Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

I romeni e l’ostilità variabile

Prefazione
Luigi Manconi
Se questo libro non avesse già il suo bravo titolo, così esplicativo e razionale, saprei io cosa suggerire. Ne proporrei uno, come dicono quelli del settore commerciale delle case editrici, da “edicola delle stazioni ferroviarie”: qualcosa tipo “come non farsi troppo male con gli stranieri” oppure “il romeno in dodici lezioni” o ancora “vivere è bene, convivere è meglio”.

Non scherzo, o scherzo solo un po’: la qualità di questo libro, infatti, consiste in primo luogo esattamente nella sua praticità. In un duplice senso: nel fatto che rappresenti proprio un manuale delle buone pratiche, col vantaggio di illustrare puntualmente le strategie più lungimiranti e più efficaci –  rispetto a prontuari come “dimagrire in sette giorni” – per affrontare contraddizioni sociali estremamente acute. E nel senso, poi, che quelle stesse pratiche possono costituire altrettanti elementi di una possibile politica per l’immigrazione (quella, in particolare, dei romeni), che si sottragga per un verso alle suggestioni della retorica e, per l’altro, alle tentazioni della etichettatura e della stigmatizzazione.
Letto il libro si ha la forte sensazione di due dismisure. La prima viene enfatizzata dalla relazione tra gli stereotipi dominanti anche nelle nostre teste (anche nelle nostre: di Alina Harja, di Guido Melis,  di Luigi Manconi …) e i tratti reali della comunità romena residente in Italia.
La dismisura è talmente ampia da lasciarti smarrito: incapace di cogliere un qualunque rapporto tra le facce romene della cronaca nera (“facce da stupratori”) e le facce, le fisionomie, le voci, i gesti i comportamenti dei romeni che puoi incontrare, e non solo nelle pagine di questo libro, nel lavoro di cura come badanti o baby-sitter, nell’edilizia o nell’artigianato e in alcune attività specializzate.
La verifica della seconda dismisura richiede un’opera di comparazione non troppo impegnativa. Si vada con la memoria a tre lustri fa (facendo, se si crede, anche un salto in emeroteca) e si scoprirà che processi del tutto simili, sin  nel dettaglio, e meccanismi pressoché identici venivano applicati infallibilmente, a un’altra nazionalità: quella albanese. E quando dico meccanismi pressoché identici, mi riferisco alle procedure a e alle sequenze, agli stilemi linguistici e a quelli fisiognomici, alle formule verbali e alle strutture sintattiche della stigmatizzazione nei confronti di un soggetto altro e ostile, quello albanese, nel corso di tutti gli anni ’90.
Di più: non si creda che la comparazione tra i processi di “inimicizia” contro gli albanesi, prima, e i romeni, poi, valga solo per il metodo; non si creda, insomma, che essendo sempre quella la tecnica di stigmatizzazione, anche i comportamenti sociali conseguenti siano sempre sovrapponibili. Eppure lo sono certamente qui. È vero, cioè, che il passaggio dalla xenofobia alla criminalizzazione (ossia dalla paura all’aggressività) segue uno schema preciso e ricorrente, sedimentato da decenni e decenni. Ma la comparazione albanesi-romeni offre un elemento in più: pressoché tutti i connotati negativi – i motivi di riprovazione –  del nemico-romeno ostracizzato sono coincidenti con quelli del nemico-albanese ostracizzato, a sua volta, in precedenza.
Se ne ricavano alcune conseguenze. In primo luogo, il fatto che se i connotati negativi che suscitano periodicamente la nostra ostilità tendono a essere i medesimi, ciò segnala le zone più vulnerabili della nostra sensibilità e i tratti più esposti della nostra struttura psicologica, individuale e collettiva. Ovvero ciò che segnaliamo come stigmatizzabile nell’altro corrisponde a un nostro punto debole. In secondo luogo si evidenzia quella che possiamo definire una “ostilità variabile”. Ricerche scientifiche italiane e internazionali documentano come la “classifica della nemicità” tende a presentare un panel di soggetti-bersaglio