Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

12 aprile 2010

Il Belgio vuol bandire il velo integrale
ItaliaOggiSette, 12-04-2010

Il Belgio mette al bando il velo integrale. La commissione affari interni della camera dei deputati ha dato il primo via libera d'Europa al divieto assoluto di portare il burqa nei luoghi pubblici. Divieto che potrebbe entrare in vigore già a partire dalla prossima estate. Quello che non è riuscito alla Francia, sembra quindi destinato a diventare realtà in Belgio, uno dei paesi europei con il maggior numero di immigrati musulmani. Il testo, approvato all'unanimità, è stato presentato dalla maggioranza parlamentare dei liberali e cristiano-democratici, ma è stato sostenuto anche dai socialisti e dalla destra. Unica voce fuori dal coro, quella dei Verdi, che hanno proposto di consultare il consiglio di stato per mettersi al riparo da possibili azioni della Corte europea dei diritti dell'uomo. La legge prevede una modifica al codice penale e introduce un'ammenda da 15 a 25 euro e una settimana di carcere per chiunque si presenterà in un luogo pubblico con il volto coperto o mascherato in tutto o in parte in modo da rendere impossibile l'identificazione. Niente più velo integrale quindi in strada, nei parchi o al ristorante. Ma neanche all'ospedale, nelle scuole e in tutti gli edifici pubblici. Le uniche eccezioni previste dalla legge riguardano le feste o manifestazioni autorizzate dal comune, come il carnevale. Ma quali sono le ragioni di tanta determinazione nel mettere al bando il burqa? Secondo i deputati, la legge è necessaria per due motivi: garantire la pubblica sicurezza, e quindi l'identificazione delle persone; e rispettare la dignità delle donne, assicurando anche il rispetto dei principi democratici fondamentali.









Sentenze che si contraddicono
«Negro di m...» non è razzismo
Offese un senegalese: condannato per ingiuria. Ma in un caso simile la Cassazione ha detto l'opposto
Libero, 12-04-2010
SILVIA CRIVELLA   

Trevigiano insulta senegalese e gli dice "Negro di m...". È condannato per ingiurie ma il giudice dice: «Non è razzismo». L'episodio risale al 2006 per una lite tra i due, ma ora la sentenza del Tribunale di Treviso emette una condanna per ingiurie con ammenda di 250 euro ma esclude l'aggravante dell'odio razzista. Una decisione che, c'è da scommettere, farà discutere a lungo. Anche perché arriva a distanza di soli pochi giorni da un'altra sentenza della Cassazione che si è espressa in senso contrario. E, per di più, in coda a una serie di episodi simili avvenuti sui campi sportivi.
Tutto ha inizio quattro anni fa in una lavanderia di Oderzo, comune alle porte di Treviso.
I protagonisti della storia sono il titolare del negozio, Alessandro Agostinetto, 39 anni, e un suo cliente senegalese, N'diaye Talla. L'11 ottobre quest'ultimo porta dei capi in lavanderia. Dopo averli consegnati fa per andarsene, senza pagare. In seguito si sarebbe giustificato dicendosi convinto di dover dare i soldi soltanto dopo il ritiro. A quel punto - in base alla ricostruzione della Procura - il titolare aggredisce a parole Talla, con una serie di insulti che iniziano con "negro di m..." e proseguono con "sei una testa di c..." e "sei un comunista". Dopodiché il senegalese viene invitato ad allontanarsi e a lasciare il negozio.
Da qui parte la denuncia di Talla per le offese ricevute da Agostinetto. Il giudice di pace rinvia gli atti al tribunale proprio a causa del capo d'imputazione che contiene l'aggravante dell'odio razziale.
Agostinetto, tramite il legale, si difende dicendo che «il cliente non voleva pagare per cui è stato invitato ad andarsene». Due giorni fa l'udienza a Treviso ha posto la parola fine a questa vicenda, pur gettando maggior fumo negli occhi di chi vorrebbe vederci chiaro in questa faccenda di cosa è e cosa non è razzista.
Il giudice del Tribunale di Treviso ha, infatti, condannato il commerciante semplicemente per ingiurie punendolo con un'ammenda di 250 euro oltre al pagamento delle spese legali.
E dire che soltanto il 25 marzo scorso la Corte di Cassazione aveva pronunciato la sentenza 11.590, rispondendo al ricorso della Procura di Trieste che chiedeva una condanna a un immigrato residente a Pordenone che aveva insultato un uomo chiamandolo "italiano di m...". La Suprema Corte si è vista costretta a fare un distinguo: l'espressione in questione non avrebbe «connotazione razzista», poiché «italiano, nel comune sentire nel nostro territorio è stragrande maggioranza e classe dirigente che non dà luogo a pregiudizio corrente di inferiorità». La sentenza proseguiva sottolineando poi che l'espressione incriminata non potesse essere equiparabile a "sporco negro" e simili, in quanto «rivolta a persona di pelle scura integra gli estremi di ingiuria aggravata dalle finalità di discriminazione o di odio etnico».
Della serie: c'è razzismo e razzismo. E tra definizioni di nazionalità e sfumature sull'uso della lingua, la confu-sione regna sovrana.
Se poi ci si sposta sui campi da gioco la faccenda si complica ulteriormente. Solo per prendere l'esempio più recente, ci spostiamo nel bresciano, precisamente a Vobarno, dove nella locale squadra di calcio gioca in Promozione il giovane Amada Dosso, classe 1990.
Origini ivoriane. Quindi nero. Durante l'ultima partita contro la mantovana Rivaltese, un avversario inizia a insultare ripetutamente il giovane, ma l'arbitro alza il cartellino rosso solo quando sente che Dosso sta urlandogli in risposta: «Sta zitto, albanese». Avversario, peraltro, italianissimo. Nelle motivazioni dell'espulsione - con squalifica di cinque giornate - si segnalano le offese razziste.
Le perplessità sul vero significato del termine, però, rimangono.

