Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

05 gennaio 2011

Le Termopili anti-immigrati
l'Opinione, 05-01-2011
STEFANO MAGNI
Altro che "respingimenti": per arrestare l'ondata migratoria, il governo socialista greco di George Papandreou annuncia la costruzione di un muro lungo il confine orientale con la Turchia. Non è l'esercito degli invasori persiani che deve essere fermato, come ai tempi di Maratona o delle Termopili. Non saranno gli scudi dei coraggiosi ateniesi o dei disciplinati spartani a trattenere il nuovo "avversario". Sarà piuttosto edificata una barriera di reti e sensori lungo il fiume Evro per fermare una .massa di lOOmila disperati che, al ritmo di 245 al giorno, arrivano dal Golfo Persico, Pakistan e Afghanistan cercando rifugio e fortuna in Europa.
Lo ha annunciato il ministro per la Protezione del Cittadino, Christos Papoutsis: "La società greca ha superato il suo limite nell'accogliere immigrati illegali. Questa è la dura realtà". E ha denunciato, senza nominarli, colo¬ro che danno prova di "ipocrisia" criticando il progetto, forse, ha detto, per fare della Grecia un centro di accoglienza a lungo termine per i clandestini.
Gli "ipocriti" si possono però facilmente individuare. Sono gli stessi che si erano affrettati a condannare l'Italia per i suoi accordi con la Libia per fermare le "carrette del mare". La Commissione Europea ha avvertito la Grecia che: "Misure a breve termine non ci permettono di affrontare il problema dell'immigrazione  in modo strutturale". Il "modo strutturale", però, l'Ue non l'ha ancora dettagliato, né applicato. Secondo i dati ufficiali, dalla Grecia al momento passerebbe il 90% degli immigrati clandestini che entrano nel Vecchio Continente. Vista la proporzione del fenomeno, Bruxelles è stata già più collaborativa   con   Atene   rispetto a quanto era stata con noi. Il mese scorso l'Ue aveva inviato i Rapid Intervention Border Teams, guardie provenienti da tutti i Paesi membri per cercare di arginare l'afflusso di immigrati, ma non è servito a nulla. E quindi sono i greci che devono provvedere da soli ad arginare un flusso che non riescono più a gestire. Fra gli "ipocriti" che condannano il progetto, si annoverano anche i comunisti greci che (dimenticando il muro di Berlino che loro stessi difendevano fino al 1989?) definiscono la barriera "inumana e inefficace". Critiche arrivano anche da alcune importanti Ong in difesa dei diritti u-mani. Human Rights Watch ha subito fatto presente al governo di Atene che, muro o no, la Grecia deve onorare i suoi obblighi sulla protezione dei rifugiati. Silenzio dalla Turchia, che aspira ad entrare in Europa e con questa barriera si vede chiudere una porta in faccia, anche in senso fisico e non solo figurato. E' un silenzio di imbarazzo, perché Ankara non ha fatto abbastanza per regolare il flusso migratorio, come le era stato chiesto dall'Ue. Intervistato sull'argomento, il governatore di Edirne, a ridosso della quale si costruirà il muro, si limita a constatare che: "Qualsiasi barriera è superabile", considerando che: "Nell'area scorre un fiume lungo 200 km, che può essere attraversato in barca in inverno e a piedi d'estate, quando il livello dell'acqua si abbassa".



