Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

11 dicembre 2014

DA GENNAIO OLTRE 207.000 PERSONE HANNO TENTATO LATRAVERSATA: «È DIVENTATA LA STRADA PIÙ MORTALE DEL MONDO». A FINE ANNO FINISCE MARE NOSTRUM
Mai così tanti morti nel Mediterraneo
Rapporto Onu sulle stragi in mare: sono 3419i migranti che nel 2014 hanno perso la vita per venire in Europa
La Stampa, 11-12-2014
ENRICO CAPORALE
È come se quasi tutti gli abitanti di Firenze decidessero di affrontare l mare, in fuga dai loro incubi. Intere famiglie di disperati, mamme, bambini, fratelli e sorelle che scappano. Un flusso inarrestabile. Molte di queste persone non sanno nuotare, ma il desiderio di una nuova vita è forte. Basta cambiare, e la paura non ferma nessuno, anche se spesso si muore. È l`immagine che viene fuori dalle stime dell`Alto commissariato Onu per i rifugiati nel giorno dell`apertura a Ginevra di un forum sulla protezione dei migranti in mare: nel 2014 - dice l`agenzia - almeno 348 mila persone nel mondo hanno rischiato la vita sui barconi per migrare o cercare asilo in altri Paesi. Di queste, 4.272 sono morte: un record assoluto.
Ma ci sono altri record che ci riguardano più da vicino e sono quelli del Mediterraneo: su 4.272 vittime, 3419 sono migranti che hanno perso la vita qui, a due passi dalle nostre coste, nel tentativo di navigare quel mare che separa (o unisce) Europa, Africa e Asia, trasformando così la traversatadel Mediterraneo (nonostante gli sforzi italiani con Mare Nostrum, che finirà a fine anno) nella «strada più mortale del mondo». Il terzo record è quello delle persone che nel 2014 hanno tentato o sono riuscite ad attraversare lo stesso Mediterraneo: oltre 207 mila, cifra tre volte superiore al 2011 (anno dell`ultimo picco), quando 70 mila migranti erano scappati verso l`Europa (era l`anno delle primavere arabe, delle bombe Nato su Gheddafi, del sogno democratico in Nord Africa).
I dati dell`Unhcr sono il frutto di quella che in estate Papa Francesco definì «la Terza guerra mondiale» («solo combattuta a pezzetti, a capitoli», disse). La gran parte delle persone che scappano via mare, infatti, sono richiedenti asilo in fuga da guerre e persecuzioni. Con i conflitti in Libia, in Ucraina, in Siria e Iraq, l`Europa è diventata la meta principale. Quasi l`80% dei migranti viaggia dalla costa libica verso Italia e Malta, e per la prima volta quest`anno le persone provenienti da Paesi fonte di rifugiati (soprattutto Siria ed Eritrea) sono una «componente essenziale» (il 50% del flusso).
Oltre al Mediterraneo, le rotte dei disperati sono tre: la regione del Corno d`Africa, dove 82.680 persone hanno attraversato il Golfo di Aden e il Mar Rosso; il Golfo del Bengala, dove da Bangladesh e Birmania sono partiti in 54.000 verso Thailandia e Malesia; e i Caraibi (4.775 migranti). «Non si può fermare chi fugge per la vita - ha ammonito Antonio Guterres, Alto commissario Onu per i rifugiati -. Bisogna affrontare le cause reali, le ragioni per cui le persone scappano. Capire che cosa impedisce a questa gente di cercare asilo in modo sicuro, e che cosa si può fare per spezzare le reti criminali che prosperano sui flussi migratori».



Quel dolore che bussa alla porta di tutti
Avvenire, 11-12-2014
Ernesto Olivero
I numeri dicono molto ma non dicono tutto: secondo le Nazioni Unite, nel 2014 solo nel Mediterraneo sono morti almeno 3.500 migranti. Sono vite uniche e irripetibili. Sono il dolore delle loro famiglie che adesso piangono chi non c’è più. Sono la sconfitta di tutti. Davanti a queste morti non possiamo darci pace. E anch’io divento triste e mi arrabbio. Penso agli ultimi gesti di chi è stato travolto dalle onde, agli ultimi pensieri, al grido dei più piccoli, che è diventato anche il mio: "Mamma, mamma mia!". Le emozioni però da sole non servono a nulla. Hanno valore solo se indicano una strada e portano a un ragionamento.