A TREVISO
Nel 2006 a Oderzo un senegalese porta i panni da lavare in lavanderia. Dopo averli consegnati al proprietario, se ne va senza pagare. Scoppia una lite e l'italiano lo apostrofa dicendogli "negrodi m...". L'africano si rivolge al Tribunale: il giudice ha riconosciuto le ingiurie, ma non l'aggravante razzista

IL PRECEDENTE Il 25 marzo la Cassazione ha stabilito che dire "italiano di m...",come aveva fatto un immigrato a Pordenone per insultare appunto un italiano, non è un'ingiuria a sfondo razzista. A differenza di "sporco negro" che ha una connotazione razziale negativa

SUI CAMPI DI CALCIO A Volbarno, in provincia di Brescia, un giocatore ivoriano della squadra locale apostrofa un avversario, che lo aveva provocato, con la frase "Sta zitto, albanese". L'arbitro lo espelle e lo squalifica per ben cinque giornate per offese razziste










"Euro e zingari via dall'Ungheria"
Destra e xenofobi verso il trionfo. I socialisti pagano il rigore: "Almeno non è finita come in Grecia"
La Stampa, 12-04-2010

Ungheria va a destra, molto a destra. Ma il primo vincitore delle elezioni che si terranno domani è la noia, il disinteresse per la politica. Quasi metà degli elettori se ne starà a casa o andrà al Balaton. Il 60 per cento di quelli che entreranno in cabina, a naso turato o no, voteranno invece per i conservatori del Fidesz, e il 10-15% sceglierà Jobbik, la destra più radicale, per la prima volta in Parlamento. Sono appena 20 anni, e cinque elezioni, che l'ex Paese socialista gusta la democrazia piena. Eppure gli ungheresi frastornati dalla crisi sembrano già delusi dalle promesse incrociate dei leader, e dai bocconi avvelenati del capitalismo.
E stato proprio il dissesto economico planetario, arrivato come una pandemia a estenuare il debole fiorino, a sferrare l'ultima mazzata ai socialisti, che hanno governato per otto anni. Avevano il 49 per cento, andrà bene se terranno il 20. Si sono giocati la reputazione con scandali e infortuni che hanno portato alle dimissioni il premier Gyurcsàny, sosia di Bonolis, tra i più ricchi del Paese, possessore di media, ma di sinistra (in Ungheria può succedere); ma paradossalmente anche il rigore e il buon governo sono stati fatali.
L'attuale premier, Bajnai, un uomo d'affari, un tecnico, ha salvato il Paese dalla bancarotta, nel 2008, in piena bufera subprime. L'Ungheria era il «grande malato d'Europa», costretta a chiedere maxiprestiti a Fmi e Uè. Ora può finanziarsi da sola. Gli gnomi dei mercati plaudono, «Bravi ungheresi, non siete la Grecia». La gente no, perché la salvezza dei bilanci è costata tagli alla spesa pubblica, tasse moleste, tredicesime decapitate e una disoccupazione oltre l'll%. Sacrifici e povertà.
Viktor Orbàn, 47 anni, ha puntato tutto lì, sullo scontento. E sarà primo ministro, per la seconda volta. Ha promesso meno tasse, da subito, anche se il suo ministro delle finanze in pectore, prevenendo dubbi da Bruxelles, l'ha corretto sottovoce, «meglio dal 2011». Ha offerto un milione di posti di lavoro, come Berlusconi (che ammira, pure per l'amore verso il calcio), però più realisticamente in dieci anni. Ma con quelle percentuali nei sondaggi, che si direbbero bulgare se non fossero ungheresi, anche la campagna elettorale è stata pigra, sotto tono. Troppo scontato il nome dello sconfitto, più che del vincitore.
