Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 luglio 2010

Chiediamo al Governo di intercedere per loro Adottiamo un profugo
Facciamo una proposta concreta. Riuniamoci: scrittori, giornalisti, religiosi, spiriti liberi. Domandiamo che siano comunicati i nomi dei trecento «detenuti» a Sebha. Chiediamone conto. Pretendiamo che non siano lasciati morire
l'Unità, 05-07-2010
Carlo Lucarelli Giancarlo De Cataldo
Nessuno sa quanti fra i  trecento eritrei detenuti a Sebha abbiano  diritto all'asilo politilico in quanto rifugiati. Nessuno sa, perché nessuno domanda. Nessuno sa, neppure, se fra quei trecento c'è qualcuno non che ha tentato di entrare in Italia e non c'è riuscito. Nessuno sa, perché nessuno ha accertato. Ma cambierebbero le cose, se l'accertamento ci fosse stato? Perciò, quando qualcuno ci verrà a dire che non c'era certezza che fra quei trecento la maggioranza non fosse fatta di ladroni, disertori, pregiudicati comuni, e non potenziali rifugiati, e che magari, in apparenza, l'Italia non c'entra, noi dovre¬mo rispondere: è vero, non c'è certezza, non è stato possibile raggiungerla, questa certezza. Ma che l'Italia non c'entri, beh, questo è un altro discorso. È vero, manca la prova che siamo stati proprio noi a rimandare a Gheddafi «quegli» eritrei. Manca però anche la prova contraria: che non siamo stati noi. Da anni i nostri governi menano vanto dei successi delle politiche dei respingimenti. Che, di per sé sole, ci mettono al riparo dalle domande, diciamo così, «pericolose». Appena qualche drappello di (potenziali) profughi si affaccia alle nostre coste, non gli diamo tempo di aprire bocca, esibire documenti, contattare organizzazioni umanitarie, enti internazionali, i parenti che (forse) qualcuno di loro ha in Italia. Appena certe sagome scure e disperate si profilano all'orizzonte delle nostre sicurezze, le intercettiamo e le consegniamo alle affettuose cure del governo libico. Interveniamo in prevenzione. E lo facciamo perché è così che stiamo trattando, da anni, la materia dell'immigrazione: con una guerra preventiva. E in guerra, si sa, non solo non si va tanto per il sottile: anche se esistono leggi che regolamentano il dirito bellico e le convenzione internazionale sui prigionieri di guerra prevedono trattamenti sicuramente più umani di quelli ai quali sono assoggettati, oggi, gli eritrei temporaneamnete detenuti da Ghedaffi.
Molti di quegli eritrei, soprattut to quei ragazzi e quelle ragazze destinati , per esempio, al servizio mili tare a tempo indeterminato nel deserto della Dancalia - che significava -spesso morirci, in quel deserto-fuggono da una situazione economica   e politica durissima e non hanno al tro modo per andarsene che quello di sfidare lunghe marce attraverso altri deserti, di sabbia e di acqua, arrivare da qualche parte da «clandestini». E al ritorno non trovano altro che galera - in Libia o a casa loro- e spesso un destino peggiore.
Eppure, ci sono ottime ragioni per immaginare che, nel caso dei detenuti eritrei, la nostra responsabilità di italiani sia persino maggiore che in altri casi. L'Eritrea è stata a  lungo colonia italiana. Siamo stati insieme, noi ferengi e loro abescià per ottanta anni e continuiamo spesso a stare insieme anche adesso, noi che siamo stati allevati da tate con lo scialle bianco sulla testa, noi che siamo nati laggiù e loro che sono nati qui, noi che ci siamo innamorati insieme, sposati e fatto figli. Se fossimo un paese con una memoria e con una coscienza dovremmo conoscere il suono dei nomi di quegli eritrei che abbiamo respinto e conoscere le città da cui vengono come conosciamo quelle da cui verrebbe un turista americano o europeo. Nel bene e nel male siamo stati fratelli per tanto tempo e sempre nel bene e nel male abbiamo condiviso un pezzo di storia.
Un certo pensiero di Destra, oggi abbastanza in voga, tende a dipingere il colonialismo italiano come una magnifica avventura di civiltà e progresso. Ci amerebbero ancora perché siamo (siamo stati) brava gente. E tutto ciò sarebbe testimoniato dalla presenza di una vasta e ramificata colonia di eritrei/italiani tuttora legati sia a quel Paese che al nostro. Gli eritrei, insomma, sono ragazzi "nostri". Proprio perchè noi,
quando fummo colonialisti lo fummo in modo meno aggressivo di altre potenze. Non a caso, nei giorni scorsi, il Belgio ha chiesto scusa al Congo, e i nostri organi di stampa - singolarmente silenti sulla tragedia dei trecento di Sebha - hanno sottolineato con enfasi l'avvenimento. I Belgi erano cattivi, noi eravamo «buoni». Perciò gli eritrei ci amano. Ne siamo davvero certi? Proviamo a pensare che cosa ne pensano quegli uomini rinchiusi in container 50 gradi all'ombra in una delle estati più calde del secolo? Che cosa pensano di noi italiani brava gente? Che cosa racconteranno ai loro figli di noi, se riusciranno a scampare al destino che pare ineluttabilmente attenderli? Al netto di ogni considerazione, ci sono trecento esseri umani che potrebbero morire da un momento all'altro. Ucciderli non risolverà il problema dell'immigrazione, refrattario a ogni «soluzione finale», e finanche intermedia. Continueranno a cercare vie di fuga e di libertà, spinti dal bisogno e dalla disperazione, oppressi da dittature vergognose. Come fecero i nostri padri quando combattevano per l'indipendenza dell'Italia. I nostri padri che trovarono accoglienza, quand'erano migranti e disperati. Senza quell'accoglienza, oggi l'Italia non esisterebbe. Nemmeno quella che si autodefinisce «padana». I credenti, così attenti alla vita potenziale da preservare ad ogni costo, potrebbero sposare una battaglia per la salvezza di vite reali, concrete, vite di oggi, di qui e adesso. I nostalgici del buon coloniali-smo di un tempo potrebbero passarsi una mano sulla coscienza e decidere che, sì, in fondo, gli eritrei che ci hanno dato tanti shum-bashi e tanti bravi zaptiè, ascari e quant'altro venuti a morire nelle nostre guerre, una mano la meritano. Chi invece quell'epoca non la rimpiange ma la critica potrebbe passarsi anche lui una mano sulla coscienza e fare ammenda delle nostre colpe aiutando adesso quel paese e quella gente che lasciammo allora al suo destino. Immaginiamo già le obiezioni prevedibili a questa sortita: ecco gli scrittori einaudiani, ecco i fighetti radical-chic che si lavano la coscienza con tante belle parole mentre noialtri lavoriamo per tenerci, tutti, e Lucarelli e De Cataldo per primi, al riparo dall'orda nera. E sta bene. Facciamo una proposta concreta.  Chiediamo agli scrittori, ai giornalisti, ai religiosi, agli spiriti liberi con i quali in questi ultimi giorni abbiamo condiviso la battaglia contro la «legge bavaglio» di fare un gesto di buona volontà. Chiediamo tutti insieme al nostro Governo di adoperarsi perché i trecento siano trasferiti in un luogo più umano. Chiediamo che siano comunicati i nomi dei trecento, e copie dei loro documenti. Chiediamo che si attivino le procedure per la concessione del diritto d'asilo, nei casi previsti dalla legge. Chiediamo di accertare chi ha parenti in Italia che potrebbero garantire per loro. Ci dichiariamo pronti ad «adottare» un profugo e la sua famiglia. Chiediamo, come dicono gli avvocati, «in estremo subordine», di non lasciarli morire.



