Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

07 aprile 2014


                                   AL BARI INTERNATIONAL FILM FESTIVAL
                   TERRA DI TRANSITO DI A BUON DIRITTO PER LA REGIA

                                                    DI PAOLO MARTINO

Il dramma paradossale dei richiedenti asilo in fuga da Paesi in guerra, verso il  Nord Europa. Bloccati dove non vogliono restare: in Italia.
In concorso nella sezione documentari, il film prodotto dall’Associazione A Buon Diritto con Istituto Luce-Cinecittà. Anteprima assoluta al Festival il 10 aprile.
Inizia dal Festival di Bari, una città e un territorio simbolo nella storia delle migrazioni e dell’accoglienza, il viaggio sugli schermi italiani di Terra di transito, il docufilm di Paolo Martino, giovane reporter e documentarista, classe 1983, prodotto dall’Associazione A Buon Diritto con Luce-Cinecittà, che lo distribuisce per l’Italia, e che ha ottenuto il Patrocinio della sezione italiana di Amnesty International e il sostegno di Open Society Foundations.
Il tema delle migrazioni in Italia ed Europa, un tema urgente oramai da decenni, sottoposto ai tempi della politica – tra periodiche emergenze e perenni rimandi – e discusso tra spinte demagogiche e astrazioni statistiche, in Terra di transito viene declinato in una prospettiva spiazzante, a partire dal racconto di Rahell.

IL FILM
Rahell, rifugiato bambino dall’Iraq in Siria, è costretto ad abbandonare anche questa terra.  La sua rotta personale, senza visti né passaporto, lo conduce in Europa, e in Italia, da dove spera di raggiungere la Svezia per ricongiungersi con i suoi familiari. Ma allo sbarco in Italia, Rahell scopre che a dividerlo dalla sua meta c'è il regolamento di Dublino, legge europea che impone ai rifugiati di risiedere nel primo paese d'ingresso in Europa. Come per migliaia di coetanei, il destino di Rahell diventa determinato da un semplice controllo dei documenti o dalla scansione delle sue impronte digitali. Da lì, ogni tentativo di espatrio verso la meta desiderata si trasforma in un’espulsione nel nostro Paese, quello che per legge detiene l’‘appartenenza’ della pratica di Rahell. Lontano dalla sua famiglia e dal suo personale progetto di vita, Rahell è costretto a risiedere in Italia, un Paese spesso incapace di accogliere e di garantire un percorso di vita autonomo alle persone che protegge. Un Paese che è diventato solo una Terra di Transito.
Nella sua odissea personale, Rahell incontra altri ragazzi in fuga dalla Siria, l’Afghanistan, l’Iraq. Ne raccoglie le storie, i volti. Si fa autore di un’indagine, che mostra il paradosso di una legge iniqua che considera numeri e pratiche, ma non le esigenze e il vissuto delle persone. E le tiene bloccate in un Paese che non vuole accoglierli, e che loro non vogliono.
Ed è questo l’altro enorme paradosso mostrato da Terra di transito. L’immagine di un’Italia travagliata dalla crisi, inerte e incapace di sostenere politiche e logiche non emergenziali quando si tratta di immigrazione. Un Paese che si sente invaso da cittadini stranieri. I quali, come Rahell e tanti altri, sognano di andare altrove. Andare verso le nazioni ricche di quella stessa Europa – che offrono sì un trattamento migliore a quanti accolgono – ma che hanno promosso leggi come il regolamento di Dublino e reso così difficile riuscire a entrare nella fortezza europea.
Con l’immagine finale di ragazzi, con un’attesa e un’aspettativa negli occhi, che se non fosse per la lingua somiglierebbero a tanti ragazzi italiani.

