Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

14 maggio 2010

IL PRESIDENTE DELLA CAMERA TORNA A PARLARE DI IMMIGRAZIONE
E mìope ridurla al problema sicurezza

laDiscussione, 14-05-2010
Paolo Alagia

Lo jus soli significa «un'idea di cittadinanza che parte dall'inclusione»
«Una società che cambia ha necessità di avere antidoti alla xenofobia e al razzismo e una discussione seria sulla cittadinanza è uno degli antidoti alla xenofobia». Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, incontrando gli studenti dell'Università di Pisa, toma a parlare di immigrazione auspicando un dibattito senza «la scimitarra della propaganda».
«Quello che contesto ad alcuni amici del centrodestra - ha sottolineato Fini - è che si fermano al tema della sicurezza, che è la cosa più miope che si possa fare». Per l'ex leader di An, non a caso, «legalità e integrazione sono due facce della stessa medaglia e guardare solo una faccia significa non capire il problema». Ma non è l'unica stoccata di Gianfranco Fini che, infatti, ne riserva un'altra agli alleati del Carroccio: «Noi siamo figli di emigranti, siamo un grande paese europeo che fino a pochi anni fa aveva a che fare non con l'immigrazione ma con il dramma dell'emigrazione, che non riguardava solo il Sud. Lo dico - ha aggiunto - a chi fa finta di non sapere quanti veneti e quanti lombardi se ne sono andati». Nel suo discorso, poi, non manca un riferimento proprio alla legge sull'immigrazione che porta il suo nome accanto a quello del Senatùr : «Fini è lo stesso
della legge firmata con Bossi - ha sottolineato - Quella legge la rifarei, ma cambierei solo una cosa: il termine di sei mesi di tempo per ritrovare un lavoro. Oggi direi almeno un anno vista la congiuntura».
La cittadinanza, in particolare, secondo il presidente della Camera, non deve dipendere solo da un numero di anni di residenza, né è necessario che sia «automatica» con la nascita in Italia in caso di accettazione del principio di jus soli, per quanto, a suo avviso, tale principio significa partire «da un'idea di cittadinanza che non ha una matrice escludente ma da un'idea di cittadinanza che parte dall'inclusione». In pratica, è il ragionamento di Fini, la cittadinanza può anche essere data a un immigrato che arrivi in Italia piccolissimo ma che rimanga stabilmente nel Paese e che, a esempio, frequenti «un completo ciclo scolastico». Ecco perché ritiene che la legge attuale sulla cittadinanza vada rivista «per favorire pienamente un percorso di integrazione». Un percorso già previsto nella proposta di legge bipartisan firmata da Granata, deputato vicino a Fini e Sarubbi, parlamentare del Pd che deve essere discussa alla Camera. Nel corso del suo intervento, infine, la terza carica dello Stato si è soffermata anche sugli immigrati di seconda generazione avallando le posizioni espresse dalla Cei e tornando sulla definizione "generazione Balotelli" da lui stesso coniata: «Se un ragazzo - ha messo in guardia la terza carica dello Stato - ha 12 anni, fa il tifo per la stessa squadra del suo compagno di banco, parla come lui, ha le stesse simpatie e sono amici per la pelle, ma uno dei due è italiano e l'altro no, vogliamo porre il tema di cosa può maturare nell'animo di quel ragazzo che si sente discriminato pur non avendo fatto nulla?».








Fini: «Rivedere norme cittadinanza»

FinanzaMercati, 14-05-2010

«In Italia la legge sulla cittadinanza necessita di essere rivista per favorire un percorso di integrazione che, al di là di elementi solo formali, testimoni la volontà concreta dell'immigrato di partecipare al destino comune che lega tutti i componenti della società politica di cui entra a fare parte». Lo ha detto il presidente della Camera Gianfranco Fini di fronte agli studenti dell'Università di Pisa. In particolare, secondo Fini «gli immigrati di seconda generazione non possono, quindi, suscitare interrogativi inquietanti per la stabilità del nostro sistema sociale, se si parte dalla constatazione che essi sono nati e cresciuti in Italia, che molto spesso non hanno un altro Paese nel quale tornare».








Italiano chi ha frequentato un ciclo di studi
Cittadinanza, Fini insiste sullo ius soli