L'altro bavaglio, sms dal lager nel deserto: noi innocenti, non fateci morire

l'Unità, 05-07-2010
Umberto De Giovannangeli
Voci dall’inferno. Un appello disperato, una angosciante richiesta di aiuto. Non ascoltarla significa essere complici dei carnefici. Poche righe che danno conto di una situazione drammatica. Quella dei 200 eritrei deportati nel lager di Brak, nel sud della Libia. «Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è peggio, siamo rinchiusi in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo. Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte. Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non vogliamo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni umanitarie interessate».
L’Unità lo ha fatto. Inoltrandolo anche a chi ha l’autorità per poter intervenire sulle autorità libiche: il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi; il ministro dell’Interno, Roberto Maroni; il ministro degli Esteri, Franco Frattini. «Vogliamo un luogo di accoglienza più sicuro», invocano i 200 segregati nel Sahara. Quel luogo può, deve essere l’Italia. Ne hanno il diritto, hanno i requisiti per ottenere l’asilo. L’alternativa è scritta in quella disperata richiesta di aiuto: «Stiamo soffrendo e morendo. Stiamo perdendo le speranze. Qui moriremo nel deserto. E a casa ci aspetta la tortura o la morte».
Chiedono aiuto. E di far conoscere la loro storia. L’Unità lo ha fatto, in solitario per alcuni giorni. Il messaggio è riuscito ad uscire dalle celle del centro di detenzione di Brak, 80 chilometri da Sebah, nel Sud della Libia, dove dal 30 giugno scorso si trovano oltre 200 eritrei deportati dal centro di detenzione per migranti di Misurata, nel quale sono rimasti una cinquantina di loro compagni di sventura, tra cui 13 donne e 7 bambini. Il gruppo era stato deportato su tre camion container come «punizione» a seguito di una rivolta scoppiata il giorno prima fra i detenuti che non hanno voluto dare le proprie generalità a diplomatici del loro Paese per paura di essere soggetti a un rimpatrio forzato. E per molti di loro rimpatrio equivale a una condanna a morte o, se va bene, ai lavori forzati.
A gestire le sorti dei 200 eritrei nel Centro di detenzione di Brak, che dipende da quello di Sebah, secondo quanto riferiscono fonti non governative locali, sono in questo momento i militari e non il normale circuito della polizia penitenziaria. Mentre nel carcere l'emergenza umanitaria si fa sempre più pressante sono in corso a Tripoli «incontri fra diplomatici eritrei e ufficiali governativi libici», riferiscono fonti dell'Iom (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) di Tripoli, «per arrivare a una soluzione che permetta ai reclusi di lasciare al più presto il carcere di Brak».
Quel sms interroga le nostre coscienze. Chiama alla mobilitazione. Pretende una risposta dai ministri Maroni e Frattini. Una risposta che tarda a venire. Come tarda la riapertura l’ufficio dell’Unhcr (l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) in Libia. Tra quei 245 segregati in un lager, ci sono anche una parte degli eritrei respinti dalla Marina militare italiana nell'estate 2009. Intercettati sulla rotta di Lampedusa. E rispediti indietro. All’inferno. «I rifugiati sono sottoposti a forti maltrattamenti e sono tenuti in estrema scarsità di acqua e di cibo. Alle persone che presentano ferite e gravi condizioni di salute non sono fornite cure mediche», ricorda in un comunicato il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir). «Stiamo soffrendo e morendo..». Qualcuno li ascolterà?



Pianetta, Pdl: «Il governo salvi i nostri fratelli eritrei»

l'Unità, 03-07-2010
«Faccio appello alla sensibilità dei ministri Frattini e Maroni per salvare i nostri 300 fratelli eritrei che hanno diritto ad avere asilo politico e non di essere trattati come bestie dalla Libia». È l'allarme lanciato dal deputato del Pdl Enrico Pianetta, già presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, il quale ricorda come l'Italia verso l'Eritrea e la Somalia «deve essere più responsabile perchè non bisogna dimenticare ciò che il nostro Paese è stato per quelle popolazioni, nel bene ma, purtroppo anche nel male».
«Non dobbiamo dimenticare - ricorda Pianetta - tutto quello che hanno perpetrato in quell'area i marescialli di sangue Badoglio e Graziani. Noi siamo una Nazione che rispetta i diritti umani, siamo un popolo che ha un rapporto particolare con queste genti, le uniche nel continente africano che hanno come seconda lingua l'italiano». Secondo Pianetta «i libici non possono certo avere riguardo per i 300 eritrei, loro li ammassano in campi di isolamento e se ne fregano». «Frattini, Maroni - conclude l'appello di Pianetta - sò che il vostro cuore è più grande degli interessi geopolitici internazionali. Salvateli».