Il mio è semplice: cosa fa chi può cambiare le cose, non solo in Occidente? In Medio Oriente ma anche in Africa ci sono classi dirigenti che navigano nell’oro e non fanno nulla per chi scappa! Penso alle mille e mille storie di chi ha pianto tra le mie braccia, ai racconti delle violenze subite, delle traversate di stenti nel deserto, dei soldi dati a trafficanti senza scrupoli o a poliziotti che, magari, pregavano il loro stesso Dio. Sono racconti così vivi che anche io oggi mi sento un migrante. Potrei riconoscere subito quel pezzo di deserto dove qualcuno ha camminato, è stato violentato, si è arreso alla disperazione, è morto. Anche io saprei riconoscere senza fatica il volto degli aguzzini. La fede mi dà la certezza che tutti questi morti sono nelle braccia di un Padre. Per loro c’è un posto nella sua casa. Non ho dubbi, ma mi chiedo: sarà così anche per i carnefici? E chi rimane indifferente, ha meno responsabilità? Davanti agli occhi però ho anche l’esempio di tanti maestri di pace che ho conosciuto. Penso a padre Michele Pellegrino, già arcivescovo di Torino e Giorgio La Pira, ex sindaco di Firenze che mi ha fatto incontrare la profezia di Isaia, il suo sogno di tramutare le armi in strumenti di lavoro.
Mi fa male pensare alle risorse che potrebbero dare ali alla pace, alla sicurezza, alla dignità di tutti e invece alimentano un mercato che uccide. E non una volta sola! Le armi uccidono quando tolgono fondi e giovani intelligenze a progetti di sviluppo. Le armi uccidono quando vengono usate, convenzionali o no, intelligenti o no. Uccidono un’altra volta perché preparano la vendetta e la prossima guerra. E un’altra ancora, distruggendo vite. È il momento di dire basta. Ma è anche il momento di cominciare a fare qualcosa per liberare il mondo da ogni forma di schiavitù. All’Arsenale della Pace, una vecchia fabbrica di armi trasformata in una casa di accoglienza, di spiritualità, di incontro per decine di migliaia di giovani ci stiamo provando. Quante storie terribili.
Ma anche quanta speranza. Quanti bambini soldato ci hanno raccontato di aver dovuto uccidere il padre, la madre, un famigliare e adesso vivono una vita nuova. Quanti ragazzi e ragazze hanno mollato lo spinello. Quanti piccoli o giovani donne salvate dalla strada che ora vivono con noi. Il dolore del mondo bussa alla porta di ognuno, ma anche a quella dei governi e degli organismi internazionali che spesso si nascondono dietro alle parole. Al contrario, servirebbero Nazioni Unite autorevoli e realmente indipendenti capaci di intervenire concretamente per la giustizia.
 E allora benedetto papa Francesco, che dall’inizio del suo pontificato ho sentito di chiamare «padre atteso». Benedetto il Papa, perché nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace ci fa sognare davvero un mondo migliore e ci ricorda che l’amore non è un sorriso, ma un fatto. Dio ci chiederà conto dei nostri fratelli, della «globalizzazione dell’indifferenza» che tante volte incrocia anche la nostra strada. È vero: l’unica globalizzazione che dà vita è quella che passa dalla fraternità e dalla responsabilità, dalla realtà di un Dio che ha messo il mondo nelle nostre mani. Soprattutto in quelle dei giovani che oggi possono dire il loro 'no' a qualsiasi ingiustizia o malaffare, vivendo la politica e il potere come servizio, il lavoro e le scelte personali come impegno per il bene comune. Ogni istante come un atto d’amore, perché il mondo sarà di chi lo amerà di più. E noi vogliamo amarlo perdutamente: credenti o no, è l’impegno di tutti.