laPadania, 14-05-2010

MILÀN - Gianfranco Fini non molla la presa e, nonostante le proteste del Carroccio e la netta contrarietà della stragrande maggioranza del suo stesso partito, torna a perorare la causa di una nuova legge sulla cittadinanza che dimezzi i tempi per la richiesta della nazionalità e che apra in maniera più decisa al principio dello jus soli. Davanti agli studenti di Pisa, però, il presidente della Camera sa di dovere fornire delle spiegazioni in merito a un così radicale cambio di prospettiva sul tema dell'immigrazione. «Fini -esordisce infatti l'ex'leader di An - è lo stesso della legge firmata con Bossi. Quella legge la rifarei uguale ma cambierei una cosa sola: sei mesi di tempo per ritrovare un lavoro oggi mi sembrano pochi. Vista la congiuntura economica andrebbe previsto almeno un anno». Da salvare e conservare, invece, è «il principio ispiratore di quella legge», ovvero il fatto che possa entrare in Italia «solo chi ha un lavoro», nonché la funziona svolta contro «l'infamia del lavoro nero». Sull'approccio generale all'immigrazione, però, Fini rivendica un'evoluzione di pensiero che non riconosce invece ai suoi colleghi alleati. «Una cosa che contesto ad alcuni amici del centrodestra - afferma - è che si fermano al tema della sicurezza. È la cosa più miope che si possa fare perché dobbiamo tenere insie-me legalità e integrazione.e legalità e solidarietà: sono le facce di una stessa medaglia. Solo così si garantisce la sicurezza e al tempo stesso anche l'integrazione». E per integrare meglio, naturalmente, basterebbe allargare i diritti degli stranieri. «La legge sulla cittadinanza - spiega Fini -necessita di essere rivista per favorire pienamente un percorso di integrazione che, al di là di elementi solo formali, come il mero trascorrere di un certo periodo di tempo, testimoni la volontà concreta dell'immigrato di partecipare al destino comune che lega tutti i componenti della società politica di cui entra a fare parte». La legge 91 del 1992, lamenta il presidente della Camera, ha il suo cardine nello jus sanguinis, integrato «da residuali ipotesi di jus soli». L'idea della terza carica dello Stato, invece, è che chi nasce in Italia e «abbia frequentato un intero ciclo scolastico» debba subito essere considerato italiano perché «la posta in gioco riguarda la qualità della convivenza futura, con i rischi della segmentazione della società sulla base dell'appartenenza etnica e della formazione di sacche durature di emarginazione che possono agevolmente divenire aree di reclutamento per i cattivi maestri dell'integralismo religioso e del fanatismo».
Tra gli altri requisiti per la concessione della cittadinanza, Fini indica poi «una dimostrata volontà di riconoscersi nei valori fondanti della società italiana, in primis i valori della nostra Costituzione». Peccato, infine, che per apparire più convincente il presidente della Camera abbia citato e fatto propria una affermazione contenuta nel testo preparatorio delle Settimane Sociali della Cei laddove, a proposito dei figli degli immigrati, si nota che «in Italia li attendono numerose difficoltà più una: quella di riuscire a riconciliare la loro quotidianità italiana con una identità costruita nel dubbio di non vedersi riconosciuta la cittadinanza». Come dimostrato su queste colonne dal Professor Diotallevi, tuttavia, l'impostazione della Cei sulla cittadinanza non coincide affatto con quella di Fini.








«IMMIGRATI, LEGGE DA MODIFICARE»

IL SECOLO XIX, 14-05-2010

Gianfranco Fini propone di elevare a un anno il tempo per gli immigrati di trovare lavoro (oggi è di sei mesi) per avere il permesso di soggiorno. Fini ha però difeso la sua legge.







Il cuore azzurro dei "nuovi" Balotelli

La Stampa, 14-05-2010
MICHELE BRAMBILLA

MILANO Forse noi italiani dovremmo imparare un po’ dalla «generazione Balotelli» - cioè dai ragazzi nati in Italia, ma figli di stranieri - a voler bene davvero alla maglia azzurra. Nei confronti della Nazionale abbiamo spesso un po’ di puzzetta sotto il naso. Quando si approssimano i Mondiali il commento più frequente del tifoso medio è il seguente: non me ne frega più di tanto, a me interessa l’Inter, o il Milan, o la Juventus, o il Torino, o la Roma e così via. Salvo poi, a Mondiale cominciato, trovarsi a trepidare davanti alla tv (soprattutto se l’Italia va bene, perché noi italiani, come diceva Flaiano, siamo specialisti nel correre in soccorso dei vincitori. La Nazionale ha molti padri quando vince ma è sempre orfana quando perde). Ultimamente a questa spocchietta da tifoso si è aggiunto un distinguo etnico-politico.

Perché tifare Italia quando non mi sento italiano? Il dilemma è stato sollevato in modo solenne, per ultimo, dal figlio di Bossi, il consigliere regionale Renzo, che ha confessato in un’intervista a Vanity Fair: «Ai Mondiali del Sudafrica non tiferò per l’Italia». Viva la sincerità, visto che il medesimo è un dirigente della Nazionale Padana, che si fa i suoi Mondiali in un surreale circuito parallelo. Discorsi che appaiono incomprensibili a tanti che magari in Italia ci sono «soltanto» nati, da genitori africani o sudamericani o cinesi. O addirittura che sono essi stessi nati altrove, ma che qui hanno trovato accoglienza, scuole, nuovi affetti. Dicevamo di Balotelli. Lui ai Mondiali non ci va e sappiamo perché; ma ci sarebbe voluto andare e il perché di questo non lo sappiamo del tutto. Sappiamo, è ovvio, che ci sarebbe andato per una soddisfazione professionale personale.

Ma ci sarebbe andato anche - e questo lo ignoriamo in gran parte - perché si sente italiano. Molto più di quanto si possa immaginare. Quando ha potuto scegliere fra la nazionalità italiana e quella del Ghana, non ha avuto dubbi. Scelta scontata? Non credetelo: è difficile tagliare per sempre con le proprie origini. Siamo andati alla scuola milanese dove Balotelli ha fatto le medie superiori. È un istituto tecnico parificato e si chiama «Istituto Milano». Ci studiano duecento ragazzi, ottanta vengono dai vivai delle scuole di calcio (dall’Inter soprattutto); una ventina i figli di immigrati. Pochi luoghi potrebbero essere più rappresentativi di questo per mostrare un mix tra calcio e integrazione. Via Padova - la «famigerata» via Padova teatro di scontri furibondi tra immigrati di nazionalità diverse - è a cento metri di distanza.

