire col permesso di trattare solo le pratiche vecchie».
Ma è la storia di Semere Kahsay, uno dei giovani che stava su uno di quei barconi, il filo conduttore del film. Eritreo, cristiano, in fuga dalla guerra, con tutte le carte in regola per godere del diritto d'asilo, nell'aprile 2009 riuscì a caricare la moglie incinta, un paio di settimane prima del parto, su un barcone per Lampedusa. Poi, messi insieme ancora un po' di soldi lavorando in Libia, si imbarcò per raggiungere la moglie e la figlioletta nata in Italia. Un viaggio infernale. Il barcone troppo carico. L'avaria. La fine della scorta di acqua. La paura. L'arrivo di un elicottero italiano. L'apparizione di una motovedetta: «Eravamo felici. Felici». Poi la delusione. L'irrigidimento dei militari. Il ritorno a Tripoli. Il sequestro di documenti. La riconsegna ai libici. Il tentativo disperato e inutile di spiegare il suo diritto all'asilo. La prigionia. La guerra. La fuga verso la Tunisia. I nuovi tentativi per ottenere lo status di rifugiato.
Semere l'ha avuto infine, quell'asilo che gli spettava e che secondo il Cavaliere avrebbe potuto «facilmente» avere in Libia andando all'apposito ufficio. Dopo due anni e mezzo d'inferno. E solo grazie alla guerra civile libica, alla fine di Gheddafi e all'aiuto per sbrigare le pratiche che gli hanno dato gli autori di Mare chiuso . Che l'hanno seguito passo passo fino al suo arrivo, agognato, in Italia. Dove ha potuto infine ritrovare la moglie, vedere quella figlioletta mai conosciuta e regalarle, in lacrime, un chupa-chups.



Intervista a Massimiliano Monnanni, direttore generale dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) presso la Presidenza del Consiglio dei ministri.
ImmigrazioneOggi, 14-03-2012
Alberto Colaiacomo
Oltre mille segnalazioni di discriminazione giunte all’Unar nel corso del 2011, un incremento del 30% rispetto all’anno precedente. È il dato di maggior rilievo che emerge dalla Relazione sulla parità di trattamento e la xenofobia e discriminazione in Italia che avete presentato al Parlamento. Secondo lei il dato si spiega con la crescita di episodi discriminanti oppure per una migliore e più capillare presenza dell’Ufficio che lei dirige?
L’Unar del 2012 è completamente diverso da quello che ho trovato nel 2009. Proprio partendo da un bilancio di quanto fatto nel corso dei primi anni di attività dalla sua istituzione, l’Ufficio è stato integralmente ripensato e riorganizzato. Non più come un ufficio “nazionale” avulso dal territorio e dalla società civile, ma come una “cabina di regia” dove trovano spazio tutti i soggetti pubblici e privati che lavorano quotidianamente per prevenire e combattere le discriminazioni. Di qui una rinnovata fiducia, che ha portato al raddoppio delle testimonianze da parte di cittadini su eventi a sfondo razzista in soli due anni, al triplicarsi delle istruttorie, di cui oltre un terzo aperte autonomamente dall’Unar. Direi quindi, grande capacità di far emergere i fenomeni di razzismo, perlopiù sommersi, fenomeni che però sono comunque in aumento.
Due gli ambiti in cui emergono in modo particolare gli episodi che riguardano i cittadini stranieri: i media ed il mondo del lavoro. Perché secondo lei?
Il dato del settore “Media” è indubbiamente eloquente. Si tratta però non solo di fenomeni di stereotipizzazione degli stranieri o di altri target a rischio di discriminazione e pregiudizio, ma soprattutto del propagarsi irrefrenabile di xenofobia e razzismo on line, a partire da social networks e blog. Unar ha deciso di contrastare con decisione questi fenomeni e lo fa con efficacia in stretta collaborazione con la Polizia postale, anche se esistono limiti normativi che potranno essere superati solo attraverso la ratifica, da noi sollecitata, del Protocollo addizionale alla Convenzione sul cybercrime del Consiglio d’Europa. Sul lavoro l’Unar, grazie ad un accordo operativo con le organizzazioni sindacali e datoriali ha svolto una intensa attività di sensibilizzazione che ha condotto ad azioni positive e iniziative pilota. Tutte queste iniziative hanno iniziato a dare frutti, facendo incrementare le segnalazioni in materia di discriminazioni nei luoghi di lavoro. La crisi economica, poi, acuisce la situazione ed oggettivamente ha influito.