L'unico colpo di scena è stato il video sul Web di Andràs Kiràly, candidato per l'estrema destra, talvolta un po' omofoba, mentre fuma spinelli e fraternizza con pittoreschi partecipanti del Gay Pride in Canada. Ha dovuto lasciare la corsa elettorale. Più clamorosa, la condanna di Jànos Zuschlag a otto anni di galera per corruzione.
L'ex socialista aveva stornato fondi pubblici verso le casse del partito socialista. Non ha rubato granché, 265 mila euro dal '98 al 2006, ma i giudici gli hanno affibbiato una pena pesantissima, esemplare, simbolo dell'insofferenza nazionale verso la corruzione, l'incapacità, l'arroganza del potere.
La spina nel fianco dei conservatori è Gàbor Vona, il leader dell'estrema destra, gli Jobbik. Ex storico, 31 anni, volto e toni presentabili, è stato tra i fondatori della Guardia Ungherese, una milizia di angeli custodi per le paure della gente,poi sciolta perché illegale. Tra gli avi vanta un nonno caduto contro i russi nella seconda guerra mondiale, e una famiglia contadina fedele alla terra. E un vecchio mito, questo legame sacro tra suolo e popolo, proclamato anche da grandi scrittori ultranazionalisti come Dezso Szabó, che preserva la forza dell'ungheresità. Oggi i nemici sono gli stranieri che comprano terre e case a prezzi stracciati (anche se c'è una moratoria sui terreni arabili fino al 2011), neocolonialisti dell'euro, criminali rom, speculatori, comunisti travestiti. Su questi temi nazionalisti sbandierati con vessilli tricolori che piacciono agli elettori, Vona sfida la risolutezza della destra moderata: «Ora ci confronteremo in parlamento sulla rapina delle multinazionali, le devastazioni dell'Ue, la criminalità zigana, la corruzione, e la proprietà della terra ungherese».
Il futuro politico del Paese dipende da questo duello a destra, dal mezzo milione di indecisi se scommettere sui blandi o sugli estremi. Se Orbàn conquisterà i due terzi dei seggi (si vedrà dopo il secondo turno del 25 aprile), avrà i poteri straordinari previsti dalla Costituzione, potrà fare riforme, garantire una politica di destra europea (è vicepresidente del Ppe). I suoi ventilati tagli alle tasse, la sua maggiore elasticità nel considerare il rapporto debito/ pil (è al 4 per cento, lo vorrebbe portare al 5 e passa), ai mercati possono andare bene, politiche economiche più nazionaliste no.
In ballo c'è l'euro. Forse arriverà nel 2014. Forse no. Certo è che la strada per la moneta unica sarà lastricata da parametri rigidi, ovvero altre lacrime per la fragile Ungheria, che prevede una crescita zero per il 2010, dopo un -6,2 per cento del 2009. A comandare sarà probabilmente la matematica dell'economia, più che le promesse elettorali. E governare la crisi non è facile. Neanche per chi ha un parlamento in pugno.









Rimpatrio. La quinta legge in sei anni
La Francia rafforza lo stop dei giudici contro i clandestini
il Sole, 12-04-2010
Leonardo Martinelli

Sarà la quinta legge sull'immigrazione approvata in Francia da sei anni a questa parte. Il progetto è stato adottato nei giorni scorsi dal Governo e passerà nelle prossime settimane all'esame del Parlamento. Ufficialmente si tratta di trasporre nell'ordinamento nazionale la direttiva europea sui rimpatri.
Nella realtà Nicolas Sarkozy coglie l'occasione per usare il pugno duro con i sans-papiers, in una fase di perdita dei consensi, soprattutto a vantaggio dell'estrema destra (come dimostrano i risultati delle ultime elezioni regionali). Le polemiche, ovviamente, non mancano.
La principale novità di questo progetto di legge riguarda l'iter delle espulsioni. Attualmente il giudice ordinario