Dopo la prima in concorso al Festival di Bari, Terra di transito arriverà nelle sale italiane, con un progetto di proiezioni e incontri promosso da Luce-Cinecittà insieme all’Associazione A Buon Diritto.
Per ulteriori informazioni:
Press contact

Marlon Pellegrini – Ufficio stampa Istituto Luce Cinecittà – 334 9500619
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www.cinecitta.com
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Il nodo degli immigrati a Rosarno
“Con il salario minimo il 90% delle imprese da noi fallirebbe”
Nelle campagne di Rosarno ogni anno si radunano 5 mila immigrati
La Stampa, 07-04-2014
Giuseppe Salvaggiulo
«Io potrei accettare un salario minimo legale, ma qui il 90 per cento delle imprese agricole fallirebbe». Mimmo Cannatà è un imprenditore nella campagne di Rosarno, dove ogni anno si radunano 5 mila immigrati. Nei 35 ettari dei suoi agrumeti lavorano otto dipendenti fissi più gli stagionali, 40 nei picchi. Metà stranieri (in maggioranza africani) «senza i quali dovremmo chiudere», soprattutto per la raccolta «perché i giovani italiani disponibili sono pochi, preferiscono essere laureati disoccupati».
Perché dice che il 90 per cento delle aziende fallirebbe?
«Un salario minimo esiste già nei contratti. Un operaio costa all’azienda, contributi compresi, 49 euro al giorno. Incide su ogni kg di arance per 6 centesimi, a cui bisogna aggiungerne 1,5 per potatura, irrigazione, concimi... Le industrie ce le pagano 7 centesimi al chilo. Dove vado a prendere i soldi per pagare il salario minimo?».
E quindi che cosa accade?
«Semplice: non raccolgo nemmeno. Basta girare nella piana per trovare arance sugli alberi. Abbandono totale».
C’è un’alternativa: il lavoro nero. Girando nella piana si vede anche quello, no?
«Quest’anno la polvere dell’Etna ci ha fatto perdere l’80 per cento del raccolto. Ho dovuto licenziare tutti. Dopo qualche giorno si presentavano in azienda chiedendo di lavorare anche per 10 euro al giorno in nero. Nessuno li prendeva».
Nega il lavoro nero?
«Non nego. L’80 per cento dei produttori qui non supera i 2 ettari. Non si tratta nemmeno di aziende. C’è un rapporto con gli immigrati che prescinde dalle regole: per lo più gli immigrati raccolgono e poi dividono l’incasso con i proprietari, oppure si paga in nero. Non c’è speculazione o arricchimento, è l’unico modo per farli lavorare. D’altronde se pensassero di avere a che fare con razzisti 8 africani su 10 non tornerebbero tutti gli anni».
Che effetti avrebbero salario minimo e minacce di arresto su questi produttori?
«Rinuncerebbero a raccogliere. Racconto la mia esperienza. Fino a un paio di anni fa avevo un aranceto e non stavo dentro con i costi. A me non interessava più raccogliere, ma vedendo questi ragazzi alla fame dicevo: raccogliete, vendete, guadagnate qualcosa. Da quando sono aumentati i controlli evito: se arrivano gli ispettori del lavoro non mi credono e finisco nei guai».
Quindi o nero o niente?
«No. Per questo dico che la mia azienda è in grado di sostenere un salario legale. Negli ultimi anni con i soldi della politica agricola europea anziché comprare il suv ho girato il mondo: Spagna, Australia, California. Ho capito che il mercato richiede nuove varietà e le ho impiantate. Ora posso vendere le mie arance a 50 centesimi. I nostri agrumeti sono fermi a mezzo secolo fa, fuori mercato: questo è il problema, il lavoro nero è la conseguenza».
Si può fare qualcosa?
«Il piano di sviluppo rurale finanziato dall’Ue prevede il 40 per cento a fondo perduto per le riconversioni. Non le fa nessuno perché il tecnico prende l’8 per cento solo per fare la domanda e la Regione impiega tre anni a valutarla. Io non voglio soldi a fondo perduto, ma prestiti a tasso agevolato: dal terzo anno vado in produzione e ripago anche il capitale».
Ne ha parlato alle istituzioni?
«Certo che ne ho parlato. Ma qui è come parlare a vuoto».