sostanzialmente inalterato nel tempo, che prevede tuttavia new entry e uscite di scena e, in particolare, un ordine gerarchico che varia periodicamente. Oggi, mentre le amministrazioni comunali di molte città realizzano i “piani nomadi”, in genere accolti con unanime soddisfazione dagli istituti del decentramento (circoscrizioni o municipi) a prescindere dalla loro connotazione politica, l’etichetta “zingaro” (o rom) risulta al primo posto nella riprovazione sociale. Seguita da quella di romeno. Ma, appena quarant’anni fa (un passato non troppo lontano rispetto alla storia della società nazionale), al festival di Sanremo del  1967 trionfava la canzone “Zingara”, suntuosamente interpretata da Iva Zanicchi. E negli anni successivi, la figura – tutta giocata in chiave magico-romantica – dello zingaro o della zingara compariva in numerosi testi della musica leggera italiana. E per anni (fino al 1997), la zingara, interpretata da Cloris Brosca fu il programma preserale più seguito della televisione italiana. Non sembrino pretestuosi questi riferimenti ai consumi culturali popolari: finché nell’immaginario sociale, la figura dello zingaro/a conserva una sua positività, l’opera di criminalizzazione incontra resistenze.
Oggi tale opera può dispiegarsi compiutamente perché di quelle rappresentazioni magico-romantiche non resta quasi più traccia. Ma ciò che maggiormente conta è che quel primato di riprovazione attualmente in capo agli zingari,  e proprio in coincidenza con gli sgomberi cui sono sottoposti, è tutt’altro che saldo. I romeni insidiano quel primato, già conquistato appena pochi anni fa e poi perso, e nulla esclude cha altri competitor emergano fino a prevalere. I magrebini, ad esempio, che già in passato – quando l’immigrazione straniera era più ridotta e più omogenea – costituivano il bersaglio immediato della xenofobia che cominciava a  manifestarsi.
Ma la comparazione albanesi-romeni offre anche qualche elemento di fiducia: le statistiche relative al tasso di criminalità dei primi tracciano nell’ultimo quindicennio una costante curva discendente, dopo il picco della seconda metà degli anni Novanta; e, più in generale, tutte le ricerche testimoniano di un lento ma progressivo processo di integrazione degli albanesi nel tessuto lavorativo e nelle relazioni sociali del nostro paese. Con ciò non si vuol introdurre – Dio ce ne scampi e liberi – una meccanica correlazione tra disoccupazione sotto occupazione marginalità sociale da un lato, e attività criminale, dall’altro. Abbiamo imparato, e da tempo, che i processi sociali rispondono a logiche assai più complesse e contraddittorie, ma resta il fatto che l’addensarsi (innanzitutto in termini quantitativi) del problema-albanesi coincise con l’acuirsi dell’allarme collettivo, a sua volta accentuato dalle condizioni di precarietà, come “allo sbando”, in cui venivano a trovarsi migranti e fuggiaschi provenienti dall’Albania negli anni successivi al crollo del Regime di Enver Hoxha. Il “raffreddamento” del problema-albanesi si dovette a molti fattori. La firma di accordi tra l’Italia e l’Albania e la cooperazione tra i due paesi, la riduzione del flusso migratorio, l’inserimento lavorativo, in particolare in alcuni segmenti del mercato del lavoro (anche regolare), la stabilizzazione residenziale e i ricongiungimenti familiari, portarono a un ridimensionamento dell’emergenza-criminalità, rappresentata dall’attività illegale di una quota assai minoritaria di quella popolazione. Ciò è destinato ad avvenire, col tempo, anche per quanto riguarda i romeni.