Via Guinizelli, dove ha sede la scuola, è separata da via Padova dal tratto di una strada che si chiama via dei Transiti: qualche spiritoso, per sottolineare che questo non è un quartiere facile, ha cancellato dai cartelli le ultime tre lettere, così chi passa legge «via dei Trans». Eppure anche in questa zona non facile la sola idea che un italiano possa tifare contro l’Italia sembra, più che una bestemmia, un insulto all’intelligenza. L’Istituto Milano, che è una bella scuola organizzata e vivace, anni fa ha organizzato con Giacinto Facchetti una serie di lezioni patrocinate anche dalla Figc che si chiamavano «Diamo un calcio alla violenza e al razzismo». Quando le chiediamo se i suoi ragazzi stranieri tiferanno contro l’Italia, la direttrice Attilia Ferrari ci guarda come se fossimo impazziti: «Impossibile», dice, e tira su il telefono per farci incontrare i suoi alunni. «Adesso sentirà lei stesso con le sue orecchie». Quattro dei cinque ragazzi che incontriamo giocano nelle giovanili dell’Inter. Sono insomma quattro futuri Balotelli.

Daniel Bessa è quasi stupito dalla domanda: «Ai Mondiali tifo Italia, come no? Sono brasiliano e se c’è una finale Brasile-Italia, è chiaro che preferisco che vinca il Brasile. Ma io voglio bene all’Italia e quando guardo le partite degli azzurri il mio tifo è spontaneo. Per me è strano sentire un italiano che dice una cosa come quella che ha detto Renzo Bossi, davvero non capisco». «Ma purtroppo c’è gente che la pensa così, lo sappiamo», aggiunge un suo «collega» interista che - il destino a volte si diverte a scherzare con i nomi - si chiama, pensate un po’, Yago Del Piero, brasiliano pure lui. «Io non ho dubbi nel tifare Italia, noi ci sentiamo accolti bene qui», dice. Isaac N’Tow viene dal Ghana e di certe distinzioni nel tifo si stupisce un po’ meno: «Purtroppo non tutti sono uguali qui da voi. Io mi sento benissimo qui a scuola e all’Inter. Ma fuori capita di incontrare qualcuno che non mi tratta bene perché vengo dall’Africa.

Qualche pregiudizio contro gli stranieri c’è. Ma io ai Mondiali tiferò sia Ghana sia Italia». «Io ho genitori italiani, sono in affido. E tifo Italia», dice Alfred Duncan, il quarto interista, ghanese pure lui. Non gioca invece nell’Inter (e dopo un Del Piero nerazzurro sarebbe troppo, visto che anche lui ha un cognome incompatibile) Antony Rivera, dell’Ecuador: «Io tifo Italia perché l’Italia mi ha accolto. Sono qui da cinque anni e, dopo casa mia, la scuola è l’ambiente che mi ha aiutato di più. Ormai voglio bene all’Italia. Ma anche ai Mondiali del 2006, quando ero appena arrivato qua, ho tifato Italia». Ho trovato un vecchio pezzo di Enzo Biagi del 1970. Racconta la notte di gioia popolare dopo la vittoria per 4-3 contro la Germania ai Mondiali del Messico. «Scendono per le strade urlando di gioia, felici e orgogliosi come non lo sono mai stati, a stappare bottiglie e a strombazzare sulle loro utilitarie per città e campagne, dal Sud al Nord». Avevamo battuto i tedeschi, nei confronti dei quali nutrivamo un complesso di inferiorità, e Biagi parlò di un «ritrovato orgoglio nazionale» che andava ben oltre il tifo calcistico. Chissà, forse presto vedremo strombazzanti nelle strade ragazzi che vengono da lontano e che sentono l’orgoglio di essere italiani più di quanto lo sentiamo noi, così abituati a dire che in Italia fa tutto schifo.









Ruini, assimilare gli immigrati non risolve il problema denatalità

Avvenire, 14-05-2010

ROMA. «È necessario assimilare gli immigrati che arrivano in Italia, non si può bloccare il divenire della Storia. Ma al tempo stesso l'immigrazione non può essere una soluzione al problema della denatalità». Lo ha affermato il cardinale Camillo Ruini anticipando quello che sarà il prossimo tema del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana:"La demografia".
Il cardinale è intervenuto alla presentazione de "L'altro illuminismo", il volume del professor Sergio Belardinelli, avvenuta ieri nell'ambito della rassegna di incontri "Dialoghi DiVini" organizzata dalla Fondazione Magna Carta di Roma.
Ricordando il lavoro svolto fino adesso dal Progetto culturale della Cei, Ruini ha parlato anche di emergenza educativa: «Fino ad ora abbiamo fatto una semina e lanciato delle proposte. Abbiamo dialogato con le istituzioni, con la Rai, con il mondo delle famiglie, della scuola, dello Sport. Nessuno ha dissentito e abbiamo avuto delle reazioni positive. Puntiamo a stabilire una "alleanza educativa" a lungo termine, consapevoli del fatto che l'educazione è un problema culturale di lungo periodo. L'obiettivo - ha spiegato il cardinale - resta quello di uscire da una cultura del relativismo».