Intervista a Amos Luzzatto

l'Unita, 05-07-2010
«Non giriamo la testa L'indifferenza è un virus lo dimostra la Shoah»
L'ex presidente degli ebrei italiani: «Giusto l'appello dell'Unità. L'immigrazione non è un fatto di ordine pubblico. Servono ponti e non Muri»
L'indifferenza. Il voltare la testa dall'altra parte "tanto non tocca a me...", tutto questo noi ebrei lo abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con la Shoah. L'indifferenza è un virus letale per la coscienza civile di un individuo, di una comunità, di un Paese. E lo è anche pensare che il tema dell'immigrazione, sia in primo luogo un problema di ordine pubblico e non invece, come dovrebbe essere, un problema di soccorso pubblico; d'integrazione e non di respingimenti, di "ponti" da realizzare e non di "muri" da innalzare. Ed è per tutto ciò che trovo lodevole e condivisibile l'iniziativa assunta da l'Unità a favore dei 245 cittadini eritrei detenuti, in condizioni degradate e degradanti, in un carcere libico». Ad affermarlo è una delle figure più rappresentative dell'ebraismo italiano: Amos Luzzatto. «Occorre -afferma l'ex presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane -sviluppare una iniziativa che metta l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e al centro anche degli accordi internazionali  che l'Italia sottoscrive». In questa battaglia di civiltà, rileva Luzzatto, un ruolo di primo piano devono averlo  i media che «non sono solo espressione dell'opinione pubblica ma al tempo stesso la formano».
Duecentoquaranta esseri umani, tra i quali donne e bambini, sono da giorni detenuti in condizioni disperate, sottoposti a violenze fisiche e psicologiche, in un lager libico. Cosa c'è dietro l'indifferenza che circonda questa tragedia?
«C'è il principio, nefasto, che non tocca a me e quindi giro la testa dall'altra parte; un modo di pensare e di agire che ha avuto il suo peso ai tempi delle deportazioni della Shoah. È un clima, un atteggiamento che non sono ancora passati. L'indifferenza alimenta il pregiudizio e viceversa. Per questo ritengo che un appello all'opinione pubblica quale quello lanciato da l'Unità sia importante e doveroso sostenerlo, soprattutto se è vero che si tratta di persone che, almeno in parte, avrebbero diritto all'asilo politico ».
L'indifferenza si rispecchia anche, tranne lodevoli eccezioni, anche sui media.
«Un fatto davvero preoccupante. I media, al tempo stesso, esprimono e formano l'opinione pubblica. Sottovalutare o addirittura tacere su eventi drammatici come questo non contribuisce certo a formare una coscienza civica più matura e aperta».
Questa indifferenza significa che i più deboli, gli indifesi, fanno meno notizia di altro e altri...
«Non si tratta solo dei più deboli. Si tratta di tutti coloro che non hanno influenza su quello che si ritiene essere l'interesse concreto e materiale del nostro Paese».
Ma non è nell'interesse del nostro Paese salvaguardare i diritti umani in Paesi, come la Libia, con cui l'Italia ha sottoscritto un Accordo di cooperazione?
«Sì, dovrebbe esserlo...». Ma cosa lo impedisce?
«Due cose: la prima, inafferrabile, è la cultura con la quale si analizza e si reagisce alle notizie internazionali. Questa cultura generale, anch'essa in buona parte indotta, induce molto spesso all'indifferenza e ad una malintesa neutralità. C'è poi un secondo aspetto sul quale ho difficoltà a pronunciarmi..."
In cosa consiste questo aspetto?
C'è da chiedersi fino a che punto la nostra politica estera presti attenzione a fatti come quello che l'Unità ha contribuito a far emergere».
La vicenda dei 245 cittadini eritrei riporta di attualità il tema dell'immigrazione È pensabile poter affrontare e risolvere questo fenomeno solo in termini di ordine pubblico e di sicurezza?
«Direi proprio di no. E lo dico non sottovalutando affatto la questione della sicurezza. Il fenomeno dell'immigrazione non è prioritariamente un problema di ordine pubblico, ma di soccorso pubblico. Finché non si opera questo cambiamento profondo di angolo di giudizio, problemi come quello di cui stiamo parlando, si moltiplicheranno».
Solidarietà. E un termine che ha ancora un senso compiuto, reale, un suo diritto di cittadinanza in Italia? «Io credo di sì, ma ritengo anche che non trovi ancora i canali più adeguati per esprimersi in maniera efficiente, incisiva. È un problema di canali di comunicazione e di iniziativa da costruire, mettendo l'accoglienza ai bisognosi al centro della nostra attenzione e anche degli accordi internazionali che l'Italia sottoscrive».