Numerosi sono stati i pronunciamenti dell’Unar contro i provvedimenti degli enti locali per le politiche sociali discriminanti verso gli stranieri. Oltre alle censure si sta pensando a misure per informare meglio gli amministratori?
Riteniamo che gli amministratori siano già ben informati e non crediamo certo che la maggioranza delle istruttorie di questo tipo dipenda da assenza di informazione sulla normativa. Ciò non toglie che, in ogni contesto, l’Unar svolge sempre e comunque una diffusa azione informativa e di prevenzione. Lo stesso strumento dei protocolli che abbiamo sottoscritto con numerosi enti locali va in questo senso. Dalla seconda metà del 2011 poi, proprio al fine di prevenire il diffondersi di condotte discriminatorie da parte di altre pubbliche amministrazioni, in particolare ma non solo locali, l’Unar emana delle vere e proprie raccomandazioni in cui si affrontano globalmente temi che sono stati oggetto ricorrente delle istruttorie dell’Ufficio. Siamo partiti dai servizi sociali, per poi passare all’edilizia residenziale pubblica, alle assicurazioni “etniche”, alla residenza anagrafica. La funzione delle raccomandazioni è appunto “preventiva” serve ad evitare che altri Comuni o pubbliche amministrazioni incorrano in condotte discriminatorie. Proprio per questo le diffondiamo anche tramite le Prefetture e gli organismi di rappresentanza del sistema delle autonomie locali.
Dopo aver lanciato l’allarme per le compagnie assicurative che penalizzavano i cittadini immigrati nelle polizze Rc-auto, l’ultimo Rapporto denuncia anche le pratiche discriminatorie delle agenzie immobiliari. Come pensate di intervenire?
Stiamo pensando di aprire un tavolo di lavoro congiunto e proporre un codice di condotta per le agenzie. Ma allo stesso tempo, anche sulla base di una ricerca pilota già svolta in una regione, riteniamo sia necessario pervenire ad uno studio approfondito della materia anche al fine di individuare ulteriori soluzioni anche di tipo legislativo.
Da qualche settimana il Governo italiano ha presentato alla Commissione europea la “Strategia di inclusione per rom, sinti e caminanti”. Un documento programmatico che vede proprio nell’Unar un punto di riferimento per l’attuazione del piano…
Sì. A mio avviso, quando con voto unanime l’Unar è stato scelto dal coordinamento interministeriale del Dipartimento per le politiche dell’Unione europea, si è proprio tenuto conto dell’autorevolezza e della expertise che l’Unar è riuscito a far crescere in questi ultimi anni. Abbiamo redatto una strategia che per la prima volta è stata davvero condivisa con la società civile, in primis le rappresentanza dei Rom e dei Sinti, lodata dall’Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati e definita “coraggiosa” dalla rappresentanza istituzionale delle Regioni. C’è un grande lavoro da fare, tutti insieme e con decisione per ribaltare una concezione “emergenziale” che oltre ad essere stata dichiarata illegittima dal Consiglio di Stato è stata ripetutamente censurata dagli organismi internazionali e nel cui ambito come Unar siamo intervenuti in diverse singole occasioni di evidente discriminazione. In questo senso l’impegno assunto dal ministro Riccardi in prima persona nella guida del tavolo interministeriale di indirizzo politico e la sua prossima presenza a Bruxelles il 22 marzo alla sessione straordinaria convocata dalla Commissione europea proprio per discutere la piattaforma sui Rom danno il senso della svolta, assolutamente inedita, che l’Italia sta facendo su un tema cosi difficile.