Adesso l`Europa ci ripensa: «Non soccorrete i barconi»
L`operazione Triton coinvolge Bruxelles e l`Agenzia continentale delle frontiere subito si scansa: basta aiuti agli immigrati in acque libiche, in caso di pericolo tocca all`Italia
Libero, 11-12-2014
GIANANDREA GAIANI
Contrordine, kameraden! La missione navale europea Triton è operativa solo da poche settimane nel Canale di Sicilia ma non vuole saperne di soccorrere immigrati clandestini sulle bagnarole in arrivo dalla Libia. L`agenzia europea per le frontiere Frontex non ha esitato a mettere nero su bianco la sua «preoccupazione» per i ripetuti interventi «fuori area» cui sono costrette le sue unità navali che dovrebbero limitarsi a pattugliare il mare fino a 30 miglia da Lampedusa, evitando di avvicinarsi alle acque libiche. In una lettera al direttore dell`Immigrazione e della Polizia delle Frontiere del Viminale, Giovanni Pinto, il direttore della divisione operativa di Frontex, Klaus Rosler, esprime tutto il suo disappunto per il fatto che le navi Ue vengono chiamate a soccorrere gli immigrati clandestini. Il tedesco è arrabbiato per le attivazioni impartite alle navi dell`Unione Europea di portarsi «in zone poste fuori dall`area di operazioni di Triton» per prestare soccorso ai barconi in difficoltà. Per Rosler gli interventi richiesti alla flotta con la bandiera blustellata per soccorrere le carrette dei clandestini «non sono coerenti con il piano operativo» di Triton «e purtroppo non saranno prese in considerazione in futuro».
Rosler, ex funzionario della polizia federale, ci informa dunque che Triton non risponderà più alle richieste di soccorso, come ha dovuto invece fare il 20 novembre quando il Centro operativo di controllo di Roma, dopo aver ricevuto una telefonata satellitare, diede istruzioni a una nave della flotta Ue di verificare la presenza di un`imbarcazione in difficoltà. Per l`euroburocrate teutonico «Frontex è dell`opinione che una telefonata satellitare non sia un evento Sar (Search and Rescue)», cioè non costituisca un motivo sufficiente per attivare un intervento di ricerca e soccorso e «raccomanda fermamente che siano intraprese azioni per investigare e verificare, e solo in seguito, in caso dí difficoltà, attivare un altro assetto marittimo».
In pratica per Rosler prima di mandare una nave a soccorrere un barcone occorre verificare che quell`imbarcazione sia davvero in pericolo e qualora lo fosse, meglio inviare in soccorso navi italiane o maltesi senza scomodare quelle di Triton. A Rosler, che si è fatto le ossa come esperto di frontiere lungo il confine tra Germania e Repubblica Ceca (dove non affoga nessuno perché non c`è il mare), non sembra interessare il fatto che, se per ogni barcone che chiede soccorso si facessero indagini, investigazioni e ricognizioni preventive, ì morti in mare sarebbero almeno dieci volte i 3.500 stimati dall`alto commissariato dell`Onu per i rifugiati (Unhcr).
La ragione per cui il dirigente tedesco mostra tanto disprezzo per la vita umana viene ben illustrata dallo stesso Rosler: la missione europea non considera «necessario e conveniente sotto il profilo dei costi l`utilizzo di pattugliatoti per queste attività di verifica iniziale al di fuori dell`area di operazioni». È attento al budget dell`operazione Triton, e per risparmiare carburante preferisce lasciare affondare barconi con centinaia di persone a bordo. E però, così attento a non sforare il rapporto costi/benefici della missione europea, Rosler non si accorge di sfondare il limite del ridicolo quando invita il Centro operativo di controllo di Roma «a tenere in considerazione il luogo e la distanza tra i possibili obiettivi» (cioè i barconi salpati dalla Libia) dalle navi di Triton, suggerendo di «coinvolgere i centri operativi di controllo più vicini» per quanto riguarda gli incidenti in prossimità delle coste libiche e in panicolare quello di Roma, «qualora possa impegnare navi in prossimità delle persone in pericolo».
Tradotto dall`euroburocratese, Rosler pretende che per i soccorsi vengano mobilitate le navi italiane. Una pretesa che spiega anche perché Frontex ha posto contro ogni logica il comando di Triton presso il comando della Guardia di Finanza invece che in quello della Squadra Navale della Marina, dove era più logico collocarlo considerato che da li viene gestita Mare Nostrum. L`Unione Europea non vuole mischiare Triton con la missione italiana per non venire coinvolta nei soccorsi.