Ma a quest’ultimi è toccato di essere segnati da uno stigma peculiare, che ne ha sfigurato l’identità e compromesso drammaticamente l’immagine. Ed è lo stigma della “vocazione allo stupro”. A inchiodare i romeni a quella etichetta infame contribuiscono molte cause, assai fitte e inestricabili. Non è questa la sede per indagarle, ma non è forse inutile richiamarne una, la più “scandalosa”. La storia e la cronaca della Romania presentano uno scenario drammatico dove è strettissimo l’intreccio tra infanzia/adolescenza e condizioni diffuse di maltrattamenti, abusi, violenze sessuali, in ambito familiare e non. Nella storia della Romania post-comunista la tragedia dei bambini abbandonati è stata documentata mille volte. Ma si tratta di situazioni che, probabilmente, affondano le radici in epoche assai precedenti. Fino a configurare una sorta di modello latente, seppure non generalizzato, di rapporto con l’infanzia/adolescenza dove la pratica dell’abuso e della sopraffazione costituisce un tratto significativo. Se tali comportamenti, ispirati alla violenza e alla violenza sessuale, hanno nutrito il senso comune di successive generazioni, o comunque di parti di esse, come stupirsi se si hanno le conseguenze attuali: bambini cresciuti all’interno di simili modelli culturali, e vittime di quegli stessi modelli, perché mai – una volta diventati adulti – non dovrebbero trasformarsi in predatori? Al di là della plausibilità o meno di una simile ipotesi, resta il fatto che - nel “cuore nero” della società italiana, nelle sue dimensioni più profonde e oscure – covava, alimentato dalla cronaca e dalle manipolazioni della cronaca, un brutale pregiudizio nei confronti di alcuni gruppi nazionali.
Si manifesta, poi, un fattore precipitante che porta alla crisi di quella sorta di patto civile che aveva funzionato come interdizione all’utilizzo nel discorso pubblico di categorie dichiaratamente razziste. In altri termini, salvo alcune e particolarmente vistose eccezioni, nel nostro paese e nella sua sfera pubblica ha retto più o meno, per decenni, quello che possiamo chiamare il tabù del razzismo.
Per capirci, l’equazione romeno (o altro gruppo nazionale) uguale stupratore non aveva cittadinanza se non in ambienti ristretti e periferici e risultava impresentabile culturalmente, e tanto più politicamente. Con l’omicidio di Giovanna Reggiani a opera del romeno Romulus Nicolae Mailat nell’autunno del 2007, quella interdizione semplicemente non funziona più. Di fronte a questa catastrofe culturale (e morale), il Partito democratico e, più in generale, la sinistra,  si rivelano incapaci di offrire un’alternativa di valori e – che è poi la stessa cosa - di politica. E  finiscono, pertanto, con l’accettare – o comunque subire – il terreno proposto dalla destra, rimanendone schiacciati. Il libro di Guido Melis e Alina Harja ha il merito di analizzare con meticolosità, e sincerità, il comportamento autolesionistico della sinistra. Ma non si limita a questo: con la sua ricchezza documentaria e con la sua ampia e articolata rassegna di proposte, offre una solida base per una politica radicalmente alternativa a quella che ha determinato un simile disastro.
E qui vale la pena riprendere quanto prima detto a proposito della praticità di questo libro e della sua capacità di fornire “istruzioni per l’uso” e per un “buon uso” della politica. Della politica come attività finalizzata a produrre, insieme, idee e fatti. In queste pagine si può ritrovare una trama serrata di atti e di comportamenti, di indagini e di interpretazioni che consentono di affrontare il problema-romeni come una questione tra le altre dell’agenda politica. Non come l’Emergenza, la terribile Minaccia Sociale, la Disgrazia Assoluta. Quella trama, evidentemente, richiede il lavoro paziente e quotidiano di una pluralità di soggetti e il libro dimostra che un tale lavoro è già in atto, produce già i suoi frutti, comincia già a dare i suoi primi risultati positivi. Ciò che manca è, palesemente, una volontà politica che dica, con la chiarezza e il coraggio necessari, ciò che va detto: il problema-romeni è un nostro problema, che non va né ignorato né ridotto a mera questione criminale, né rimosso né catalogato come un incidente della storia. Sembra facile, no? Ma è esattamente ciò che NON è stato fatto finora.

1 febbraio 2010


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