Dal 21 al 28 marzo l’Unar organizza la “VIII Settimana di azione contro il razzismo”, un appuntamento tradizionale di sensibilizzazione. Quali le novità di quest’anno?
Come dicevo all’inizio dell’intervista, l’Unar è cresciuto molto dal 2009 ad oggi. Per questo abbiamo deciso, anziché di sostenere iniziative pur lodevoli, ma realizzate da altri, di promuovere direttamente una grande manifestazione che si svolgerà contemporaneamente in 35 città italiane. Il 21 marzo, giornata internazionale contro il razzismo, alle ore 10.30 il Colosseo a Roma e tanti altri storici monumenti italiani saranno idealmente e materialmente abbracciati e circondati da altrettante “catene umane” contro tutti i razzismi. A comporle saranno ragazze e ragazzi, italiani e stranieri insieme a tutti coloro che vorranno unirsi a noi. Ma la VIII Settimana contro il razzismo prevede anche attività teatrali – tra cui il 19 marzo una serata speciale gratuita al Teatro Eliseo di Roma dedicato ai ragazzi senegalesi assassinati a Firenze in cui Ascanio Celestini ci parlerà di razzismo – sportive, culturali e nei luoghi di lavoro. Infine il 2 e il 3 aprile l’Unar promuove una conferenza internazionale sul tema “Media e discriminazioni” nel corso della quale insieme alla Federazione nazionale della Stampa e all’Ordine dei giornalisti andremo a mettere a punto una nuova strategia di prevenzione e contrasto, anche sulla base del panorama europeo di cui ci parleranno giornalisti di rilievo e rappresentanti delle Nazioni unite e del Consiglio d’Europa, oltre ai ministri Fornero e Riccardi.



PROGETTO S.O.S. LEGALITA’: al via le attività scolastiche ed extrascolastiche per gli immigrati
San Marco in lamis, 14-03-2012
Sono partite le “Attività scolastiche-extrascolastiche, di socializzazione e Seminariali” del progetto S.O.S. LEGALITA’ finanziato dalla FONDAZIONE CON IL SUD e che vede la Cooperativa “Polis” di San Marco in Lamis come soggetto attuatore. Questo progetto è inserito nel quadro della collaborazione con gli Istituti Scolastici (scuole elementari e medie inferiori) dei Comuni di San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis e  Rignano Garganico.
I luoghi dove si stanno svolgendo le progettazioni di tali attività sono gli Istituti scolastici dei suddetti Comuni e i locali della Cooperativa “Polis”. Il progetto è finalizzato essenzialmente a favorire l’integrazione degli immigrati in generale e più in particolare per gli adulti e gli alunni immigrati residenti nel nostro territorio. Il numero degli stranieri che hanno scelto la Provincia di Foggia come residenza stabile e non come area di transito in cui far maturare il proprio progetto migratorio è, negli ultimi anni, cresciuto enormemente.
Nello specifico, il contesto territoriale di riferimento dell’intervento è riferito al Comune di San Giovanni Rotondo, di San Marco in Lamis e di Rignano Garganico dove i dati più recenti (http://www.comuni-italiani.it) hanno evidenziato che in tali località vi è un aumento progressivo degli stranieri immigrati, destinato ad incidere in maniera profonda sul tessuto sociale nell’ottica dell’accoglienza ed integrazione. Tali dati si riferiscono ai 1.400 stranieri presenti: il dato generale ormai consolidato è che gli immigrati che arrivano nella Provincia di Foggia provengono soprattutto dalla Romania e Albania. In particolare i cittadini della Romania, sono i più numerosi e rappresentano la prima comunità immigrata. Sono tutti questi motivi che inducono a ritenere che i tre Comuni della Provincia di Foggia costituiscano il territorio più adatto all’osservazione del fenomeno dell’immigrazione per pensare ad un intervento diretto nel settore della educazione/istruzione che offra pari opportunità agli immigrati e crei un modello di inclusione sociale.