Molte le reazioni scandalizzate alla lettera di Rosler. Quante tragedie si registreranno in mare quando a fine dicembre terminerà Mare Nostrum se Frontex si preoccupa di non «sprecare» carburante? Inutile però continuare a stupirsi dell`ottusità e dell`ostilità nei cónfronti dell`Italia da parte di un`Unione Europea che ci ha attribuito la responsabilità per i morti in mare e le carenze nell`accoglienza a ben 180 mila persone rimproverandoci anche ogni volta che qualche clandestino raggiungeva il Nord Europa. Triton costerà solo tre milioni al mese, un terzo di Mare Nostrum ma sempre
troppo per una missione inutile che non respinge e non soccorre.
Le diatribe con Bruxelles e i dati sui morti in mare confermano che l`unica soluzione è rappresentata dai respingimenti dei clandestini sulle coste libiche, attuata in sicurezza dalla Marina italiana, ben in grado con navi e fucilieri di riportare indietro quanti vengono soccorsi in mare. Anche in questo caso non mancherebbero le critiche dell`Europa, ma in tema di difesa delle frontiere ogni Stato è sovrano (la Bulgaria e Malta clandestini) e i respingimenti respingono regolarmente i farebbero in breve tempo cessare i flussi e l`arricchimento dei trafficanti di uomini.



E a Dresda sfilano gli anti-immigrazione
Lunedì la grande "adunata" dei Patrioti europei vicini ai neonazisti
La Stampa, 11-12-2014
TONIA MASTROBUONI INVIATA A BERLINO
Sono i «Patrioti europei contro l`islamizzazione occidentale» e lunedì prossimo manifesteranno nuovamente a Dresda contro gli immigrati, soprattutto quelli musulmani. I membri di «Pegida» dicono di difendere i valori della «cultura giudaico-cristiana», di non essere razzisti sulla pagina Facebook sostengono di rifiutare il nazismo - e chiedono leggi sui rifugiati e sugli immigrati più restrittive, analoghe a quelle svizzere, ma anche «zero tolleranza» contro gli stranieri che commettono crimini o «i predicatori di odio».
Il movimento è esploso in pochissimo tempo e l`altroieri, all`ultima manifestazione nella città sassone, Pegida è riuscita a riunire quasi diecimila persone dietro bandiere contro la presunta «islamizzazione del Paese». Un dettaglio da brivido è che gli anti islamisti hanno scippato alla rivoluzione pacifica del 1989 che portò alla caduta del Muro di Berlino uno degli slogan principali, «Wir sind das Volk», ossia «Noi siamo il popolo». Per fortuna, una parte del popolo sta scendendo invece in piazza ogni volta che Pegida annuncia una manifestazione, per protestare contro ed esprimere solidarietà
con gli immigrati. Oltretutto, durante le loro proteste si materializzano spesso neonazisti ed elementi o slogan di estrema destra. Tanto che il ministro della Giustizia, Heiko Maas, ha avvertito, martedì scorso, che «c`è un limite alla tolleranza rispetto alle opinioni politiche» e che «tutti i partiti dovrebbero prendere chiaramente le distanze da queste proteste». Gli anti-euro dell`Afd si sono ovviamente affrettati ad appoggiare in pieno le iniziative di Pegida.
Il movimento è stato fondato da un quarantenne, Lutz Bachmann, che ha organizzato la prima protesta agli inizi di ottobre; da allora le manifestazioni si sono anche estese ad altre città come Colonia o Amburgo. Ma in nessun`altra città stanno avendo successo come a Dresda.



Padova - Ingabbiati per undici ore al gelo nel parcheggio della Questura: 50 siriani tra loro 8 bambini
Sbarcati a Crotone alle 13.30 di martedì, viaggiano per 14 ore verso Padova: costretti ad essere identificati
Melting Pot Europa, 10-12-2014
Nicola Grigion
Ce l’abbiamo fatta. Ikram non può aver pensato che questo quando il mercantile su cui ha viaggiato dalla Turchia all’Italia è approdato al porto di Crotone. Erano le 13.30 di ieri (martedì 9 dicembre) e lui, in fuga da molto tempo, era convinto di aver trovato protezione.