Muri costruiti contro gli immigrati Ora anche la Grecia ne vuole uno

il Giornale, 05-01-2011
Massimo M. Veronese
La Spagna, l’India, Israele. La globalizzazione moltiplica soprattutto le barriere che la Cina impone persino alla capitale. Obama invece...
Non è ancora nato e già divide. Dodici chilometri di muro a separare due mondi, l’occidente e l’islam, i nativi e gli immigrati, noi e loro. Un avamposto della paura, una barriera di protezione, un reticolato su cui lasciare morire la vita a seconda del punto di osservazione, che in genere ha solo l’alto o il basso. La Grecia ha deciso di piantare la sua Berlino ai confini con la Turchia perchè è li che si è aperto un corridoio attraversato da un’immigrazione irregolare che si è fatta selvaggia. L’Europa apra pure le porte all Turchia se vuole, ma di qui non si passa. «Abbiamo superato già il limite dell’accoglienza - ha spiegato a muso duro il ministro per l’Ordine pubblico Christos Papoutsis - e dobbiamo fare i conti con il popolo greco». Che non ha più lavoro e pazienza con chi lo cerca a casa sua. Ormai va così: nell’era della globalizzazione tra le frontiere passa di tutto, idee, capitali, merci, ma non uomini. È finita l’euforia che seduta a cavalcioni sul Muro di Berlino aveva aperto le porte alla libertà. Adesso la libertà fa paura. Cadono le barriere e crescono i muri.
Buoni, o buonisti, come quello che Zapatero conserva con il pugno di ferro alla frontiera tra il Maghreb e l'Europa, sigillato da una barriera metallica doppia e lunga 9,7 chilometri intorno alla città di Ceuta; o cattivi come quello che sta in mezzo tra India e Bangladesh, 4mila chilometri di ferro e acciaio, ufficialmente al lavoro per stroncare il traffico d’armi, in realtà nato per strangolare i viaggi della speranza.
Il mondo ormai è un fortino assediato che comunica in tempo reale per sentirsi ovunque senza voler essere da nessuna parte. In Israele dopo la barriera di cemento armato pensata da Sharon attorno alla Cisgiordania per stroncare i kamikaze, Netanyahu vuole uno sbarramento tecno lungo la frontiera sud con l'Egitto, per frenare l’immigrazione clandestina che, attraverso l'Egitto, preme dall’Africa verso Israele, unica porta d'accesso via terra, spiega il governo israeliano «al mondo sviluppato». Entro due anni una cinta di reticolati, protetta da una sofisticata rete di controllo radar, sorveglierà buona parte della linea che separa l'estremo limite del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. Costerà circa un miliardo di shekel, poco meno di 200 milioni di euro al cambio odierno, roba che costa ma che non è detto che funzioni.
Obama per esempio ha appena bloccato la costruzione del muro virtuale che doveva risolvere una volta per tutte il problema dei clandestini che entrano negli States dal Messico lungo una frontiera lunga 3200 chilometri. Un muro invisibile ad alta tecnologia, telecamere notturne e radar di ultima generazione, pensato da Bush che alla fine ha creato più problemi di quelli che voleva risolvere. E il confine è rimasto lo stesso colabrodo di sempre. Insieme ai tempi si sono allungati i costi, così cinque anni e un miliardo di dollari pubblici invece degli immigrati sono stati bloccati i fondi. Anche perchè bastava un po’ di pioggia o di vento appena forte per mandare in tilt tutta la sofisticatissima contrartiglieria.
Ma i muri non blindano solo i Paesi ma tagliano in due le città. Pechino, idea del potente capo del Partito Comunista Liu Qi, ha deciso di dotarsi di vigilantes, telecamere e villaggi blindati per filtrare gli immigrati, cinesi pure loro però, che arrivano dalle zone più povere del Paese, giovani che lavorano nell'edilizia o nell'intrattenimento, che sono due dei settori trainanti dell'economia della metropoli. A Dashengzhuang è stato istituito un servizio di vigilanza che per 24 ore al giorno esamina i documenti di tutti quelli che entrano. Il villaggio è completamente chiuso dalle 11 di sera alle 6 di mattina e in altri 16 villaggi cittadini sono stati costruiti 77 muri, installate 306 telecamere di sorveglianza e reclutati 202 vigilantes per controllare gli accessi. E in Slovacchia, a Michalovce, ne hanno appena costruito uno alto due metri e lungo venticinque su iniziativa privata di più di una cinquantina, costo di 3000 euro, che si allaccia ad un’altra barriera costruita dal comune, costata 40.000 euro: mezzo chilometro di bunker cittadino solo per impedire ai 1800 rom della colonia Angi mlyn di raggiungere il centro città passando attraverso le zone residenziali. Ufficialmente il muro è lì come barriera antirumore ma tutti sanno che non è così. Non è una questione umanitaria, di diritti civili, di fratellanza tra i popoli. É che «i rom passano di qua e ci pisciano sotto i balconi, completamente ubriachi: non possiamo nemmeno aprire le finestre dalla puzza». E i muri, si sa, hanno il senso del limite.