La Chiesa e la questione demografica
Ruini: "Non sarà l'immigrazione a risolvere il problema della denatalità"

l'Occidentale, 14-05-2010

Intervista a Camillo Ruini di Roberto Santoro
"Quando sono con i miei studenti di solito faccio un test", dice il Professor Sergio Belardinelli presentando il suo nuovo libro (L'altro illuminismo), alla Fondazione Magna Carta. "Perché bisogna essere tolleranti? La risposta che ricevo più spesso è perché la verità non esiste. E' anche la risposta più facile. Be', per Kant, invece, dobbiamo essere tolleranti perché nessuno sbaglia mai totalmente in ciò che dice: è la teoria della impossibilità dell'errore totale. Anche nell'opinione più fasulla c'è un pizzico di verità. Questo è un altro Illuminismo - conclude il Professore - non quello relativista e dell'indifferenza".
Per Belardinelli ci sono quindi delle "verità ordinarie", elementarissime, che danno il senso di qualcosa che è indisponibile alla comunità. L'indisponibilità della vita e della morte, per esempio. Il rispetto della dignità della persona umana. Sono queste le verità che possono essere condivise tra laici e cattolici, "il Cristianesimo ha bisogno di culture che abbiano senso della verità e quindi della realtà". Per cui, come aveva detto il Senatore Gaetano Quagliariello, Presidente onorario di Magna Carta, introducendo il volume di Belardinelli, "occorre un ripensamento del rapporto fra politica e religione nello spazio pubblico". Da una parte c'è l'Illuminismo che conosciamo, quello classico, continentale, avversario della religione, dall'altra l'Illuminismo scozzese, quello che ha animato la Dichiarazione d'Indipendenza americana e che ritroviamo nelle pagine di Tocqueville. Quest'ultimo, sottolinea Quagliariello, dimostra come "la politica non possa fare a meno della fede".
Ospite dell'incontro di Magna Carta è stato anche il Cardinale Camillo Ruini, che ha ascoltato silenziosamente il dibattito seguito alla presentazione del libro. Alla fine lo abbiamo avvicinato per chiedergli cosa ne pensava di quello che aveva appena sentito.
Eminenza, quali sono le “verità fondamentali” che possono unire laici e cattolici?
La verità fondamentale oggi riguarda l’antropologia e risponde alla domanda: chi è l’Uomo? Chi è la persona umana?
Il Cristianesimo sembra offrire delle risposte a questa domanda
Il concetto della persona umana ha una radice nel Cristianesimo e affonda nella Teologia. E’ un concetto antichissimo che attraversa la Storia come un fiume carsico.
Come si è sviluppato nel passare dei secoli?
E’ dal Rinascimento che il concetto della persona umana acquista nuovi sviluppi che porteranno fino alla modernità e alla cultura liberale.
Lei dirige il “Progetto Culturale della Chiesa Cattolica Italiana”. Vi siete occupati di emergenza educativa
Abbiamo fatto una semina e avanzato diverse proposte sulla emergenza educativa in Italia. C'è stato un dialogo con le Istituzioni, con la RAI, con il mondo delle famiglie, con quello della scuola, dello sport…
Con quali risultati?
La reazione è stata positiva. Nessuno ha dissentito
Quali erano i vostri obiettivi?
Vogliamo creare una “alleanza educativa” a lungo termine. L’educazione è un problema culturale di lungo, lunghissimo periodo. Dobbiamo affrontarlo per uscire dalle secche di una cultura del relativismo.
E adesso di cosa si occuperà il Progetto educativo della CEI?
Affronteremo la questione demografica.
Demografia vuol dire anche immigrazione. In che modo la Chiesa può difendere l’identità italiana senza rinunciare alla solidarietà verso chi arriva nel nostro Paese?
E’ necessario assimilare gli immigrati. Non si può bloccare il divenire della Storia. Ma nello stesso tempo l’immigrazione non può essere una soluzione al problema della denatalità.