Ma quando alle 8.00 di questa mattina sentiamo la sua voce al telefono, sembra già aver cambiato idea. Dopo meno di ventiquattrore deve essersi reso conto che l’Europa dei diritti umani è ben altro da ciò che aveva immaginato.
Lui, insieme ad un gruppo di altri 49 siriani, nonostante un viaggio in mare durato giorni, è stato immediatamente fatto salire su un pullman che dalla Calabria si è mosso alla volta di Padova; un percorso di oltre mille chilometri per un totale di oltre dodici ore. Poco male, verrebbe da pensare. Forse Ikram e soprattutto gli otto bambini che sono con lui potranno finalmente rifocillarsi accolti in un centro di accoglienza. Ed invece no. Perché oltre al viaggio in mare, oltre a quello in pulmann, Ikram e gli altri 49 rifugiati siriani saranno costretti a trascorrere undi ore (dall’arrivo alle ore 4.00 alle 15.30 del pomeriggio) ingabbiati nel parcheggio interno della Questura di Padova, in attesa di essere identificati.
La telefonata è breve. La sua voce è stanca, non abbiamo molto tempo per parlare, ma non è difficile capire che è arrabbiato e disperato: "help us please!" - ci dice - We don’t eat, we don’t sleep, there are childrens with us, and the Police want our finger-print!. Ikram, come tutti gli altri, non vuole essere identificato. Per lui, come per i suoi compagni di viaggio la meta, non è certo una novità, sono la Svezia o la Germania. E dopo questo impervido tragitto non ha nessuna intenzione di infrangere il suo sogno nel parcheggio di un ufficio di Polizia europeo diventato per l’occasione un informale centro di identificazione.
Intorno alle 8.30 ci precipitiamo davanti alla Questura e chiediamo di parlare con un responsabile. Vorremmo poter entrare all’interno del cortile dove ormai da più di quattro ore (ne rimarranno oltre undici) il gruppo è costretto a stazionare. Sono al freddo, non hanno mangiato, e noi vogliamo verificare le loro condizioni. Chiediamo che vengano immediatamente trasferiti in una "centro di accoglienza" e che gli venga fissato un appuntamento per i giorni seguenti. Ma la risposta è sempre la stessa: "abbiamo l’ordine di non dire nulla, di non farvi avvicinare". Eppure Ikram e gli altri non sono in stato di detenzione.
L’aspetto più delicato è ovviamente proprio quello legato alla procedure di identificazione. Secondo la Polizia i cinquanta si trovano in stato di "fermo identificativo". Loro però hanno il passaporto e dovrebbe bastare. Identificare una persona significa infatti poter risalire alla sua identità. Nessuno di loro si è rifiutato di esibire i documennti e pertanto il fermo identificativo non ha alcuna giustificazione. Le procedure che sono in corso sono invece quelle che vengono effettuate quando un migrante esprime la volontà di chiedere asilo in Italia. Si tratta dei rilievi svolti per l’inserimento dei dati in Eurodac, il sistema informatico europeo che serve per far funzionare le gabbie del regolamento Dublino e non vi è alcun limtie di tempo per effettuarli. Non è certo una novità che, proprio le Questure, abbiano per molto tempo (anche per mesi) rinviato il momento della formalizzazione della domanda d’asilo di migliaia di richiedenti asilo che invece in Italia volevano rimanere. Almeno fino a quest’estate poi, anche questo non è certo un segreto, il rilevamento delle impronte dei cittadini siriani ed eritrei non veniva neppure effettuato, con la speranza che potessero defluire verso altri paesi e dare un pò di tregua al disorganizzato sistema di accoglienza italiano.
Da settembre però qualcosa è cambiato. Ma perché tanta fretta di procedere al foto-segnalamento?
Gli altri Stati Membri, nel corso dell’estate, hanno chiesto all’Italia di intervenire proprio per mettere fine all’afflusso di richiedenti asilo verso il Nord Europa. Germania e Svezia (che ospitano rispettivamente 1.337 e 5.700 richiedenti asilo per ogni milione di abitante, contro i 432 dell’Italia) hanno così concesso l’avvio dell’operazione Triton/Frontex, che ha permesso al Governo Renzi di mettere fine a Mare Nostrum.