In Italia Quando Padova fece barriera contro gli spacciatori

il Giornale, 05-01-2011
Il caso più clamoroso di muro anti immigrati in Italia resta quello di Padova. Per volere del sindaco contro lo spaccio di droga, monopolio africano nell'area di Via Anelli, viene costruito una barriera in lamiera lunga un'ottantina di metri e alta circa tre costruita per debellare il traffico di stupefacenti che ruotava attorno al complesso residenziale «Serenissima», dove risiedevano quasi esclusivamente extracomunitari, di etnie diverse, e che era al centro di problemi di ordine pubblico, numerose le risse tra gruppi rivali, e di episodi di microcriminalità. L'area era da tempo oggetto di un progetto di intervento per la messa in sicurezza, in attesa che venissero ultimate tutte le opere di recupero e risanamento dei vari edifici. I lavori di costruzione del muro erano stati realizzati dai tecnici dell'amministrazione comunale. Prima però il sindaco aveva trasferito in altri quartieri e in alloggi decorosi le 250 famiglie di immigrati che nel bronx di Via Anelli erano costrette a convivere con gli spacciatori. Il muro antispaccio di via Anelli fece notizia sui principali media europei, dal britannico «The Guardian» al francese «Le Figaro», alla rete tv tedesca «Zdf».



Interrogazione di Mollicone al sindaco : ' 'Un pericolo per la sicurezza del quartiere". Foschi del Pd: "Così si getta benzina sul fuoco"
"Il centro islamico dell'Esquilino va chiuso"  E il consigliere del Pdl scatena la protesta
la Repubblica, 05-01-2011
CHIUDERE la "moschea dell'Esquilino". Chiudere un magazzino trasformato in luogo di culto nel quartiere che da anni è diventato sinonimo di immigrazione, di integrazione e di possibili tensioni. La richiesta che arriva da Federico Mollicone, membro della commissione sicurezza di Roma Capitale è di quelle destinate a dividere e creare polemiche. Che infatti ieri non sono mancate, non appena il consigliere del Pdl ha lanciato la sua proposta con questa motivazione: «Il centro di preghiera islamico di via San Vito è una struttura trasformata da magazzino in luogo di culto, contravvenendo ad ogni regola urbanistica ed igienico sanitaria». Per queste ragioni, Mollicone chiede «la verifica immediata e la conseguente chiusura della struttura: essa rappresenta un luogo di culto non autorizzabile sia dal punto di vista strettamente legale e del rispetto delle norme in materia, che dal punto di vista sociale e religioso, in quanto rappresenta una potenziale miccia pericolosa alla luce dei recenti fatti verificati a danno della comunità cristiana a livello locale».
Osteggiata dai residenti (che non vedono di buon occhio la presenza di un luogo di culto dell'Islam) , vissuta come una provocazione per la vicinanza della chiesa diSanVito,la moschea dell'Esquilino non viene comunque ritenuta pericolosa dall'intelligence, frequentata com'è per lo più da cittadini del Bangladesh. Un centro islamico moderato, insomma, che dopo le parole di Mollicone si trova al centro della polemica politica. Fabio Bonanno, di Sinistra ecologia e Libertà, invita il consigliere del Pdl ad «occuparsi piuttosto di far rispettare le norme igienico sanitarie nei luoghi pubblici come piazza Vittorio o piazza Guglielmo Pepe,
spazi comuni la cui cura spetterebbe all'amministrazione capi-tolina. Le dichiarazioni di Mollicone testimoniano profonda ignoranza e irresponsabilità». Per Enzo Foschi, consigliere regiona-le del Pd, considera l'atteggiamento dell'esponente del Pdl «assai pericoloso. Così si getta benzina sul fuoco, si inaspriscono i toni e si sottopone la città a rischi tremendi». Dall'altra parte, invece, il capogruppo Pdl al I Municipio, Stefano Tozzi, si unisce a Mollico-ne per chiedere la chiusura del luogo di culto di via San Vito.