Gli immigrati che non vogliamo curare

Corriere della Sera, 14-05-2010
di SALVATORE BRAGANTINI

Il  mancato rispetto delle regole disegna una società dove il più forte vince sempre. L'aumento della disuguaglianza, e dell'indice statistico che la misura, ne è logica conseguenza. In una scala dove 1 connota la massima disuguaglianza (tutto concentrato in una sola persona), si è passati da 0,31 degli anni '80 a 0,35: la concentrazione è aumentata del 13%. La crisi economica, che nella disuguaglianza ha una delle sue cause profonde e ignorate, sta solo peggiorando la situazione. Proviamo a guardarne gli effetti sulla vita delle persone in carne ed ossa.
In cima c'è il «Paradiso» dei lavoratori protetti — sempre meno — che hanno un contratto a tempo indeterminato. Più giù c'è il vasto, e crescente, Purgatorio dei contrattisti; oggi lavorano e domani possono essere lasciati a casa, senza garanzie. Se fanno causa, si autoescludono dal mercato del lavoro: nessuno vuole «piantagrane» in casa. Poi si va ai gironi inferiori, quelli del lavoro in nero, dove gioca anche la differenza fra italiani e stranieri. Qui, anche per gli italiani la possibilità di adire la giustizia è teorica. Se sei pagato in nero non puoi chiedere il rispetto dei tuoi diritti: non ne hai proprio. Inoltre è più ar¬duo, a volte impossibile, affittare una casa se non si può provare di avere un reddito.   -
Peggio va per gli stranieri di serie B. Li distingue il censo, insieme all'origine: povero, extracomunitario (ma non svizzero o canadese). Se un immigrato «regolare» è licenziato, scende ancora un gradino; è il nuovo schiavo che, perdendo il lavoro, perde il permesso di soggiorno, onde
l'obbligo di lasciare il Paese, dove ha moglie e figli nati qui, che magari parlano perfino un dialetto «padano»; si veda la recente sentenza della Cassazione.
Siamo arrivati al fondo; gli stranieri «irregolari»; non hanno il permesso, e non possono averlo finché qualcuno non gli fa un contratto. Un circolo infame più che vizioso; ai datori di lavoro senza scrupoli fa comodo una controparte debole. Questi stranieri hanno anche dei figli, che ignorano di essere «irregolari»; quando i loro occhi vedranno le spire di quel circolo, diranno due paroline su di noi al loro Dio. Dovrebbe essere un macigno per tutti, credenti e no! Le rozze affermazioni del sindaco Moratti del 10 maggio, per cui i clandestini che non hanno un lavoro regolare normalmente delinquono, denunciano solo la sua distanza dalla realtà che dovrebbe governare!
E se questi «clandestini» devono curarsi? Hanno diritto in teoria all'assistenza, che spesso viene però negato. La legge Bossi-Fini prescrive che siano loro assicurate «nei presidi pubblici e accreditati, le cure ambulatoriali e ospedaliere urgenti 0 comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia e infortunio, e siano estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva». Come risulta da una pagina del Sole 24 Ore (15 febbraio), la realtà è ben diversa. Per la salute dei nuovi schiavi spendiamo 120 e all'anno: sempre troppi, diranno alcuni. Lo pensavano anche i negrieri. Eppure è il costo di un'ecografia!
Il trattamento è peggiore proprio nella regione più ricca, che dal lavoro degli immigrati, regolari e no, trae più vantaggi, e che della «difesa della vita» fa una bandiera. In Lombardia lo straniero «irregolare» ha sì accesso al pronto soccorso — finché non prende piede l'idea di alcuni leghisti friulani di dargli la caccia proprio lì — ma si vede spesso negata la tessera di «straniero temporaneamente presente», che dà diritto alle cure continuative, di cui alla Bossi-Fini. Spesso l'ospedale compila sì la tessera per farsi rimborsare la prestazione, ma non la consegna alla persona. «Per non aprire gratuitamente l'assistenza sanitaria a tutti», ci dice dal Sole 24 Ore un direttore sanitario milanese.
Così si va contro la legge, certo, ma alcuni in Lombardia rovesciano il detto giolittiano: la legge per i nemici la interpretano per non applicarla. Per loro, l'assistenza agli schiavi spetta agli scarsi mezzi della piccola associazione Naga, gestita come altri meritori centri da volontari: essi si sobbarcano la cura di persone che noi usiamo, ma abbandoniamo alla loro sorte. Ai Naga della situazione chiediamo, vilmente di rimediare alla nostra violenza occulta, che ogni tanto viene alla luce: a Uboldo è morta una bambina di un anno che poteva vivere, ma era figlia dei genitori sbagliati. Non era vita anche la sua?
Un giorno penseremo con vergogna alla vita cui condanniamo tante persone, alla faccia delle nostre radici cristiane. Noi «italiani brava gente», abbiamo gli schiavi in casa, e non li vediamo. Speriamo che non serva, dopo Rosarno, un altro e più duro scrollone per strapparci da questa vacanza dalla ragione.