Mobilitazione web, Viminale sommerso dalle mail

l'Unità, 03-07-2010
Giuseppe Rizzotutti
Esperimenti di una giornata di mezza estate. Il primo lo propone Marina Glado: «Stacchiamoci dai ventilatori. Scendiamo in strada, o usciamo da sotto l’ombrellone. Quanto resisteremo in questa giornata infernale? Gli eritrei che abbiamo ricacciato in Libia lo stanno facendo per giorni in un lager, nel deserto». Il secondo lo avanza Vincenzo Perone: «Io propongo, da qui a stasera, di non mangiare né, soprattutto, bere. Poi, quando saremo stremati, riflettiamo sul fatto che dei profughi non mangiano e non bevono da giorni, nel pieno del Sahara». Entrambi scrivono sulla nostra bacheca Facebook dopo aver letto l’inchiesta sulle centinaia di eritrei e somali prigionieri nel campo di detenzione di Sebha e l’appello per farli liberare. E sono solo due tra le centinaia che ci stanno scrivendo in queste ore. Chi con rabbia, chi con pena, chi con ostinazione. Alcuni hanno anche deciso di scriverselo sui palmi delle mani - "Stop ai massacri in Libia" - e di inviarci le loro foto.
Noi avevamo proposto di scrivere una mail e indirizzarla al ministero dell’Interno. «Ma hanno la posta piena, non me lo fa mandare», avvisa Barbara Siringo. Le fa eco Elena Brindani: «Ho mandato la mail all'indirizzo segnalato su l'Unità, ma è stata respinta, come posso fare? Non posso starmene zitta, non me la sento proprio». Passano pochi secondi e Barbara Costanzo suggerisce l’alternativa: «Appena spedita. Provate anche a questo indirizzo presente sul sito del ministero: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. ».
«Ma figurati se al ministro dell'Interno gliene importa qualcosa della fine che fanno quelle persone – aggiunge però Barbara Rocca – a morire ce li hanno mandati lui e i suoi sodali, lo sapevano già da subito cosa sarebbe successo, ma i soldi che fanno col governo libico sono più appetibili di qualche centinaio di "negri" morituri, e a parte tutto, la sede dell'Onu in Libia pensavate che l'avessero chiusa per cosa?» Interrogativo feroce, che però si pongono in molti. Concetta Lucia Lenza scrive: «Purtroppo l'Italia lo sa! Ha contribuito ad aprire la porta di quel lager e adesso contribuisce a richiuderla alle loro spalle! Mai avrei creduto di dovermi vergognare dell'Italia! Ma quello è il minimo se penso al crimine commesso verso questa povera gente! Il silenzio della Chiesa poi, mi indigna e mi imbarazza».
E più passano le ore, e più su questo silenzio si abbatte la condanna degli internauti. «Il vaticano tace... è troppo impegnato a cercare di stendere veli sul proprio operato», scrive Renato Azioni. «Ma nessuno potrà dire non sapevo – commenta Anna Maria Cappelli – E' questo l'accordo firmato due anni fa con Gheddafi?» Che sia questo o no, come ha scritto Gian Luigi Riccardi, «se si firmano accordi col diavolo, è naturale che quello spalanca le porte all’inferno».



«I media diano spazio al caso Rischiamo un auto-bavaglio»

l'Unità, 05-07-2010
Natalia Lombardo
I grandi giornali ignorano il dramma dei 245 eritrei detenuti in condizioni disumane in Libia. L'Unità ha acceso un faro sulla vicenda, ripresa da pochi tg e alcuni quotidiani. Natale, Fnsi: «È un auto-bavaglio».
Quando il bavaglio è nella testa: ci sono notizie che i grandi giornali ignorano o relegano nelle venti righe di un box. Avviene in questi giorni sulla drammatica vicenda dei 245 eritrei detenuti come bestie nel carcere libico di Brak, denunciata da l'Unità il 2 luglio. Silenzio sui grandi giornali, dal Corriere della Sera a La Stampa, un box «il caso» su la Repubblica di ieri. Un meccanismo che Roberto Natale, presidente della Federazione della Stampa, definisce di «autobavaglio. Non è solo un problema di censura, ma anche di autocensura». Un silenziatore «non imposto da alcuna legge». Così destini segnati non hanno «dignità di notizia», mentre «un tg dedica un servizio su come si aprano le bottglie di champagne con un colpo di sciabola...».
SILENZIO STAMPA
Ieri dal deserto è arrivato l'ultimo grido afono per sms: «Stiamo morendo, aiutateci». A rompere il silenzio ad alta voce, nel deserto dell'informazione italiana, è stata l'Unità venerdì scorso, raccoglien-do l'appello dei detenuti comunicato da un sacerdote, accendendo un faro sulle loro condizione disumane nel buio di tre celle.
Il primo luglio il manifesto ha raccontato la prima tappa infernale degli eritrei a Misratah, altri articoli sono usciti fino a ieri. Il 2 luglio il Tg3
ha ripreso la notizia «gridata» a ragione da l'Unità già nell'edizione delle 14 con un lungo servizio e la voce di chi sta vivendo il dramma, approfondito la sera su Linea Notte. Notizia e servizi anche su RaiNews e Sky. Ieri l'Avvenire, quotidiano della Cei, ha riservato una pagina alla «sorte dei respinti»; Terra, quotidiano ecologista, un ampio riquadro alla voce «diritti umani». Diritti che si restringono su Repubblica, spariscono sugli altri giornali, anche quelli agguerriti nel difenderli. Il 2 luglio la notizia è stata rilanciata dalle agenzie di stampa e ripresa da numerosi parlamentari Pd, Idv, Udc e radicali, oltre ai Verdi e qualche voce nel Pdl; nel governo solo il sottosegretario Boniver.
Roberto Natale parla di qualità dell'informazione: tanto più in piena battaglia per la libertà di stampa non ci si può imbavagliare da soli. Ma c'è qualcosa di più profondo, secondo il presidente Fnsi, che si richiama alla «Carta di Roma varata due anni fa, che definisce i termini corretti da usare», ma anche l'attenzione ai temi.
Sull'immigrazione  "questi anni la società e la stampa italiana sono state investite dalla campagna dell'osservazione sicuritaria. Ma grandissima parte della nostra informazione ha riportato senza commenti la cifra fornita dal ministro dell'Interno Maroni alla Festa della Polizia : ha vantato l'abbattimento del 90% degli arrivi di migranti come un successo del governo. Ecco, nessuno dei nostri giornali si è chiesto da cosa derivasse questa cifra, o che fine abbiano fatto gli immigrati. La risposta ora c'è, ed è drammatica».
Ma «se il rispetto della vita umana non è solo retorica, si deve avere attenzione su vite che spariscono nel nulla, anche in conseguenza delle politiche italiane sui respingimenti», conclude Natale. ?