La comunità Dopo l'attentato di Alessandria d'Egitto è aumentata la tendenza all'arroccamento
La solitudine dei copti d'Italia
Il Corriere della Sera, 05-01-2011
Alessandra Coppola
Allarme in Europa, rafforzate le misure di sicurezza alle chiese
MILANO — Alle sei di sera il pizzaiolo egiziano è già pronto a impastare nel suo ristorante in zona Città Studi. Ma non è tranquillo: «La loro strategia è sempre la stessa, mandano avanti i figli, anche qui, gli insegnano a odiarci, si moltiplicano, diventano più potenti...». La sua preoccupazione sono gli integralisti islamici. «Si può scrivere che vivo a Milano da vent'anni, che ho questa attività da dodici, pago le tasse, tutto in regola: l'Asl è venuta due volte e mi ha fatto i complimenti. Ho una moglie che da pochi giorni ha preso la cittadinanza italiana, tre figli. Qui sto benissimo». Ma il nome non vuole che lo si dica, soprattutto dopo la strage di venerdì notte ad Alessandria d'Egitto. Perché il pizzaiolo è cristiano copto, e nella sua esperienza bisogna essere cauti. Anche in Italia.
La Questura di Milano ha rafforzato la vigilanza intorno agli «obiettivi egiziani», come il consolato, possibili bersagli di «azioni estemporanee». Più attenzione per i luoghi-simbolo dei copti in preparazione del Natale del 7 gennaio: il mona¬stero di Lacchiarella, verso Pavia (un'ex cascina ristrutturata nei primi anni Novanta), e la chiesa di San Marco in via Senato, concessa dalla diocesi ambrosiana dal '96. A Roma le volanti pattugliano la chiesa di San Mina, in piazza della Trasfigurazione a Monteverde. Tutto sommato un'allerta moderata. Più alta la tensione nel resto d'Europa. Transennata alla periferia di Parigi la chiesa di Santa Maria e San Marco, punto di riferimento della diaspora. Le polizie francese, tedesca, austriaca, olandese monitorano siti islamici in cui dal 31 sono aumentate minacce ai cristiani. Il timore e la diffidenza sperimentati in patria si sono trasferiti nelle comunità immigrate. In Italia, dodicimila fedeli e 13 chiese nel Nord, da Bergamo a Venezia, altri ottomila più o meno nel resto del Paese. La maggior parte concentrata a Milano. Una diocesi qui, un'altra a Roma. L'ingegner Salama è uno degli «anziani» in Lombardia, collaboratore del vescovo Anba Kirollos: «Quando sono arrivato io, nel '75, eravamo una trentina». Più esperto, più pacato: «La discriminazione in Egitto spiega solo in parte l'emigrazione dei copti. Non possiamo
parlare di esodo». Cresciuto al Cairo (il pizzaiolo invece è del centro del Paese), Salama racconta che «per la maggior parte i miei amici erano musulmani». L'attentato lo vede come «un colpo a tutto l'Egitto, non solo ai cristiani». Non invoca manifestazioni: gli slogan davanti al consolato non gli sono piaciuti. Non commenta la scel¬ta della comunità romana di escludere i musulmani dalla veglia del 9 gennaio. A Milano li avreste invitati? «La guida di questa diocesi è apolitica — è la sua risposta —. Abbiamo tanto da fare per l'integrazione, non c'è tempo di curare altri aspetti».
A mettere insieme copti e musulmani egiziani neanche il professor Paolo Branca c'è riu¬scito. «È una comunità un po' chiusa—spiega l'islamista della Cattolica — non si sono ag¬gregati alle parrocchie locali, hanno le loro chiese. Non parlano volentieri». Diffidenti anche le seconde generazioni, che «ricevono dai genitori un'immagine negativa dell'Islam». Parlano un po' d'arabo, ma lo scrivono e lo leggono male. La messa è ormai in italiano, i preti si fanno chiamare padre Marco, padre Paolo. «Se per palestinesi, giordani, liba¬nesi cristiani è normale sentirsi arabi, culturalmente e linguisticamente — spiega Branca  per gli egiziani copti immigrati  sembra esserci un rifiuto della componente araba». E un arroccamento che diventa anche paura.