QUEL PADRE ARABO CHE HA DIMENTICATO DI STARE IN ITALIA

La Gazzetta del Mezzogiorno, 14-05-2010
di BENEDETTO FUCCI

La vicenda del padre di famiglia maghrebino arrestato ad Andria per le lesioni procurate ai figli, «colpevoli» di vivere all'occidentale, e alla madre che difendeva questi ultimi chiama tutti noi al dovere di una riflessione profonda su un tema, quello dell'integrazione tra i popoli, che è sempre più fondamentale nell'odierna società.
Com'è possibile che una persona sì straniera, ma ormai nel nostro Paese da diciassette anni con un lavoro stabile e inserita in un contesto sociale certamente diverso dalle tipiche situazioni di disagio in cui spesso episodi del genere hanno luogo, abbia potuto mostrare tanta violenza e tanto odio nei confronti dei suoi stessi figli per il fatto che questi si vestono e si divertono come i loro coetanei italiani?
Purtroppo bisogna prendere atto che la mentalità dei Paesi arabi, nonostante i frequenti contatti che nella storia essi hanno avuto con il mondo europeo e nonostante il ruolo di fattore di dialogo che i governi dell'area stanno tentando di dare al Mar Mediterraneo, è e rimane diversa da quella generalmente imperante in Italia (così come nel resto dell'Europa). Il che ci porta a riflettere attentamente sui modelli di integrazione, all'insegna sostanzialmente delle «porte aperte» e della peggiore retorica buonista, finora seguiti.
LA FIGLIA TROPPO «OCCIDENTALE» -Non c'è dubbio, come affermato con naturale buon senso dal famoso psicologo Fulvio Scaparro sul Corriere della Sera del 7 maggio, che «potremo constatare che nel chiuso delle case italiane la violenza dei padri e dei mariti nei confronti dei figli e delle mogli non è infrequente». Ma da qui a parlare, come invece ho sentito da qualcuno, anche ad Andria, di «pretesti» per definire le cautele di chi tira in ballo anche l'elemento della diversità culturale ce ne dovrebbe passare.
Ancora una volta richiamo il bell'articolo di Scaparro nel passaggio in cui, a proposito della famiglia protagonista della triste vicenda di Andria, si afferma: «Diciassette anni nel nostro Paese hanno consentito ai figli di integrarsi e di partecipare a pieno titolo alla vita dei loro coetanei. È in casa che i ragazzi trovavano la vera mancanza di integrazione, quella con il padre che aveva instaurato un clima di violenza nei confronti di tutti i familiari».
Il capofamiglia italiano che usa violenza verso i suoi cari deve essere punito conia stessa severità con cui, ne sono certo, sarà sanzionato anche per il capofamiglia maghrebino protagonista ad Andria. Ma questo è l'aspetto penale, certo importantissimo, della vicenda.
Vi è poi un altro grande tema di carattere più generale, ovvero quello del rapporto con gli stranieri in Italia e del modo in cui i doverosi percorsi di integrazione debbano coniugarsi con il richiamo al rispetto della cultura e dello stile di vita presenti nei Paesi di accoglienza. È proprio in questo passaggio che, a mio parere, si trova la chiave di lettura della vicenda che spesso vede protagonisti della cronaca immigrati regolari i quali però - mentre lo Stato di accoglienza assicura loro un lavoro, una casa è le tutele sociali previste dalla legge - coltivano un incomprensibile
odio per la società che li accoglie.
IL BUONISMO IPOCRITA -Ecco spiegato perché l'idea che tutto sia omologabile, che le diversità culturali possano essere per forza eliminate e che, in nome di una distorta visione solidaristica, in definitiva tutte le religioni siano uguali tra loro è a mio parere quanto mai pericolosa. Perché è proprio in nome di questo buonismo di maniera (che a volte ci fa dire con tono paradossalmente giustificatorio: «Tanto succede dappertutto, anche tra gli italiani!») che si sviluppano vicende come quella di Andria o come quelle, ben più tragiche nelle conseguenze, che tanto scalpore hanno fatto in passato, a partire da quella di Hina Saleem, la povera ragazza pachistana ormai «occidentalizzata» e per questo sgozzata senza pietà dal padre in provincia di Brescia.
È solo ipocrita tentare di nascondersi il fatto che quanto avvenuto nella città pugliese sia sintomatico dell'importanza e dell'attualità del dibattito politico in corso sull'immigrazione e sul valore dell'integrazione. Chi viene in Italia deve condividere e rispettare, non solo a parole ma anche nei fatti, la storia, la cultura e i modi di vita del  nostro Paese. Chi viene in Italia da fuori deve accettare che i propri figli, tanto più se ormai pienamente cittadini italiani come nel caso di Andria, conducano la propria vita con la massima libertà potendo, ove decidano liberamente di farlo, vivere esattamente come fanno i ragazzi italiani.
Questi sono i pilastri del vivere civile. Chi non li condivide è liberissimo di farlo. Ma certamente non può imporre, a suon di violenze, questa sua visione e questa sua diversa impostazione culturale ai propri figli o a chiunque altro.








Espulsi due ragazzi marocchini Quell'intercettazione sul Papa
Uno avrebbe detto: pronto ad assassinarlo per andare in Paradiso

Corriere della Sera, 14-05-2010
Flavio Haver

ROMA — Avevano parlato al telefono di un'azione contro al Papa e di esplosivo. Entrambi marocchini, sarebbero collegati ad ambienti dell'area jihadista: in apparenza, erano studenti modello dell'Università di Perugia. Sono stati espulsi dall'Italia due settimane fa ma nell'indagine della Digos del capoluogo umbro sono coinvolti altri insospettabili giovani, almeno cinque. Tutti potenzialmente in grado di colpire, forse «cellule in sonno» del fondamentalismo islamico. «Abbiamo dato il nulla-osta all'espulsione perché li abbiamo ritenuti molto pericolosi. Sono soggetti che idealizzano il loro mondo e mi viene da paragonarli, per come si muovevano ed agivano, ai terroristi degli attentati di Londra», ha sottolineato il pubblico ministero Giuliano Mignini, che insieme al procuratore Federico Centrane segue l'inchiesta per associazione per delinquere con finalità di terrorismo.
Presunti terroristi «fai da te», perfettamente inseriti nel mondo universitario e nel tessuto sociale di Perugia, che dunque — almeno secondo gli inquirenti — potevano aver avuto in mente qualche azione. Ma che sono stati immediatamente liberati una volta tornati nel loro Paese. A rivelare le loro intenzioni e la loro pericolosità è stato un lancio del settimanale Panorama in edicola oggi. Mohammed Hlal, 27 anni, srudente del corso di Comunicazione internazionale nella facoltà di Lingua e cultura italiana dell'ateneo per stranieri e il connazionale Ahmed Errahmouni, ventiduenne, iscritto a Matematica e fisica, da tempo venivano tenuti sotto controllo. Era più di un anno che gli agenti lì pedinavano e che intercettavano
le conversazioni telefoniche e gli scambi di informazioni telematici. Questi ultimi hanno messo in evidenza come i due nordafricani, oltre a visitare spesso siti dell'estremismo islamico in cui si inneggiava alla «Guerra Santa» contro l'Occidente, ad Al Qaeda e alle azioni kamikaze di gruppi talebani, avessero utilizzato un sistema per criptare il traffico in rete, cancellando dai supporti informatici alcuni dati.
Dagli accertamenti è tra l'altro emerso che Hlal, nei giorni precedenti all'espulsione, aveva spento il telefono cellulare, isolandosi dal resto della comunità studentesca. Come se stesse appunto per prepararsi ad entrare in azione. È scattato l'allarme e lui e l'amico sono stati bloccati e imbarcati sul primo volo diretto in Marocco. Nel decreto di espulsione firmato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni è stato
spiegato come «Hlal ha auspicato la morte del capo dello Stato della Città del Vaticano affermando di essere pronto ad assassinarlo per garantirsi il Paradiso».
La Digos ha eseguito una serie di perquisizioni a Perugia. Non è stato sequestrato materiale ritenuto idoneo a realizzare esplosivi, né tantomeno armi. Nei locali della casa dello studente dove i due studenti alloggiavano è stato però trovato materiale informatico, piantine di alcune città e fotografie di monumenti: sono in corso indagini per verificare se potessero essere potenziali obiettivi. Gli investigatori sono comunque certi che i due marocchini siano «1one terrorist», cioè personaggi vicini alle posizioni più radicali che, attraverso internet, si «autopromuovono alla Guerra Santa».