Rifugiati. Il governo vara un nuovo regolamento
Approvato lo schema di regolamento per la concessione e la revoca dello status. Ora si attendono i pareri di Conferenza Unificata e Consiglio di Stato
stranierinitalia.it, 07-04-2014
Roma - 7 aprile 2014 - Arrivano nuove regole per i rifugiati.
Nel consiglio dei ministri di venerdì scorso, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri e del Ministro dell’Interno,  Angelino Alfano, è stato approvato "uno schema di regolamento su Decreto  del Presidente della Repubblicarelativo alle procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato, a norma dell’art. 38 del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25".
"Il provvedimento - spiega un comunicato di Palazzo Chigi - interviene a chiarire la portata applicativa delle norme primarie in senso conforme al diritto comunitario da cui la disciplina della protezione internazionale deriva. Si tratta del recepimento formale di provvedimenti in ordine a riconoscimento e revoca dello status di rifugiato  già in essere nel nostro Paese".
Sul regolamento saranno acquisiti i pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato.



Nuovi europei/ Ahmed e gli altri che transitano per l’Italia
Corriere.it, 07-04-2014
Lorena Cotza
Quando Ahmed sale sulla barca ormeggiata nel porto libico di Misurata, non sa ancora a cosa andrà incontro. Ha solo sentito da alcuni amici che in Germania si lavora bene. Non sa né quando né come riuscirà ad arrivarci, ma sa che in Libia non può più restare. Ahmed ha solo 15 anni quando è costretto a lasciare la sua casa in Ghana e partire in cerca di lavoro. Attraversa il Togo, il Benin, la Nigeria, il Niger, il Mali e l’Algeria prima di arrivare in Libia. La Libia di Gheddafi.
    «Non c’era libertà. Ma c’era lavoro, tanto lavoro», dice Ahmed con un sorriso. «Mi assunsero in un’impresa edile in una cittadina vicino a Tripoli e per un anno ho lavorato là ogni giorno. Poi, scoppiò la guerra…»
Quando racconta della partenza improvvisa, il suo sorriso svanisce in fretta: «A maggio non potevo più restare, così spesi tutti i soldi che avevo risparmiato per scappar via. Restammo cinque giorni in mare prima di sbarcare a Lampedusa.»
Dopo alcune settimane nelle celle umide del CIE di Lampedusa, Ahmed viene trasferito in un piccolo paese vicino ad Agrigento, in un centro di accoglienza per minori stranieri non accompagnati. Vi rimane per oltre un anno, ma si sente in gabbia e non smette mai di sognare la Germania:
    «Qui in Italia lavori per un giorno o due, ma poi resti settimane senza far nulla, anche se hai studiato. Ma a cosa serve la libertà senza il lavoro?», si chiede Ahmed. «Mi piaceva vivere in Sicilia, è una bella terra, ma non potevo più restarci. E non capisco perché chi sbarca in Italia non possa chiedere asilo in un altro paese, dove magari c’è più lavoro».