IL CASO/ Una "sanatoria" mascherata sugli immigrati: è questa l'identità arricchita?

Il Sussidiario, 05-01-2011
Gianfranco Fabi
Ancora una volta le scelte politiche sull'immigrazione sembrano dettate dalla ricerca di un sommario compromesso tra esigenze del tutto diverse. Da una parte c'è la volontà esplicita di limitare il più possibile i nuovi ingressi; dall'altra c'è l'esigenza di rispondere alla domanda (anche se inferiore rispetto agli anni precedenti a causa della crisi) di lavoratori sia da parte delle imprese private, sia da parte di realtà pubbliche, come gli ospedali che faticano a reclutare nuovi infermieri, sia da parte delle famiglie per le colf e le badanti; senza dimenticare la necessità di regolarizzare almeno in parte la forte quota di immigrati clandestini determinata dall'impossibilità di accedere alle precedenti sanatorie.
E' nato così, con la pubblicazione sull'ultimo numero utile del 2010 della Gazzetta Ufficiale, il cosiddetto "decreto flussi" con cui si promettono centomila permessi di lavoro entro i primi mesi di quest'anno. E' difficile stimare quante siano in realtà le offerte potenziali di nuovi permessi di lavoro: è certo comunque che quota centomila si dimostrerà largamente insufficiente anche se, ovviamente, il decreto non prevede quote per i cittadini comunitari, come i rumeni.
Ma ci sono altri particolari che dimostrano come la politica verso l'immigrazione sia dettata da un insieme di preoccupazioni formali che si associano all'improvvisazione nei regolamenti. E' significativo per esempio che l'Italia abbia sottoscritto accordi di cooperazione in materia migratoria solo con quattro paesi: l'Egitto, che avrà a disposizione 8mila permessi, la Moldavia (5.200), l'Albania e il Marocco (4.500 ognuno). Per tutti gli altri paesi si è attuata una distribuzione a pioggia decisa semplicemente a tavolino.
Gli ulteriori permessi saranno così 1.000 per i cittadini algerini, 2.400 per quelli del Bangladesh, 4.000 per i filippini, 2.000 per i ghanesi, 1.500 per i nigeriani, 1.000 per i pakistani, 2.000 per i senegalesi, solo 80 per i somali, 3.500 per i cittadini dello Sri Lanka, 4.000 per i tunisini, 1.800 per gli indiani, altri 1.800 per i peruviani, ancora 1.800 per gli ucraini, 1.000 per cittadini del Niger (che non sono i nigeriani), e altrettanti per i cittadini del Gambia. Come dire che con tutti questi paesi non c'è alcuna collaborazione tra i governi e quindi nessun controllo sull'effettiva rispondenza della domanda di emigrazione con l'offerta di lavoro in Italia.
In effetti ancora una volta si dimostra che il decreto flussi costituisce soprattutto una sanatoria mascherata. Il decreto prevede che il lavoratore ottenga il permesso di lavoro nel proprio paese di origine e quindi in teoria questi dovrebbe uscire clandestinamente dall'Italia perché un'eventuale segnalazione di espatrio renderebbe impossibile l'ottenimento del permesso di lavoro. Tutto questo "in teoria" perché manca l'effettiva possibilità di controllo mentre peraltro resta forte l'esigenza (politicamente scorretta) di regolarizzare gli immigrati già presenti e che allargano le truppe del lavoro nero e sommerso.
In tutto questo tuttavia non si vede traccia di una reale e costruttiva politica dell'immigrazione, una politica che non vuol certo dire aprire comunque le porte a tutti, ma vuol dire soprattutto realizzare una strada di rispettosa integrazione.
La linea è indicata molto bene nel libro "Immigrazione" di Giorgio Paolucci (ed. Viverein, pagg. 90, € 5), un libro in cui sinteticamente si traccia un quadro efficace dei problemi degli stranieri in Italia. «Gli immigrati, scrive Paolucci, devono innanzitutto potersi misurare con una proposta forte di convivenza che parta da ciò che siamo, dalla storia alla quale apparteniamo e da cui siamo stati generati, e che insieme sia capace di intercettare positivamente i contributi umani e valoriali portati da quanti si affacciano nel nostro paese». Il modello è quello, certamente difficile e complesso, dell'"identità arricchita": perché l'accoglienza e l'integrazione possa partire dal riconoscimento forte dell'identità del popolo e dei valori comuni.
Una dimensione costruttiva quindi, una sfida aperta che ha bisogno anche di buone regole e di sana amministrazione. E in molte realtà locali è questa una dinamica già presente e che sembra dare buoni frutti.



