Va detto: chiunque ami davvero il pallone tende a condividere l’antica, e un po’ truce, opinione che “il calcio non è  uno sport per signorine”. In altre parole, un agonismo che sfiora la ferocia e una combattività portata all’estremo sono componenti essenziali  di un’attività sportiva che, com’è noto, mima la guerra. E ne è la forma civilizzata. Ma civilizzata, appunto: qui, evidentemente, il discrimine si fa sottile e può essere faticoso tracciare un confine, destinato a rimanere labile, tra animosità e aggressività, tra affermazione di forza ed esercizio di sopraffazione. Ma proprio perché sottile e incerto, quel confine va comunque fissato e attentamente vigilato. E questo vale a proposito degli scontri fisici piede contro piede (e pensare che una volta si chiamavano tackle), ma anche a proposito dei combattimenti vocali sugli spalti. Tanto più quando quell’agone canoro non è più sfida tra schieramenti opposti, che si beffano reciprocamente, che stigmatizzano e maramaldeggiano, ma diventa sfregio e mortificazione dell’identità del singolo avversario. Chi fa questo è – inequivocabilmente e irreparabilmente – “stronzo”. Per dirla con le alate parole del Presidente della Camera, Gianfranco Fini. D’altra parte sappiamo che dare di stronzo allo stronzo, soprattutto quando si tratta di atteggiamenti diffusi di natura xenofoba, non basta. E può essere, alla lunga, perfino pericoloso: per l’ovvia ragione che rischia di rafforzare gli stronzi nella loro stronzaggine, mentre si tratta piuttosto di disincentivarne l’ostilità e disinnescarne l’aggressività. Ma, allo stato attuale delle cose e davanti a certi episodi,  penso che sia necessario partire dalla contrapposizione netta e diretta ai razzisti, per segnalare che si è superato il livello di guardia: e ciò accade certamente quando si urla: “un negro non può essere italiano”. E, invece, un deficiente sì?  Poi, fatto il nostro dovere, si dovrà intervenire, con tutte le strategie possibili, per formare, informare, persuadere: senza dimenticare, tuttavia, che il razzismo è una componente non eliminabile delle relazioni sociali e una parte degli esseri umani accetta consapevolmente di essere razzista. Ma quelle strategie di formazione e informazione hanno una qualche possibilità di successo solo se l’ambiente del calcio le vorrà condividere. Cosa che appare oggi assai ardua, se due persone stimabili, come Marcello Lippi e Pierluigi Casiraghi, sembrano preoccuparsi solo di minimizzare l’accaduto e togliergli qualunque valenza “razziale”.  Come quei telecronisti che, quando bande assatanate di tifosi se le danno di santa ragione, si affannano a ripetere che si tratta di episodi che “nulla hanno a che vedere con lo sport”. È vero proprio il contrario: lo sport, per sua natura, enfatizza i conflitti e può dare loro canali dove riversarsi pacificamente oppure occasioni dove degenerare rovinosamente. Così è per il razzismo. L’antagonismo tra tifoserie può essere un’opportunità di mediazione per tensioni destinate altrimenti a diventare cruente: oppure un fattore di agevolazione dell’odio etnico. Bisogna esserne consapevoli: e poi, pazientemente, spiegare ai razzisti attuali e potenziali - e a quanti lo sono per ignoranza disperazione confusione mentale - che non solo un negro può essere italiano, ma un negro  (ad esempio, Edson Arantes do Nascimento)  può essere il più grande giocatore di calcio di tutti i tempi.
Share/Save/Bookmark