È per questo che numerose associazioni che si occupano di immigrazione – e dei richiedenti asilo in particolare – chiedono a gran voce di modificare il Regolamento di Dublino, secondo cui nell’Unione Europea la domanda d’asilo deve essere presentata nello Stato d’arrivo e non può essere trasferita a un paese terzo, tranne in casi eccezionali o di ricongiungimento familiare. Dopo estenuanti trafile burocratiche, finalmente nel gennaio 2013 Ahmed riesce a varcare il confine. Oggi vive a Colonia e, grazie all’impegno di un avvocato che l’ha seguito sin dall’inizio, ha ottenuto asilo politico.
    «Mi trovo bene in Germania», racconta Ahmed. «Ogni giorno vado a scuola, studio elettromeccanica e il mese prossimo inizierò un tirocinio in un negozio di macchine. In confronto all’Italia, qui in Germania l’aiuto per i rifugiati è migliore. Non solo perché ti danno più soldi e un alloggio decente, ma perché almeno non ti lasciano con le mani in mano: o studi o lavori». «E qui c’è meno razzismo. Ho una ragazza tedesca, e i tedeschi parlano, giocano, vengono a ballare con noi. Non ti giudicano solo perché sei nero», aggiunge Ahmed.
La sua storia è la storia di tanti. L’Italia è sempre più un Paese di transito piuttosto che di destinazione, passaggio obbligatorio nella rotta verso i Paesi europei più ricchi. Secondo il Terzo Rapporto annuale sull’immigrazione in Italia del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), nel 2013 la quota di stranieri che lasciano l’Italia è aumentata del 18 per cento.
Sono cifre significative, anche dal punto di vista economico. L’emigrazione degli stranieri dall’Italia porta a una riduzione di 87 milioni di euro di Irpef, si legge nel Rapporto Annuale sull’Economia dell’Immigrazione 2013 realizzato dalla Fondazione Leone Moressa.
Infatti, come sottolinea il rapporto, non bisogna dimenticare che gli stranieri sono anche contribuenti che pagano le imposte. Secondo i dati del 2011, i contribuenti nati all’estero dichiarano al fisco quasi 43,6 miliardi di euro, corrispondenti all’8,3 per cento delle tasse pagate da tutti i contribuenti e al 5,4 per cento del reddito complessivo dichiarato in Italia.
Ahmed non lavora ancora in Germania e sa bene che anche là trovare un lavoro non sarà semplice. Ma almeno, dice, sa che il suo impegno e i suoi meriti verranno riconosciuti: «Per chi segue le leggi e si comporta bene, la Germania offre tante opportunità. Mi manca molto l’Italia, ma sapevo che non avrei avuto un futuro. Qui, invece, mi sento felice».
La rubrica “Nuovi Europei” è parte del progetto OEOE: Our Elections Our Europe che, in vista delle elezioni europee 2014, monitora la stampa e i discorsi dei politici e risponde in modo creativo a eventuali messaggi discriminatori. OEOE è realizzato dal Media Diversity Institute  in Inghilterra, Symbiosis  in Grecia, il Center for Indipendent Journalism (http://www.cij.hu/en/) e CivilMedia  in Ungheria e dall’associazione Il Razzismo è una brutta storia  del gruppo Feltrinelli in Italia, grazie al sostegno diOpen Society Foundations . Seguite i “Nuovi Europei” su “La città nuova”  e su Facebook  e Twitter  .