Rosarno, di nuovo in piazza un anno dopo la rivolta  Ancora non va bene, ma in 800 hanno avuto un contratto"

E' prevista una manifestazione-sit in a Reggio Calabria e a Roma, contemporaneamente, davanti al Ministero delle Politiche Agricole per chiedere il permesso di soggiorno e migliori condizioni di vita per gli immigrati stagionali. Oltre la metà di loro vive in una condizione di irregolarità, in una condizione di limbo giuridico che consente di soggiornare sul territorio ma non di lavorare.
la Repubblica, 05-01-2011
GIULIA CERINO
ROSARNO - Un anno dopo la rivolta - il 7 gennaio - è prevista una manifestazione-sit in a Reggio Calabria e a Roma, contemporaneamente, davanti al Ministero delle Politiche Agricole per chiedere ancora una volta il permesso di soggiorno e migliori condizioni di vita e abitative per gli immigrati stagionali. Eppure, nella Piana qualcosa sta cambiando: per la prima volta circa 800 lavoratori migranti hanno un contratto. I dati li dà il dossier di fine anno della rete Radici/Rosarno 1, basato su un censimento e un lavoro di sportello, portato avanti con sopralluoghi nei casolari e nelle abitazioni degli africani, con le successive interviste caso per caso. Le stime del monitoraggio sono riferibili ad almeno la metà della comunità africana della Piana.
Sono al 95% richiedenti asilo. Ma oltre la metà dei migranti domiciliati sul territorio vive in una condizione di irregolarità, è prossimo a entrarci o vive in una condizione di limbo giuridico: che consente di soggiornare sul territorio ma non di lavorare. Dati che si riflettono sulla legalità del mercato del lavoro. Mali, Costa d'Avorio, Guinea, Burkina, Ghana, Senegal le nazionalità maggiormente rappresentate, una babele di lingue che vanno dal francese (50%) al bambara (30%), dall'inglese (10%) alle altre lingue africane. L'80% dei migranti parla due o più lingue, anche
se la percentuale di analfabetismo è elevata e il livello di scolarizzazione basso. Nonostante la presenza massiccia sulla Piana dell'Ispettorato del Lavoro, le interviste indicano che 2/3 dei braccianti africani transitati dalla Piana hanno lavorato o lavorano a nero.
Cenni di normalizzazione. Ma non va sottovalutato l'avvio della "normalizzazione": per la prima volta parecchi lavoratori migranti hanno un contratto. Una cifra al lordo dei rinnovi e degli impieghi in altre attività: quel che resta è il terzo mancante, gli africani impiegati regolarmente. Comunque è un passo in avanti rispetto alla barbarie contrattuale degli anni scorsi. Basta ricordare, inoltre, che la scorsa stagione a essere iscritti nelle liste Inps sono stati solo gli italiani (1.600 a Rosarno, sul totale di 2.500 nella Piana). Nei campi non si è visto nessuno se non gli africani. E i conti tornano.
Le paghe ancora molto basse. Restano sui livelli degli anni passati: 20-25 euro per 8-10 ore in media, con la salutare tendenza ad abolire il cottimo (1 euro a cassetta). Si lavora saltuariamente: in media 2-3 giorni a settimana, segno della crisi del mercato agrumicolo. Resta sempre in piedi la pratica del caporalato (un caporale arriva a prendere anche 10 euro al giorno per ogni bracciante). Al lavoro ci si va a piedi, in bici, ma molto più spesso in auto o furgone insieme a caporali o padroni, che scelgono le braccia da assoldare al mercato di contrada Spina a Rizziconi o a quello sulla Nazionale di Rosarno. Un ultimo dato lavorativo estremamente significativo: l'80% dei migranti ha lavorato sempre e solo nei campi del Sud dal momento dell'arrivo in Italia.
Molti non sono mai andati via. Il 90% africani intervistati ha già soggiornato sulla Piana di Gioia Tauro-Rosarno negli anni passati, segno di una tendenza: chi è tornato, o non è mai andato via, ha la certezza di poter attivare contatti sul territorio, un'alta probabilità di ingaggio almeno saltuario, i rapporti necessari per trovare una sistemazione. Uno zoccolo duro di braccianti di lungo corso, che hanno vissuto le rivolte del dicembre 2008 e gennaio 2010.