(«juge des libertés et de la détention», Jld) interviene dopo che sono trascorse 48 ore dal fermo del clandestino, in genere prima che il giudice del tribunale amministrativo abbia potuto pronunciarsi sulla sostanza del provvedimento, nella maggior parte dei casi decidendo l'immediato rilascio dell'immigrato.
Con la nuova normativa, la situazione è ribaltata. Il Jld non potrà dire la sua prima di cinque giorni. «In questo modo il clandestino potrà essere espulso senza che in alcun momento il giudice ordinario abbia controllato la procedura», sottolinea Patrick Henriot, del sindacato della magistratura, scettico su questa novità. Insomma, è il giudice amministrativo, nella maggioranza dei casi propenso al rimpatrio, a prendere il sopravvento. Sempre sulla stessa lunghezza d'onda, il Jld, se riuscirà a intervenire, dovrà farlo entro 24 ore, una volta scattati i cinque giorni dal fermo. Per predisporre e presentare un ricorso nei confronti della sentenza del giudice ordinario, quello amministrativo avrà a disposizione sei ore, invece della quattro attuali.
Centri di permanenza
La permanenza massima è di 32 giorni, la nuova legge inten-de allungarla fino a 45. «Ma anche così - ha sottolineato Eric Besson, ministro dell'Immigrazione - la Francia resterà il paese europeo con il periodo massimo più corto». Va detto che attualmente la permanenza nei centri è in media di appena dieci giorni e mezzo. Solo un terzo dei clandestini che vi entrano ritornano nei loro paesi. Nel 2009 sono stati circa 29mila. Per il resto, un terzo non ottiene il lasciapassare del proprio paese ed è liberato. Un altro terzo lo è dal giudice ordinario e appena il 4% del totale da quello amministrativo.
Premi ai «migliori»
Il progetto propone anche misure «positive» a favore degli immigrati che dimostrino di integrarsi alla perfezione, sul piano del lavoro e della conoscenza della lingua. In questi casi il limite dei cinque anni minimi  indispensabili per ottenere la cittadinanza potrà essere abbassato a tre o addirittura a due. Altro punto: la creazione di una «carta blu europea», valida in tutta la Uè, che faciliterà gli spostamenti da un paese all'altro per coloro che hanno effettuato almeno tre anni di studi universitari dopo la maturità e che dimostrano di aver percepito nel paese d'origine uno stipendio "qualificato" superiore del 50% al livello minimo lì in vigore.