Permesso unico per lavoro e immigrati autisti di bus. In vigore le nuove norme
Sul permesso verrà  scritto se è valido per lavorare. Si allungano i tempi di legge per rilasci e rinnovi. Domande per i flussi esaminate solo se ci sono ancora quote. Cancellata una norma discriminatoria per le assunzioni degli autoferrotranvieri
stranieriinitalia.it, 07-04-2014
Roma – 7 aprile 2014 – Più chiarezza sui permessi che consentono di lavorare, tempi più lunghi (ma solo sulla carta) per la burocrazia dell’immigrazione, una nuova procedura per l’esame delle domande dei flussi. Ma anche la conferma che un immigrato ha tutto il diritto di fare l’ autista dell’autobus.
Sono alcune delle novità contenute nel decreto legislativo 40/2014, entrato in vigore ieri. Il testo dà attuazione alla “direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di  un  permesso  unico che consente  ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente in uno Stato  membro.
Procedura unica e permesso unico, in realtà, in Italia esistono già: il permesso che viene rilasciato a chi arriva in Italia con i flussi, ad esempio, è già valido sia per lavorare che per soggiornare in Italia. Sostanzialmente, c’è anche parità di trattamento e diritti tra lavoratori italiani e stranieri, anche se rimangono differenze per l’accesso ad alcune prestazioni sociali, ma su questo fronte il decreto non interviene.
Il testo introduce però altri tipi di novità, a cominciare dall’inserimento della dicitura “Perm. Unico lavoro” sui permessi di soggiorno che autorizzano anche un’attività lavorativa . In questo modo un datore di lavoro saprà subito se può assumere un cittadino straniero arrivato in Italia per  un motivo diverso dal lavoro (ad esempio grazie a un ricongiungimento), ma che comunque, secondo la legge, può cercarsi un’occupazione.
Rimangono delle eccezioni. Anche se, a determinate condizioni, permettono di lavorare, non avranno la dicitura “Perm. Unico Lavoro” i permessi di soggiorno Ce per soggiornanti di lungo periodo, per lavoro stagionale, per lavoro autonomo, per motivi umanitari, per rifugiati, per protezione sussidiaria, per studio e per alcune figure professionali che entrano in Italia al di fuori delle quote del decreto flussi.
Il decreto poi innalza da venti a sessanta giorni il tempo massimo entro cui, dal momento della domanda, dovrebbe essere rilasciato, rinnovato o convertito il permesso di soggiorno. E porta da  quaranta a sessanta i giorni entro cui lo Sportello Unico per l’Immigrazione dovrebbe esaminare una domanda per i flussi e concedere il nulla osta all’ingresso del lavoratore in Italia.
È una norma che non farà sentire il suo effetto. Un allungamento dei tempi farebbe infatti scalpore se la pubblica amministrazione rispettasse quelli attuali: in realtà, come tutti gli immigrati sanno, i tempi per rilasci, rinnovi e conversioni dei permessi di soggiorno, o per le risposte alle domande per i flussi, oggi si misurano in  mesi, a volte anche in anni.
C’è invece una novità che semplificherà il lavoro degli Sportelli Unici per l’Immigrazione. Le domande per le assunzioni dall’estero d’ora in poi verranno infatti “esaminate nei limiti numerici” stabiliti dal decreto flussi, e quelle superano questi limiti potranno essere esaminate solo “nell’ambito delle quote che si rendono successivamente disponibili”.
Cosa cambia? Terminate le quote, gli Sportelli Unici per l’Immigrazione potranno ignorare tutte le altre domande, senza più essere tenuti ad emettere e motivare migliaia di rigetti.
Il decreto elimina esplicitamente anche l’obbligo ad esibire il contratto di soggiorno per rinnovare il permesso  per lavoro. Del resto, un vero e proprio contratto di soggiorno ormai viene stipulato solo al primo ingresso e quindi alla prima assunzione del lavoratore in Italia. Se poi cambia datore di lavoro, la “normale” comunicazione di assunzione contiene già le informazioni che erano previste dal contratto di soggiorno.
Infine, è stato cancellato un articolo di un Regio decreto del 1931 secondo il quale il personale di ferrovie, tramvie, autolinee e linee di navigazione interna doveva essere necessariamente cittadino italiano. Si tratta di una norma d’altri tempi, che già diversi tribunali avevano dichiarato implicitamente abrogata, perché discriminatoria. Molte aziende di trasporti, però, continuavano a ritenerla valida, escludendo gli stranieri dai loro bandi di assunzione.
Scarica
DECRETO LEGISLATIVO 4 marzo 2014, n. 40  
Attuazione della direttiva 2011/98/UE relativa a una procedura unica di domanda per il rilascio di un permesso unico che consente  ai cittadini di Paesi terzi di soggiornare e lavorare nel territorio di uno Stato membro e a un insieme comune di diritti per i lavoratori di Paesi terzi che soggiornano regolarmente  in uno Stato membro. (GU n.68 del 22-3-2014)
EP