Permessi di soggiorno. A Pisa sperimentazione congiunta tra comune, prefettura e questura per semplificare le procedura
Rinnovi in cerca dello sprint
Per i patronati servono da 1,5 a 6 mesi a fronte dei 20 giorni previsti per legge
il Sole, 05-07-2010
Carlo Giorgi
Parola d'ordine per le questure: tagliare al più presto i tempi per i rinnovi dei permessi di soggiorno. L'input viene dall'alto. È stato lo stesso ministro Roberto Maroni infatti, lo scorso 9 giugno, in occasione della firma del "Patto per Pisa sicura", ad annunciare che comune, prefettura e questura della città toscana avrebbero collaborato in una "sperimentazione" finalizzata a rendere la procedura dei rinnovi «il più semplice e tempestiva possibile».
Che i tempi dei rinnovi dei permessi di soggiorno in Italia siano più lunghi dei 20 giorni previsti per legge, non è un mistero. E non è solo un problema degli immigrati: l'attesa causa anche incertezza ai datori di lavoro, costretti a subire la situazione di vuoto amministrativo dei loro dipendenti. «A Pisa i tempi di attesa per il rinnovo sono in media di due mesi e mezzo - spiega Gabriele Frasca, dirigente dell'ufficio immigrazione della questura-. Abbiamo già iniziato gli incontri per definire la sperimentazione voluta dal Ministro. Noi della questura tecnicamente saremmo pronti a delegare al comune gran parte del nostro lavoro. Si tratta di capire, normativamente, come sia possibile farlo».
«Alleggerire il lavoro dei nostri uffici è la strada giusta - conferma Raffaele Micillo, questore di Pisa -. Almeno otto dei quindici uomini dell'ufficio immigraziopne sono impegnati nell'adempimento di pratiche amministrative. Se fossero sciolti da queste incombenze, guadagneremmo il 50% del personale per operazioni sul territorio. La speranza è che, entro il 2010, la sperimentazione diventi operativa».
È a "macchia di leopardo" la geografia italiana dei tempi dei rinnovi dei documenti di soggiorno. Si passa da questure "lente", penalizzate spesso da un grande numero di soggiornanti stranieri, a questure "veloci", dove si sono affinate procedure più efficaci. «Le cose sono migliorate - ammette Roberto Morgantini, responsabile dell'ufficio stranieri della Cgil di Bologna -. Non si formano più le lunghe code davanti alle questure, fin dall'alba, con immigrati che non sanno se il loro permesso sia arrivato o no. Oggi, quando lo straniero spedisce per posta i documenti, riceve la conferma di una convocazione in questura per rilasciare le impronte digitali, dopo soli 15 giorni. Il problema però è che, da quell'appuntamento all'avere il permesso rinnovato, passano anche sei mesi».
Migliore la situazione a Milano: «Qui, per i rinnovi si attendono dai 30 ai 40 giorni - spiega Maurizio Bove della Cisl -. Il problema di Milano è sui ricongiungimenti familiari, dove l'attesa è di diversi mesi. Siamo convinti che la situazione si sbloccherà solo passando a una gestione dei permessi attraverso gli enti locali e un maggiore numero di personale impegnato».
A Torino e Firenze i tempi di attesa si attestano intorno ai due mesi: «Nulla a che vedere con gli oltre dieci mesi di due anni fa - spiega don Fredo Olivero, direttore della Pastorale per i migranti della diocesi di Torino -. E risultata vincente la decisione della questura di convocare periodicamente gli operatori, per discutere insieme degli eventuali problemi emersi».
Tra gli addetti ai lavori è opinione diffusa che i ritardi nei rinnovi dipendano dalla "centralizzazione" delle pratiche. «Il personale locale fa tutto il possibile - spiega Olivero -; ci sono però problemi per via della centralizzazione a Napoli o a Roma; a volte si creano ritardi o vengono inviate pratiche sbagliate». A Napoli l'attesa per il rinnovo, secondo la Cgil, è intorno ai tre mesi: «La questura adotta il sistema dell'sms - spiega Enzo Annibali, della camera del lavoro provinciale -. Al momento del foto-segnalamento viene dato un codice con numero progressivo assieme all'invito a inviare un sms alla questura entro 50 giorni. Inviando l'sms si riceve una risposta che informa della presenza 0 meno del documento in questura». A Roma la situazione è complicata dal grande numero di stranieri presenti in città. «Abbiamo 35omila regolari, e alla fine del 2010, se ne aggiungeranno altri 35mila per via della regolarizzazione di colf e badanti - spiega Maurizio   Improta,   dirigente dell’ufficio immigrazione della questura di Roma -. Con questi numeri, la forbice dei tempi di attesa tende ad allargarsi. Nel caso di una pratica di rinnovo priva di complicazioni, dall'invio in posta dei documenti alla consegna del permesso allo straniero passano in media 45 giorni», spiega Improta. Tempo che secondo gli operatori locali è da intendersi più dilatato: «A Roma, l'attesa media del rinnovo, secondo i nostri operatori, non è inferiore ai sei mesi» spiega Lorenzo Chialastri della Caritas di Roma.



Domande respinte per furto d'identità

il Sole, 05-07-2010
Sono 15.320 al 30 giugno, secondo il ministero dell'Interno le «pratiche rigettate» in base al provvedimento di emersione per colf e badanti. Posizioni incomplete di documenti ma anche, in parte, vere e proprie truffe che hanno visto nel ruolo della vittima ora i lavoratori ora i datori di lavoro. «A Milano, a oggi, abbiamo convocato per la firma del contratto 34mila posizioni - spiega Antonio Luigi Quarto, responsabile dello sportello unico della prefettura -. Circa 1.500 dei datori di lavoro convocati sono stati vittime di un furto di identità e hanno scoperto all'atto della convocazione il loro coinvolgimento. Delle 5.500 pratiche che abbiamo chiuso per inammissibilità prima della convocazione, invece, quasi la metà riguardano inconsapevoli datori di lavoro, nella stessa condizione. Quello che raccomandiamo a tutti, quando ne vengono a conoscenza, è di fare una denuncia. Noi, in ogni caso, archiviamo l'istanza di emersione e comunichiamo alla questura il caso». Anche a Roma i casi di truffa riguardanti il provvedimento di emersione non mancano: «Il paletto delle due badanti e di una colf come massimo, ha permesso di smascherare i casi in cui un solo datore chiedeva la regolarizzazione di decine di lavoratori -spiega Maurizio Improta, dirigente dell'ufficio immigrazione della questura -. Allo stato attuale, abbiamo circa 75 deleghe di indagine da parte della questura di Roma, partite da altrettante denunce di cittadini che si sono ritrovati datori di lavoro senza saperlo. Le indagini hanno portato a indagare almeno 200 persone».
In molti casi è emerso come il furto di identità sia avvenuto per via telematica, con dati facilmente disponibili in rete. «Tra i navigatori, specie nei social network, c'è ancora una scarsa percezione del pericolo - spiega Marco Valerio Cervellini, responsabile progetti di educazione alla legalità della polizia postale -. Quello che suggeriamo è di evitare sempre di inserire i propri dati sensibili in rete».