Le cinque rotte dell'emigrazione cinese

Corriere della sera, 12-04-2010
Guido Olimpio

Dai porti del Fujian all'America, passando per Roma Così le «teste di serpente» trasportano la merce umana
Per gli immigrati cinesi l'America è la «montagna dorata». Un nome che ricorda le fatiche di tanti lavoratori orientali all'epoca dela corsa all'oro in California. Ieri come oggi migliaia di clandestini cinesi provano a raggiungerla cercando nuove rotte. L'ultima, emersa nel corso del 2009, passa attraverso il Messico e punta verso Texas, Arizona e California. Una via che, a sorpresa, ha una delle sue tappe intermedie in Italia.
A confermarci la tendenza i funzionari della Border Patrol incontrati nei tre Stati, veri avamposti di frontiera. Nel periodo Ottobre 2008-Settembre 2009 sono stati intercettati 1126 cittadini cinesi entrati clandestinamente nel Paese. Il record degli arresti spetta all'ufficio di McCallen (Texas) con 667, quindi Tucson (Arizona) con 261, poi Laredo (Texas) con 198 e il resto in località minori. Certo, il numero dei cinesi fermati è solo una minima parte nel computo globale di 556.041 clandestini bloccati sul Rio Grande. Tuttavia il fenomeno è tenuto sotto osservazione perché le autorità federali ritengono che vi siano legami pericolosi tra i trafficanti di uomini e i narcos. La via messicana è parte del grande movimento gestito dal racket cinese. Un flusso che porta nelle tasche dell'organizzazione 3-4 miliardi di dollari all'anno.
Le «teste di serpente» — così sono chiamati i capi delle bande — hanno sviluppato e ampliato diverse tratte che partono, quasi sempre, dalla regione del Fujian, tradizionale serbatoio dell'immigrazione.
Quéste le principali «strade»: 1) Bangkok-Tokio-Unione Europea 2) Bangkok-Bucarest-Europa occidentale 3) Ecuador-Belize-Messico-Usa 4) Italia, Venezuela 0 Cuba, Messico, Usa 5) Isole Marianne, Guam, Usa.
Dalla «mappa» si comprende come Bangkok sia una piattaforma im¬portante: è qui che i trafficanti acquistano passaporti contraffatti, realizzati dai falsari che agiscono nel distretto di Land Prao. La loro abilità è sopraffina Per spostare la «merce» le teste di serpente si affidano quasi sempre agli aerei 0, quando ne han¬no la possibilità, a vecchie carrette del mare. Una ripetizione su scala di minore di quanto combinato negli anni 90 dall'intelligente e spietata Sorella Ping, capace di far arenare una nave con 300 clandestini sulla spiaggia del Queens, a New York. Fondamentali sono le basi avanzate. Con meticolosità e pazienza i mercanti di uomini cinési hanno creato delle enclave che servono da trampolino. Oltre a quella thailandese, sono molte attive le «colonie» in Ecuador e nel Belize. Le gang si infiltrano nelle comunità cinesi, aprono società di copertura, dispongono di case sicure dove ospitano i clandestini in transito. Chi gestisce il traffico sfrutta le politiche dei visti di alcuni Paesi e una certa rilassatezza nei controlli. Poiché Ecuador e Belize non sono troppo rigidi è gioco forza che diventino mete per quanti vogliono raggiungere gli Stati Uniti. Poi, senza troppa fretta, si disperdono fino ad arrivare negli Usa. L'Italia, nel mappa-mondo del racket, è emersa nelle indagini condotte dalle autorità statunitensi. Diversi cinesi — come hanno sottolineato funzionari della Border Patrol — hanno rivelato dopo la cattura di essere passati per Roma. Di solito arrivano in aereo, quindi si imbarcano su voli diretti verso il Venezuela 0 Cuba. Da qui proseguono in direzione del Messico, poi l'ultimo balzo all'interno degli Usa. Molti lasciano le coste cubane su piccoli pescherecci per raggiungere lo Yucatan. Un'indagine ha accertato che in questa regione sono molto attivi i Los Zetas, ex braccio armato del Cartello del Golfo. E secondo fonti messicani i sicari potrebbero avere una sponda anche nel nostro Paese condivisa con il racket orientale. L'interesse dei narcos nei clandestini non è nuovo, ma è inedito per quanto riguarda i cinesi. Un coinvolgimento facilmente spiegabile dalle tariffe imposte a quanti vogliono attraversare il confine. Vediamole: un messicano può pagare 1500-2000 dollari, un sud americano 6-10 mila dollari, un cinese ne deve sborsare tra i 40 e i 70 mila dollari. Con un anticipo alla partenza e il resto versato all'arrivo nel caso ci sia la disponibilità. Chi non ha soldi a sufficienza, si impegna a rimborsare il «biglietto» con il suo salario. Processo che, visto quanto portano a casa i poveri immigrati, può essere molto lungo.
Per condurre i clandestini dall'altra parte del muro, i criminali hanno due opzioni. La prima è quella di mescolare piccoli nuclei di cinesi con immigrati sudamericani. La seconda è un gruppo composto da soli orientali. Entrambe battono i corridoi geografici di Tucson, McCallen, Yuma, Laredo. Con un'alternativa nel sud della California. Nell'area di San Diego, i coyotes si affidano ai battelli che provano a bucare la sorveglianza imposta dalle forze di sicurezza.
I cinesi, rispetto ad altri clandestini, hanno un comportamento particolare. «Uno di noi — ci ha detto un agente — ne può fermare da solo anche una cinquantina. Se riesci a beccarli, intimi l'alt e loro non si muovono più. Hanno il rispetto dell'autorità». Per questo dipendono molto dai coyotes e dai complici che li attendono sui pullmini e nelle case di transito, prima di proseguire verso le grandi città, da Los Angeles a New York. Ma anche quando saranno giunti nel¬le metropoli, gli immigrati saranno solo alle pendici della «montagna dorata». Alcuni arriveranno vicini alla cima—intesa come una vita normale — solo dopo anni di lavoro duro e malpagato. Molti resteranno in condizioni di semischiavitù, prigionieri del loro sogno e di chi li ha portati fino in America.


























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