Roma, discriminazione dei rom nell’accesso alle case popolari
CIRDI, 07-04-2014
A pochi giorni dalla Giornata internazionale dei rom e dei sinti dell’8 aprile, Amnesty International ha nuovamente sollecitato il sindaco di Roma, Ignazio Marino, a dialogare con l’associazione e a porre fine alla discriminazione dei rom nell’accesso a un alloggio adeguato.
“Le violazioni dei diritti umani dei rom da parte delle autorità italiane, incluse quelle di Roma, continuano: sgomberi forzati, segregazione in campi in condizioni abitative gravemente inadeguate ed esclusione dall’edilizia residenziale pubblica stanno proseguendo sotto l’amministrazione del sindaco Marino” – ha ricordato John Dalhuisen, direttore del Programma Europa e Asia Centrale di Amnesty International, appena giunto a Roma.
Dalhuisen interverrà, domani, al convegno “Italiaromanì” organizzato dall’Associazione 21 luglio, in corso in questi giorni a Roma.
“Amnesty International aveva auspicato un cambio di rotta da parte della giunta Marino dopo gli anni del “Piano Nomadi” della giunta Alemanno.
Lo scorso ottobre avevamo accolto con favore l’impegno della giunta Marino a ritirare misure chiaramente discriminatorie nei confronti delle famiglie rom residenti nei campi autorizzati nell’accesso alle case popolari” – ha ricordato Dalhuisen.
“Ad oggi il sindaco Marino non ha mantenuto quegli impegni né ha risposto alla nostra lettera del 14 febbraio scorso, in cui esprimevamo profondo rammarico per il fatto che la graduatoria per l’assegnazione delle case popolari riferita al bando pubblico del 31 dicembre 2012 non fosse stata ancora pubblicata e che l’attribuzione del punteggio a ciascuna domanda venisse ancora compiuta in applicazione dei criteri previsti nella circolare del dipartimento Politiche abitative del 18 gennaio 2013″ – ha sottolineato Dalhuisen.
“Insieme ad Amnesty International, anche il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks aveva evidenziato il carattere discriminatorio di quella delibera, che impedisce ai rom residenti nei campi autorizzati di veder riconosciuto il proprio stato abitativo gravemente disagiato e dunque riduce enormemente le loro probabilità di vedersi assegnata una casa popolare” – ha ricordato Dalhuisen.
“Chiediamo al sindaco Marino anche di fare chiarezza su come intenda impiegare i fondi recentemente messi a disposizione dalla Regione Lazio per la cosiddetta ‘emergenza abitativa’.
Non possiamo accettare che quest’operazione ancora una volta si concluda con l’esclusione delle famiglie rom residenti nei campi, oltre che di altri cittadini che hanno fatto domanda per un alloggio residenziale pubblico in base alla graduatoria del 31 dicembre 2012″ – ha concluso Dalhuisen. A Roma, nell’ambito di una grave emergenza abitativa dovuta alla scarsa disponibilità di alloggi pubblici, dei 50.000 nuclei familiari che vivono nelle case popolari della capitale gestite dall’Ater, solo lo 0,02 per cento è costituito da rom, sebbene i rom costituiscano oltre lo 0,2 per cento della popolazione totale della città.
Fonte: Amnesty International Italia