Così, da settembre, una direttiva del Ministero dell’Interno ha dato istruzioni alle Questure affinché i rilevamento delle impronte per l’inserimento in Eurodac venga effettuato in maniera "rigorosa". Negli scorsi mesi, proprio a seguito dell’emenazione della circolare, si sono susseguiti episodi di violenza nei centri del sud, dove le identificazioni sono avvenute mediante l’uso della forza, con veri e propri pestaggi. Da moltissime altre parti invece la strategia è stata quella del raggiro. Chi doveva fornire informazioni sui diritti e le procedure connesse alla richiesta di protezione internazionale (così come sulla conseguente impossibilità di spostarsi liberamente in altri Stati UE) ha invece cercato di convincere i miganti ad appoggiare i polpastrelli nella fatidica piastrina, mettendo fine a sogni e speranze. D’altro canto è la circolare stessa a prevederlo, senza mezzi termini, precisando che "oltre alla denuncia, in caso di rifiuto di essere identificati, la Polizia procederà all’acquisizione delle foto e delle impronte digitali anche con l’uso della forza se necessario.
Eppure non c’è giorno in cui non vengano sollevate polemiche contro i profughi "ospitati" dall’Italia, colpevoli di costare troppo, invitati a "tornare a casa loro". ed i migranti che invece vogliono raggiungere altri paesi vengono forzati a presentare domanda d’asilo in Italia. Una follia.
Ma il grande carrozzone dell’accoglienza all’italiana non sembra avere un granché a cuore i desideri di chi fugge dalla guerra. E’ così che il parcheggio di piazzetta Palatucci si è trasformato in un nuovo confine da superare, un’altra frontiera che divide Ikram ed i suoi amici, dal loro futuro.
Passiamo la mattinata tra i cancelli della Questura e la sala d’aspetto dell’ufficio immigrazione. Seguiti a vista. Non possiamo in alcun modo entrare in contatto con i siriani che invece avevano chiesto di poter essere accompagnati da noi. Anche la stampa arrivata sul posto riceve lo stesso trattamento: non si può sapere nulla. E’ un pò lo stesso silenzio che mortifica il diritto di cronaca ogni volta che si cercano informazioni sui dispositivi di accoglienza, sulle convenzioni, sugli appalti, sulle procedure. Quel vuoto di informazione che ha permesso alla "mafia romana" di agire indisturbata sulla pelle dei migranti e che permette quotidiane prassi illegittime contro i richiedenti asilo ed i rifugiati, non di rado condannate dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, anche di recente.
Intanto il tempo passa ed il telefono di Ikram si spegne. Perdiamo i contatti. Fino a quel momento è riuscito ad evitare l’identificazione.
Alle 13 arriva il momento della conferenza stampa. Incontriamo un portavoce della Questura che però chiarisce subito di non saper nulla della vicenda.
Secondo lui tutto si sta svolgendo secondo il protocollo, si tratta di normali operazioni e tutti si trovano al caldo: noi giriamo lo sguardo e scostiamo la tenda indicando il gruppo che staziona all’esterno. "E’ una bella giornata ci dice il portavoce".
Quando chiediamo spiegazioni su quanto sta avvenendo le risposte sono vaghe. In ogni caso ci dice, "i mediatori sono al lavoro per convincere i migranti a lasciare le impronte", come fosse un obbligo. E pioi aggiunge: "chi non ottemperà sarà denunciato, probabilmente ai sensi dell’art 650 del codice di procedura penale.
Intanto un pullman bianco si prepara per un nuovo trasferimento. Passa ancora quanche ora ed all’alba delle 15.30, dopo ben più di otto ore trascorse al freddo, i quaranta uomini, le due donne e gli otto bambini costretti ad un trattamento inumano all’interno della Questura di Padova salgono sul pullman e vengono trasferiti a Monselice. Li incontreremo insieme ai volontari dell’Associazione Razzismo Stop.
Ma probabilmente Ikram ci rimarrà solo poche ore per poi dirigersi verso il confine, magari passando per la Stazione Centrale di Milano, alla ricerca di un trafficante a cui riempire le tasche per superare la frontiera, per poi accorgersi, una volta arrivato a destinazione, che quel confine che pensava di aver attraversato una volta per tutte, grazie a quell’identificazione, non lo abbandonerà probabilmente mai.

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