"Indegno negare l'affitto ai gay" l'ira del ministro: servono sanzioni

Carfagna: episodi inaccettabili Luuxuria: colpa dei pregiudizi
la Repubblica, 05-07-2010
Caterina Pasolini
ROMA — «Sono episodi inaccettabili, indegni di un paese civile e democratico come è il nostro». Il ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna bolla così il fenomeno delle case negate in affitto ai gay, gli appartamenti lasciati vuoti, le stanze rifiutate a studenti solo perché non eterosessuali.
Una realtà diffusa da Torino a Palermo senza distinzioni, un no agli omosessuali come inquilini che corre in rete negli annunci sul web, sui giornali di annunci immobiliari o sulle bacheche universitarie, tra rifiuti dichiarati a chiare lettere e dinieghi formali o vaghi delle agenzie, come ha raccontato la nostra inchiesta pubblicata ieri.
Storie di discriminazione confermate da chi ha vissuto sulla propria pelle e su quella di amici e conoscenti giornate fatte di porte sbattute in faccia dopo accordi telefonici, di alloggi negati all'ultimo momento, di scuse accampate improvvisamente alla vista dell'inquilino. «Perché al di là dell'omofobia -dice Vladimir Luxuria - c'è il pregiudizio che gli omosessuali abbiano una vita sregolata, che la casa sia un via vai continuo di feste. E c'è l'idea che un gay voglia sedurre chiunque, come se non avesse gusti e preferenze come tutti. Sono comportamenti anti costituzionali perché è come dire: tu non meriti neppure di avere un posto dove vivere, non hai diritto neanche ad un tetto sopra la testa».
Franco Grillini, presidente onorario dell'Arcigay, propone di tassare chi lascia le case sfitte per invogliare i proprietari riottosi. Anche perché, secondo gli esponenti del mondo omosex la situazione sta peggiorando: «Casi di omosessuali mandati via di casa oppure rifiutati si moltiplicano, e il fatto che la gente scriva chiaramente negli annunci "non si affitta ai gay" significa che si sente autorizzataa dirlo senza che nessuno contesti, significa che c'è un clima culturale favorevole a questo rifiuto», sottolinea Andrea Berardicurti del circolo Mario Mieli dove all'ufficio legale arrivano sempre più spesso segnalazioni di questo tipo da parte di gay in difficoltà.
Che fare, visto che sui contratti privati di affitto lo Stato non può intervenire? Secondo il ministro Carfagna, occorre investire su una cultura della «non discriminazione, come abbiamo fatto con la campagna contro l'omofobia in cui dicevamo: non essere tu quello diverso». Ma ancora non basta, così il passo successivo dopo tavoli di lavoro con le organizzazioni che si occupano del mondo omosessuale e transgender sarà «creare grazie all'Unar e in sinergia con molte Regioni ed enti locali, una rete efficiente di centri territoriali anti discriminazione».
Sino ad oggi l'Unar, l'Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali, è intervenuto più volte contro giornali e siti web che pubblicavano annunci tipo «non si affitta agli immigrati" sanzionandoli. Ora, questa l'idea, allargherà il suo raggio d'azione ricevendo le segnalazioni dalle associazioni e interverrà anche per chi viene discriminato per il suo orientamento sessuale.
«Le cose devono cambiare, altrimenti non resterà altra scelta che continuare afìngere o a nascondersi per poter avere un tetto come hanno fatto alcuni amici. Difficile che qualcuno accetti come inquilino un gay se dà ascolto a quello che dice la Chiesa, che ci addita come il nemico pubblico numero uno, come quelli che minano le fondamenta dello Stato, del paese, della famiglia», polemizza Grillini.
Ma non tutti sono così, ricorda Luxuria. «Io sono stata fortunata, vent'anni fa ho trovato casa in un quartiere gay friendly, il Pigneto. Il proprietario non ha mai fatto problemi anche perché ero regolare nei pagamenti e rispettosa dei vicini che erano adorabili ed affettuosi».



La pagella della solidarietà
Promosso il bimbo rom tornò in classe grazie agli Angeli e a una colletta