Quei bimbi e un sogno
Avvenire, 07-04-2014
Marina Corradi
Sullo schermo del pc in redazione passa l’ultimo appello dell’Acnur, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati: sono un milione i siriani sfollati in Libano, equivalenti a un quarto della popolazione di quel piccolo Paese. Come se in Italia arrivassero 15 milioni di profughi. Ma, peggio, quasi la metà sono bambini. 400mila bambini fuggiti dalle bombe e dalla guerra civile. Per 100mila di loro, ha spiegato una rappresentante dell’Unicef da Beirut, si è trovato a fatica un posto nelle scuole libanesi. Per 300mila non c’è niente: solo, nei campi, malattie e ogni tipo di miseria e anche di sfruttamento. Mentre incombe il rischio della siccità: ha piovuto pochissimo quest’inverno in Libano, e l’estate è alle porte.
L’allarme dell’Alto commissariato passa sullo schermo e poi scompare, sospinto dal flusso inarrestabile delle altre notizie., spesso incomparabilmente meno drammatiche. Ti resta però il pensiero, in un angolo della coscienza: quei bambini, quanti.
O forse, per capire, non dobbiamo pensare alle migliaia, ma a uno, o due: occorre guardare quelle facce, quegli occhi. Nelle foto sul web, pressati contro le transenne delle interminabili code per la distribuzione di viveri, hanno sguardi adulti nei lineamenti infantili, e quel contrasto già è doloroso. Hanno occhi da naufraghi, in braccio alle madri: che riescono a tenere in braccio solo il più piccolo, e gli altri si arrangiano. Guardare la faccia di un solo bambino fa capire di più, non è vero? Giacché gli uomini e le donne non sono mai numeri, ma storie e volti unici e irripetibili (sono forse foto simili quelle che il Nunzio in Siria ha mostrato al Papa, come Francesco ha detto nella intervista ai giovani belgi. Sono forse le stesse immagini che hanno spinto il Papa a pregare per il popolo siriano).
E dunque almeno 300mila bambini così sono dentro a questo esodo biblico in Libano - oltre alle centinaia di migliaia  sfollati in altri Paesi adiacenti. E noi, cosa possiamo fare? Sostenere la Caritas, le grandi agenzie internazionali e le Ong che operano sulla emergenza Siria, certo, e farlo generosamente. E però rimane, tagliente, insistente, spento il pc, la memoria di quegli occhi. E, così indugiando la memoria, si affaccia un sogno, semplicemente un sogno: se solo si potesse portare alcuni di quei bambini in Italia, in Occidente, in una sorta di affido, per qualche mese - il tempo di superare l’onda alta dell’emergenza.  Qualcosa di simile a ciò che si fece per i bambini di Chernobyl, centinaia dei quali vennero ospitati e curati da famiglie italiane, e poi tornarono a casa. Non si vuole "rubare" i figli a nessuno. Non si tratta in alcun modo di questo. Ma la guerra e la fame e la siccità sono forze brutali e incalzanti, e in pochi mesi fanno in tempo a prendersi molte vite. Magari qualche migliaia di queste vite si potrebbero salvare, con un piano di affido temporaneo internazionale. Quante famiglie, quante persone, in Italia e magari in Europa, sarebbero disposte a prendersi in casa per qualche mese un piccolo profugo? Non poche, crediamo. E sarebbe come, nella opaca indifferenza che avvolge l’Occidente riguardo alle miserie delle guerre e del Terzo mondo, uno spiraglio di umanità. Un accollarsi per qualche tempo questi figli, farebbe bene anche a noi – ci ricorderebbe chi siamo, e cosa conta davvero.
Ci mostrerebbe che, ancora, tuttavia, siamo dei privilegiati: viviamo in un Paese in pace, i treni vanno, gli ospedali curano, i nostri figli crescono. I bambini siriani, non sempre. Soltanto un sogno, sulla scia di foto guardate un istante di troppo, non chiuse sullo schermo abbastanza in fretta. Figurati, pensi, quali ostacoli immensi e burocrazie e impedimenti dovrebbe superare, un’idea come questa. Impossibile. È solo un povero sogno. Ma i sogni, ti domandi in un soffio di ribellione, bisogna sempre censurarli? Dirli, almeno, questo si può. Osare il sogno di portarsi a casa per qualche mese un piccolo profugo: curarlo, farlo giocare, fargli vedere che esiste ancora, la pace, e che quindi si può desiderarla, si deve costruirla. Appena mille, appena cento bambini? Fosse anche uno solo, ogni figlio ha un valore infinito.

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