Diritto di giocare
di Elisabetta Reguitti
il Fatto Quotidiano 14 maggio 2010
Ricordate Shaib? Ne parlò Il Fatto Quotidiano un mese fa. Quando a questo calciatore di 19 anni nato in Togo e richiedente asilo politico nel
nostro Paese, venne negata la possibilità di giocare nella
squadra dell’oratorio di Lodi. Qui si trova la casa d’ a ccoglienza don Luigi Savarè dove Shaib è ospite da quando
è arrivato in Italia. Shaib può contare solo su permessi di tre mesi che gli vengono
regolarmente prorogati da quando è sbarcato, nel 2008, a Malpensa; eppure un regolamento gli impediva di fare l’unica cosa di cui è capace: giocare al calcio come
aveva fatto, peraltro, anche nella Nazionale giovanile togolese. Ne seguì una causa la cui sentenza (di ieri) sotto certi aspetti è davvero unica nel suo genere. Il
Tribunale di Lodi ha infatti punito e sanzionato il comportamento di un colosso come la Federazione italiana Gioco calcio che aveva sostenuto che Sahib non avesse diritto ad essere iscritto e
tesserato alla Figc perché “non in possesso del permesso di soggiorno valido almeno fino alla fine del campionato”. Ma il giudice Federico Salmeri ha ritenuto discriminatorio il comportamento
della Figc che da ieri quindi dovrà cambiare il suo regolamento. Ma non solo. Nella sentenza viene infatti sottolineata la gravità “dell’esclusione da un’attività sportiva che dovrebbe avere invece un ruolo
educativo e di socializzazione importante per il giocatore stesso e per la collettività”. E dire che la Figc si era impegnata scegliendo una linea difensiva forse un po’ troppo “padana” g iustificandosi
sostenendo la tesi di voler “tutelare i vivai nostrani ”. Niente di peggio secondo il Tribunale di Lodi che ha risposto come “la tutela dei vivai nostrani sia un
sostanziale fenomeno di etnocentrismo modello sociale eticamente inaccettabile”. Insomma è la vittoria di Davide contro Golia: dove il vincitore è semplicemente un ragazzo con la passione per il calcio e lo sconfitto
una federazione che, almeno sulla carta, dovrebbe essere garante di quella attività sportiva intesa come “espressione della propria
per sonalità”. Ma senza un tribunale Shaib - e con lui l’onlus Lodi per Mostar e Asgi (Associazione studi giuridici
sull’i m m i gra z i o n e ) che hanno sostenuto il ricorso – non avrebbe avuto alcuna possibilità. Ironia della sorte la sentenza è però arrivata al termine del campionato che Shaib ha dovuto seguire dalla tribuna. Quello che colpisce della
vicenda giudiziaria di Shaib è come la Figc volesse in qualche modo dare un esempio. Come si spiegherebbero altrimenti frasi dette e scritte e secondo le quali
“non si può avallare la presenza di un extracomunitario nel nostro Paese in una
ondizione di irregolarità” oppure ancora “a sostegno della propria tesi difensiva la Figc ritiene che consentendo la permanenza di un extracomunitario privo del permesso di soggiorno la federazione potrebbe incorrere
in un reato di correità”. Reato di correità? Lo stesso Giudice ha chiesto cosa punisse il “non meglio precisato reato di correità”. Passi per il reato di correità ma sulla necessità di tutelare “i vivai nostrani” lo stesso tribunale di Lodi ha rincarato
sostenendo come una sostanziale preferenza per i giocatori italiani violi tutte le norme nazionali e internazionali
che impongono il principio di trattamento seguito dalle “odierne società civili”. Shaib che sogna di poter diventare come i suoi idoli dell’Inter (squadra di
cui è tifoso) per questa stagione non potrà giocare con i suoi compagni. Non potrà calciare con le sue nuove scarpette da calcio che gli hanno regalato gli amici Laura Coci e il marito Roberto che lo considerano un po’
come il loro secondo figlio. Shaib sulla Gazzetta dello Sport però ci andrà comunque nel giro di una quindicina di giorni perché nella sentenza il giudice Salmeri ha ordinato alla Figc anche di pubblicare come “il tribunale ha accertato e dichiarato
la natura discriminatoria basata sull’origine nazionale nella parte della norma in cui viene imposto, per il tesseramento, il permesso di soggiorno valido
almeno fino al termine della stagione sportiva corrente anziché il mero possesso del permesso di soggiorno”. E chissà che qualche osservatore tecnico, incuriosito dalla storia di Shaib, non decida di andare a vedere di persona
come se la cava in campo questo giovane togolese centrocampista capace di calciare con il piede sinistro. L’ultima vera partita l’ha disputata nel 2008 indossando la maglia della Nazionale giovanile durante la “M a l ay s i a International Cup”.