Latina oggi, 05-07-2010
Francesca Del Grande
Le belle storie meritano di essere raccontate e se poi ad essere protagonista è un bambino, acquistano un sapore ancora più dolce. Di lui, del piccolo rom che vive in un camper alla periferia di Aprilia con la mamma, se ne è parlato più volte, quando fu costretto ad abbandonare la scuola per quattro anni nel 2007 e poi ancora recentemente, a gennaio, quando gli Angeli aps sono riusciti ad iscriverlo al IV circolo didattico diretto da Enrico Raponi, e a consegnare ai suoi il tesserino per prendere lo scuolabus. L'intera città si è mobilitata per aiutarlo. E oggi, la sua promozione, diventa una soddisfazione di tutti.
«PROMOSSO» e con un giudizio lusinghiero: «Ha recuperato velocemente i mesi di assenza dai banchi». E' una bella soddisfazione per lui ma anche per tutti quelli che hanno voluto aiutarlo. Non sempre, purtroppo, le cose vanno così. Il bimbo rom di Aprilia che non andava a scuola da quattro anni e vi era ritornato grazie all'intervento degli Angeli aps, ce l'ha fatta. Sì, ha superato l'anno. Anzi, ha bruciato i tempi, recuperato le lacune e dimostrato la sua idoneità a frequentare la quarta elementare.
La sua storia è nota e a suo tempo ha coinvolto la città. Il piccolo, che ora ha dieci anni, vive con la mamma in un camper alla periferia di Aprilia.  Nel 2007 era stato costretto ad interrompere la frequenza alla prima elementare perchè privo di mezzi. Poi, nello  scorso gennaio, aveva potuto riprendere a frequentare la scuola con l'iscrizione al IV Circolo didattico, seguito con impegno costante da parte del dirigente scolastico Enrico Raponi, dal coordinatore del plesso e dalle sue insegnanti. A recupero ha partecipato anche l'Amministrazione comunale che, raccogliendo l'appello degli Angeli, ha esentato la famiglia del pìccolo rom, priva dì redditi, dalle spese per l'uso dello scuolabus. «Non è stato affatto un risultato scontato», spiegano oggi gli Angeli. E* stato infatti necessario farsi carico dell'accoglienza nei confronti del bambino, provvedere a risolvere iter amministrativi, procedure mediche (vaccinazioni), difficoltà di inserimento e necessità assistenziali dovute allo stato di povertà in cui versa il gruppo familiare allargato del piccolo rom (che è italiano). Come si ricorderà, scesero in campo anche i lavoratori della Seli di Aprilia che per il bimbo organizzarono una raccolta, raggiungendo una piccola somma servita poi per le spese quotidiane (un paio dì scarpe nuove, il barbiere, le vìsite mediche) e per gli accompagnamenti. Una bella catena di solidarietà, dunque, che ha portato al risultato più felice. L'altro giorno, al IV circolo didattico, in tanti avevano gli occhi pieni dì commozione al momento della consegna della pagella, dalla mamma del piccolo al componente delle unità di strada Angeli che ha seguito il caso, al corpo Insegnante. Ora però si presenta un altro scoglio. Il piccolo, per non vanificare il lavoro svolto, deve trovare chi lo segua anche nei mesi estivi. Si cerca quindi una persona che almeno qualche volta, durante la settimana, possa recarsi da lui per sostenere il processo di apprendimento, rendendo così più facile il suo ritorno in classe a settembre. Se ci sono insegnanti in pensione o persone in grado di fare quanto si è detto, gli Angeli le invitano a dare la propria disponibilità, al numero per le emergenze sociali Es24, il cellulare 334.1531054 che ri sponde tutti i giorni dalle 9 alle 20.
Minori in difficoltà, dispersione scolastica, bambini privati ingiustamente dei loro diritti. E' una realtà sommersa ma dai numeri imponenti che da quando la sala operativa sociale degli Angeli era gestita direttamente dalla Provincia e dalla Prefettura, ha cominciato ad emergere. In seguito alla chiusura del servizio e alla sua trasformazione, alcuni operatori e coordinatori dello stesso hanno dato vita all'associazione di promozione sociale Angeli che sta continuando a seguire e a gestire le situazioni dì disagio, in particolare lì dove sono protagonisti dei minori. Un compito arduo, ancor più se alle prese con risorse minime. Fortunatamente la solidarietà non manca. E il sorrìso di un bambino diventa per tutti il «grazie» più appagante. Bravo!



Arte Al Museo Riso di Palermo e alla Fondazione Puglisi di Catania prove di meticciato culturale
Turchi, marocchini e greci in Sicilia è la fiera delle Biennali del Mediterraneo

Corriere della Sera, 05-07-2010
Pierluigi Panza
Il merito encomiabile di chi esplora nuovi mondi dev'essere disgiunto dalla qualità del mondo che trova. Ciò premesso, la mostra «Others: sguardi mediterranei sull'arte contemporanea» a Catania (dal 9 luglio) e a Palermo (dal 10), che espone opere dalle Biennali d'arte di Marrakech, Istanbul e Atene va salutata come prova generale per un più ampio progetto che nel 2011, in tutta la Sicilia (20 siti), vedrà ospitata l'arte contemporanea del Mediterraneo. L'ha organizzata Riso, Museo d'arte contemporanea della Sicilia, con la cura di Renato Quaglia, e Con l'intento di presentare altri punti di vista sull'arte contemporanea. Palermo ospita una selezione di video, film, sculture d'architettura e sceniche di 26 artisti selezionati per la III Biennale d'arte di Marrakech da Abdellah Karroum; a Catania, la Fondazione Puglisi Cosentino ospiterà, della Biennale di Atene, opere sul tema del vissuto personale in tempo di fallimento sociale (18 artisti selezionati da Xenia Kalpaktsoglou, Poka-Yio e Augustine Zenakos) e 26 artisti della XI Biennale di Istanbul (selezionati da Ana Devic, Natasa Ilic, Sabina Sabolovic e Ivet Curlin) sui temi della crisi economica.
Se l'arte africana ha dato molto alle avanguardie del Novecento, non bisogna aspettarsi forza propulsiva dal Magreb per l'attuale post arte. Del resto non si può parlare di influenze, come un secolo fa, ma di contaminazioni, di meticciato. E, nei casi recentemente in esame, appare più evidente lo sforzo degli «artisti contemporanei» del sud del mondo di impossessarsi di soluzioni concettuali già viste a New York, Londra e in Cina (con Sun Yuan and Peng Yu, per esempio) che viceversa.
L'attenzione al meticciato artistico, molto politically correct, sta portando al moltiplicarsi di utili iniziative, come la presenza di Pascale Martin Tayou esposto all'ultima Biennale di Daniel Birnbaum, come a Genova il ciclo dedicato alla Biennale del Mediterraneo e ora con il Riso, che
può ben rivendicare il ruolo di promotore di confronti. Molti degli artisti di «Others» (come Igor Grubiae 0 Erkan Ozgen) propongono video, alcuni delle installazioni, altri riflessioni-dissacrazioni religiose, come il greco Sawas Christodoulides con la ceramica The blushing Virgin (La ti¬mida Vergine), una Vergine che cessa di pregare e si copre gli occhi. Altri, come il turco Jinoos Taghizadeh, con Rock, Paper, Scissors (Sasso, Carta, Forbici) denuncia che l'arte altro non è che un gioco scorretto. Nei giorni delle inaugurazioni a Palazzo Valle di Catania ci sarà anche Raise the Roof, coreografia della turca Nevin Aladag e a Palazzo Riso di Palermo un concerto di Hassan Khan.
Bisogna dire, però, che l'enfant terrible algerino Adel Abdessemed sembra dotato di una carica «eversiva» più forte rispetto a marocchini e turchi, come ha mostrato la controversia occorsa in occasione della sua esposizione alla Fondazione Re Rebaudengo di Torino.