I beneficiari di questo progetto, sono stati individuati attraverso un’azione articolata che si sta sviluppando, primariamente, verso gli Istituti scolastici, gli Enti locali (Comuni) e le parrocchie, integrata a completamento, da una ricerca di tipo sociale sul territorio nei confronti di interlocutori che svolgono servizi aperti al pubblico (servizi di tipo commerciale). Per favorire una più completa integrazione delle fasce adulte immigrate presenti nel territorio di San Giovanni Rotondo, San Marco in Lamis e Rignano Garganico, l’obiettivo specifico è di attuare interventi mirati attraverso la realizzazione di:
    Iniziative extra–scolastiche, scolastiche, ricreative e ludiche: consentire agli studenti immigrati l’apprendimento della lingua italiana e un migliore inserimento scolastico.
    Iniziative di socializzazione: estendere ed ampliare ai cittadini immigrati la conoscenza e la condivisione del sistema di regole attraverso cui si attua il vivere comune.
    Visite mirate ai luoghi e ai siti della storia e delle tradizioni locali: diffondere nella popolazione immigrata sul territorio la conoscenza, le competenze, il valore dei prodotti locali e dei luoghi dove la tradizione e la storia locale si sono radicate e ne sono l’espressione.
La Rete costituita dai diversi soggetti interessati dalle tematiche progettuali sarà attivata a livello locale nei tre Comuni e saranno promossi un coinvolgimento e confronto tra i partner e gli altri attori del territorio (Istituzioni, associazioni, etc.), in modo da favorire il dialogo e la concertazione tra i vari soggetti interessati dall’ambito dell’integrazione e inserimento sociale dei cittadini immigrati. Questa Rete dovrà poi agire e interloquire con la Rete degli immigrati per favorire l’integrazione degli stessi attraverso un percorso di formazione e sensibilizzazione. Con tale orientamento si potranno creare oltre a nuove condizioni per la valorizzazione, anche interventi mirati nel settore dell’immigrazione con ricadute dirette sulle comunità immigrate e sulla comunità locale.



La linea dura dell’Alabama sull’immigrazione, gli ispanici come i neri negli anni 50
Corriere della sera,14-03-2012
Monica Ricci Sargentini
Migranti -Una famiglia senza acqua corrente per 40 giorni, una bambina cui vengono  negate le cure in ospedale, una mamma che viene arrestata davanti al figlio di pochi mesi. Sono questi alcuni dei molti episodi capitati ai Latinos dell’Alabama da quando, lo scorso giugno, è stata approvata una legge contro l’immmigrazione illegale, nota come HB56, che è considerata la più dura degli Stati Uniti perché, spiega Lecia Brooks del Southern Poverty Law Center, un’ong nata negli anni ’70 a Montgomery per combattere il Ku Klux Klan, “stabilisce una nuova forma di segregazione, proprio come le famigerate leggi di Jim Crow contro i neri. E’ odiosa perché tocca ogni aspetto della vita di tutti i giorni dei clandestini in modo da costringerli ad andarsene. E’ questo l’obiettivo: che la gente si autodeporti. E parliamo di persone che vivono qui da decenni, i cui figli hanno la cittadinanza americana”. La HB56 vieta di affittare casa, dare lavoro, allacciare luce, corrente e gas a chi non ha i documenti in regola. Ai bambini a scuola può essere chiesto qual è lo stato legale dei loro genitori. “E allora cosa succede? – aggiunge Brooks – Che i genitori non mandano più i figli a scuola per non farli sentire a disagio. Hanno paura di essere separati da loro e di non vederli più”.