Neodemos.it
12/05/2010
L’irregolarità è un fenomeno strutturale e cronico nel panorama dell’immigrazione in Spagna, per quattro ragioni principali: l’importante domanda di mano d’opera straniera poco qualificata; la rilevanza dell’economia sommersa, una delle maggiori in Europa; la ristrettezza della “porta principale” d’ingresso dei migranti (quella legale), e, infine, le difficoltà di controllo dei flussi e degli stock di irregolari.

Questa situazione potrebbe sembrare paradossale se consideriamo che la continua crescita dei flussi migratori é stata accompagnata da un corrispondente intensificarsi degli sforzi per arginare il fenomeno. Le politiche adottate però, ispirate da paradigmi marcatamente restrittivi, non hanno ottenuto altro che la riproduzione di sistemi migratori irregolari come hanno mostrato i sei processi di regolarizzazione straordinaria adottati in poco più di vent’anni.



Dalla “produzione istituzionale dell’irregolarità” al “nuovo” regime migratorio
Solo nel 2004, il Governo spagnolo ha riconosciuto la necessità di agire direttamente sulle cause dell’irregolarità, avviando una riforma integrale delle politiche di controllo dell’immigrazione e promuovendo una gestione più razionale dei flussi, basata su quattro elementi fondamentali: 1. creare canali adeguati d’ingresso legale (contrattazione in origine e quote); 2. migliorare il controllo delle entrate e del soggiorno (visti, controllo delle frontiere, espulsioni, riammissioni, accordi internazionali); 3. stabilire meccanismi per uscire dall'irregolarità su base individuale (Arraigo laboral e Arraigo social)[1]; 4. migliorare il controllo dell’economia sommersa (Ispezioni sul lavoro).

Quanti sono gli irregolari in Spagna?
Il caso spagnolo offre la possibilità di produrre stime dell'irregolarità in modo più semplice e accurato che nel resto dei Paesi Europei. L'opportunità per gli immigrati irregolari di accedere gratuitamente e senza conseguenze legali ai principali servizi sociali attraverso l’iscrizione al Padron Municipal (l’anagrafe municipale spagnola) permette, infatti, di quantificare, con una certa precisione, il numero totale di immigrati, regolari o meno, presenti sul territorio nazionale. Il confronto tra questa cifra e quella degli immigrati con regolare permesso di soggiorno (inclusi i permessi di studio) ci consente di ottenere una stima approssimativa, leggermente sovradimensionata, del numero totale di migranti irregolari[2].






Legge sugli immigrati: Los Angeles boicotta l'Arizona
Peace reporter, 13-05-2010
Luca Galassi

La municipalita' della citta' californiana: sospendere contratti e forniture come protesta contro il provvedimento razzista

Il consiglio comunale di Los Angeles ha deciso ieri quasi all'unanimita' (tredici voti favorevoli, uno contrario) di boicottare la legge sull'immigrazione varata in Arizona dalla governatrice Jan Brewer.

La città di Los Angeles ha votato una misura per cui sarà vietato fare affari con piccole imprese dell'Arizona fino a quando resterà in vigore questa legge, che consente alle forze di polizia di fermare immigrati anche solo sulla base di un semplice sospetto di clandestinità. Per avere effetto di legge, la risoluzione della municipalita' californiana dovra' essere firmata dal sindaco Antonio Villaraigosa. Los Angeles ha investimenti e contratti con l'Arizona che ammontano a 58 milioni di dollari, molti dei quali in settori come servizi aeroportuali, portuali ed energetici, che non potrebbero comunque essere per legge oggetto di boicottaggio. Restano circa 8 milioni di dollari in contratti 'municipali', secondo Janice Hahn, co-firmatario del provvedimento. Alcuni di questi contratti riguardano il settore elicotteristico, le pistole elettriche Taser, la gestione dei rifiuti, apparecchiature di sorveglianza e ingegneristiche.

La misura adottata dal consiglio comunale sostiene che la legge incoraggia la discriminazione razziale ed e' incostituzionale. Si tratta della normativa piu' restrittiva degli Stati Uniti in materia di contrasto all'immigrazione clanestina. Dal momento in cui entrera' in vigore, il prossimo 29 luglio, consentira' agli agenti di polizia, dietro la vaga  'legittimo sospetto', di controllare lo status di chiunque incontri per strada, introducendo di fatto il reato di immigrazione clandestina. Alla Corte Suprema sono stati depositati numerosi ricorsi contro la sua applicazione, nonostante la maggioranza dei cittadini dell'Arizona siano a favore del provvedimento. Altre sollecitazioni al boicottaggio dell'Arizona, o pressioni per la cancellazione della legge, provengono da citta' come Oakland e San Diego. San Francisco ha invece proposto un analogo boicottaggio, ma sportivo. Secondo il City supervisor (negli Usa il braccio esecutivo del sindaco), le associazioni sportive cittadine non dovrebbero disputare partite o tornei nello Stato dell'Arizona. La governatrice che ha firmato la controversa legge, Jan Brewer ha definito il boicottaggio un atto spiacevole e increscioso, in primo luogo perche' "la legge rispecchia un obbligo federale: quello che tutti gli immigrati portino con se' documenti di identita'".

La legge incoraggia a identificare un cittadino in base a connotati razziali? "Pura retorica", secondo la Brewer. Tuttavia, in uno Stato conservatore come l'Arizona, anche la chiesa cattolica si è opposta, oltre a numerosi repubblicani. Un sondaggio Wall Street Journal/NBC ha invece accertato che la maggioranza degli americani, il 64 percento, e' a favore della legge, contro il 34 percento che si dice contrario.




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