Messico, strage tra narcos nel deserto al confine Usa

Corriere della Sera, 05-07-2010
Guido Olimpio
Sono 29 i morti tra le due bande che si contendono la zona
WASHINGTON — Lui si fa chiamare El Gilo ed è un piccolo boss messicano al confine con l'Arizona. Con una gang di «300 sicari» regna su un corridoio attraverso il quale passano clandestini e droga: è la rotta Altar-Tubutama-Sàric-Nogales. Un paio di strade che si infilano tra colline del deserto di Sonora. Il segnale dei cellulari è debole e persino le radio ricetrasmittenti hanno problemi. Da queste parti chi non si fa gli affari propri muore. E anche la polizia guarda dall'altra parte. Soprattutto se tira aria di regolamento di conti.
Ed è quello che è accaduto all'alba del primo luglio. Un convoglio di cinquanta veicoli si è avvicinato alla zona tenuta da El Gilo. Grosse jeep e camioncini marcati con le x sui vetri e stracci di stoffa rossa per evitare il fuoco amico. A bordo i narcos guidati da Felix «Ice cream», Nini Beltran e Raul Sabori. Per alcuni sono legati al cartello di Sinaloa, il clan più potente e in guerra con El Gilo, per il controllo di questa regione. Alcune testimonianze ribaltano gli schieramenti: le x sarebbero un segno per indicare l'appartenenza ai Los Zetas, ex soldati passati con i crimi¬nali. Altri ancora sostengono che lo scontro è reso ancora più spietato da una faida personale. Sabori avrebbe freddato il fratello di El Gilo nella piazza di Atil. Atmosfere e paesaggi che ricordano film come «El Mariachi» e «Il mucchio selvaggio». Non sai di chi fidarti. Prima spari, poi cerca di capire il perché. E il cadavere deve subire l'oltraggio della mutilazione.
Gli uomini di El Gilo, nonostante fossero circondati da giorni e a corto di rifornimenti, si sono preparati a dovere giocando d'astuzia. Il bandito ha disposto delle vedette e creato dei punti di fuoco. Quando il corteo di veicoli è arrivato nei pressi del rancho «La pasion» ha incontrato la sua passione di sangue. Dai lati della strada i cecchini di El Gilo hanno sparato con Kalashnikov e fucili americani cogliendo di sorpresa gli invasore Una pioggia di piombo. Quasi mille proiettili. E i sicari sono caduti come mosche. Il numero esatto è sconosciuto. Gli abitanti della zona parlano di 29 ammazzati e 40 feriti, più contenuto il bilancio ufficiale, «solo» 21 vittime. Quando, dopo molte ore, è arrivata la prima pattuglia della polizia ha trovato i veicoli con i ricami disegnati dai colpi dei mitra. Alcuni mezzi erano distanti diversi chilometri, forse l'indizio di un tentativo di sottrarsi alla trappola. E' anche possibile che una parte degli uccisi sia stato portata via dei complici per evitarne l'identificazione.
Davanti all'ultimo massacro le autorità hanno reagito con imbarazzo. E non potrebbe essere diversamente, visto che in teoria le forze di sicurezza erano in allerta per proteggere le elezioni amministrative. Ieri la popolazione è andata al voto in 14 Stati in un clima di minacce che potrebbe penalizzare il partito al potere del presidente Felipe Calderón. L'uomo politico ha fatto della lotta ai narcos la sua bandiera ma non è riuscito a spezzare le troppe complicità.     .
Fonti della frontiera sostengono che la polizia e i soldati sapessero della tempesta di fuoco. E sembra che El Gilo avesse chiesto anche aiuto. Una settimana fa, poi, il responsabile della sicurezza pubblica di Tu-butama, Gerardo Mendez, e il tesoriere del comune, Sergio Diaz, erano stati assassinati mentre cercavano di raggiungere le colline. Nel retro del loro Suv un paio di bidoni di benzina. Il  loro omicidio è collegato alla strage? Qualcuno lo ipotizza.
Il 2 luglio la stampa ha riportato informazioni sull'arresto di diversi criminali — compresi tre minori — e il ritorno dell'ordine ma ieri abitanti della regione hanno raccontato una storia diversa: i militari sono spariti dalle strade. Voci incontrollabili come quelle che segnalano gruppi armati in movimento verso Saric. Probabilmente rinforzi dei narcos per dare una mano ai complici.
In Messico sangue chiama sangue. Qualcuno vorrà farla pagare cara a El Gilo. La sua sconfitta permetterebbe ai nemici di impadronirsi di una serie di fattorie che, liberate dagli abitanti, sono state trasformate in punti di appoggio per i polleros, i trafficanti di uomini che portano gli immigrati in Arizona. Odio e affari illegali per il prossimo duello al sole nel deserto di Sonora.



La corsa ad ostacoli per diventare italiani in un Paese cinico

l'Unità, 03-07-2010
In Parlamento sono state presentate diverse proposte di legge relative all’acquisizione della cittadinanza italiana da parte degli stranieri. Proposte che nelle scorse legislature non sono riuscite a trasformarsi in legge e che oggi, a due anni dalle ultime elezioni, sono attese con speranza da molti stranieri residenti in Italia. Stranieri che lavorano nelle nostre fabbriche, mangiano i nostri cibi, parlano la nostra lingua e che frequentano le nostre scuole.
Stranieri che sarebbero accolti come estranei nei loro paesi di origine perché ormai sono italiani, anche se non ne hanno ancora ottenuto il riconoscimento formale.
Mentre in Parlamento si discute, nel mondo reale può accadere di tutto. A Viareggio, la notte del 29 giugno 2009 un treno cisterna carico di gpl deragliò causando la morte di trentadue persone. Tra di loro c’era un cittadino marocchino in attesa dell’esito della sua richiesta di cittadinanza, con tutta la sua famiglia. La sua casa è andata in fiamme e lui è tornato indietro a salvare le carte della pratica. Ci teneva a diventare italiano. Di quella famiglia si è salvata solo la figlia Ibtissam Ayad, Ibi, come la chiamano i suoi amici italiani.
Nei giorni scorsi, l’Italia, commossa per questa storia, ha voluto concederle la cittadinanza. In un comunicato del Consiglio dei ministri si legge che “Con questo gesto l’Italia intende offrire alla signora Ayad un concreto strumento di aiuto e solidarietà, in considerazione del desiderio manifestato di rimanere in Italia”. Se non vi scandalizzate, potremmo commentare così: dovrebbero esserci modi meno cruenti per diventare più rapidamente cittadini italiani.
Italia-razzismo

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Perchè Italia-Razzismo 


SPORTELLO LEGALE PER RIFUGIATI E RICHIEDENTI ASILO

 

 


 

SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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