Venerdì scorso decine di migliaia di persone si sono ritrovate a Montgomery davanti al Campidoglio, a pochi passi dalla prima Casa Bianca dei Confederali, per chiedere l’abolizione del HB56 in una riedizione della storica marcia per i diritti civili del ‘65. Gli afroamericani al fianco degli ispanici: “I leader del movimento dei diritti civili – spiega ancora Brooks – hanno deciso di unirsi alle ong che difendono gli immigrati perché sentono che c’è la stessa atmosfera di allora”. Gli ispanici in Alabama rappresentano una minoranza, il 3,9%, ma sono in costante aumento: “Negli ultimi anni è stata registrata una crescita del 300%, per questo hanno fatto la legge” spiega Meredith Cabell dell’Alabama Coalition for Immigrant Justice. “Questo è uno Stato razzista – dice Brooks – questa legge ci porta indietro nel tempo. Hanno paura che i Latinos diventino la maggioranza“. In effetti il Census Bureau ha previsto che negli Stati Uniti i bianchi diventeranno una minoranza nel 2050.
Ieri in Alabama era il giorno in cui si votava per le primarie del partito repubblicano. Davanti alla Saint Mark United Methodist Church in Columbiana road a Birmingham, un imponente edificio di mattoncini rossi dominato da un’enorme vetrata, Mary Ellen Reeves, 50 anni, aspetto esile e capelli corti, dice di aver dato la sua preferenza all’ex governatore del Massachusetts : “L’ho votato perché voglio battere Barack Obama. Per la prima volta nella mia vita ho paura di un presidente. Siamo invasi dai clandestini e lui non fa nulla. Secondo me, se va avanti così, finiremo come gli indiani d’America, ci metteranno nelle riserve!”.
In un ristorante del centro Ann Romney incontra un gruppo di sostenitrici bianche come la maggioranza della popolazione in Alabama (67%). Fuori, a pochi decine di metri sventola un grosso manifesto “Salvate l’Alabama, ripudiate la legge HB56”. Anne Shackelford ha una sessantina d’anni e l’aria da vera donna del sud. Occhi azzurri, capelli biondi uniti in una coda di cavallo, gonna ampia, ieri anche lei ha votato per Romney. Quando accenniamo alle proteste per la legge anti-immigrati alza le spalle: “Quelli che hanno fatto la marcia su Montgomery venivano tutti da fuori esattamente come 50 anni fa quando chiedevano i diritti civili. Non è la nostra gente a  manifestare”. Parole che acquistano un significato pesante nella città in cui Rosa Parks nel lontano 1955 si rifiutò di cedere il posto a un bianco sull’autobus innescando la rivolta che ha fatto la storia dei diritti civili.
Dei quattro candidati alle primarie Mitt Romney è stato quello che più chiaramente ha appoggiato le misure draconiane varate in Arizona e in Alabama promettendo anche il veto al Dream Act, la legge che dovrebbe garantire la green card ai giovani che frequentano l’università o sono arruolati nell’esercito e vivono nel Paese da anni. Dichiarazioni che gli sono costate una grande impopolarità tra gli ispanici a livello nazionale (secondo un sondaggio di Fox news a novembre il 70% voterà Obama) e che hanno dato il destro a Newt Gingrich per accusarlo di essere contro “gli immigrati”. Ma anche Rick Santorum, che ieri ha vinto sia in Mississippi e in Alabama, non è stato da meno di Romney nello sposare la linea dura anti-immigrati.
Di certo c’è che gli ispanici dell’Alabama hanno paura. Il  gestore del ristorante San Marcos, sulla trafficata Atlanta Highway, si chiama Jose, 40 anni, capelli corti e neri,  parla a voce bassa, guardandosi intorno: “La situazione è quella che  è, cerchiamo di tirare avanti. C’è molto sospetto, diffidenza”.  I gestori del Supermercato Latino in Mount Meigs Rd, un piccolo edificio giallo in una strada deserta, sono in Alabama da sette anni, parlano inglese a fatica e continuano a chiedermi se sono un avvocato: “Meno male che i nostri figli e i nostri nipoti vivono in California – dicono – qui noi ci dobbiamo rimanere ma non è bello”. Molti infatti se ne vanno. Lasciano l’Alabama per Stati dove sono in vigore leggi meno drastiche.

 

 

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