Nel Sinai sparatoria tra predoni e polizia

Avvenire, 05-01-2011
Ilaria Sesana
In tutto sono 40 i profughi eritrei liberati dai trafficanti di uomini del Sinai dopo aver pagato un riscatto di 8mila dollari a testa, ma solo per 16 di loro è arrivata la conferma dell’arrivo in Israele. Alcuni hanno chiamato direttamente don Mosè Zerai, sacerdote eritreo direttore dell’agenzia Habeshia, altri sono stati rintracciati nei centri di detenzione in Israele dagli operatori della ong Physicians for human rights. «Al momento non sappiamo dove sono finiti gli altri, non abbiamo notizie sulla loro sorte.
Così come non ho avuto notizie dai 15 liberati a fine anno - commenta il sacerdote -. Non sappiamo se sono in salvo o se sono stati fermati dalla polizia egiziana e poi consegnati alle ambasciate dei loro Paesi». Così come non si hanno notizie delle cento persone che sono state separate dal resto del gruppo all’inizio di dicembre: «Anche in questo caso non abbiamo informazioni: possono essere stati venduti a un altro gruppo di trafficanti o trasferiti in un altro carcere sotterraneo - aggiunge don Mosè Zerai -. Anche questo fatto mi angoscia».
Resta alta la preoccupazione per le venti persone che non hanno i mezzi per pagare la somma richiesta dai sequestratori per i quali c’è il rischio elevato che vengano venduti come schiavi o vengano sottoposti all’espianto dei reni. «Vogliamo evitare a tutti i costi che ciò accada. Ma purtroppo nessuno è intervenuto per salvare queste persone», commenta amaramente don Mosè Zerai.
Dal deserto del Sinai arriva, intanto, la notizia di un intervento da parte della polizia egiziana contro i trafficanti di uomini. Domenica scorsa gli agenti hanno attaccato alcuni trafficanti intenti a condurre un gruppo di migranti africani verso il confine con Israele; nello scontro a fuoco i beduini (che, secondo fonti della sicurezza egiziana a Rafah, trafficavano anche droga) hanno ucciso un poliziotto di vent’anni. La notizia è stata diffusa dal gruppo EveryOne.
«Non sappiamo ancora se i migranti appartengano al gruppo detenuto da oltre un mese a Rafah -spiega Roberto Malini, co-presidente del gruppo -. L’intervento della polizia egiziana contro i trafficanti è un fatto nuovo e positivo: forse sono arrivate nuove direttive in questo senso». Molto più frequenti i casi in cui la polizia di frontiera ha sparato ai profughi mentre tentavano di attraversare la frontiera.
Lunedì un altro episodio di violenza che ha visto coinvolto un altro giovane. Secondo quanto riferito dalle fonti della sicurezza egiziana a Rafah, l’agente è intervenuto per impedire che un gruppo di migranti africani entrasse in Israele dal Sinai: i trafficanti hanno aperto il fuoco e colpito il ragazzo. I profughi invece sono riusciti a fuggire.



“La marea silenziosa” è il primo film italiano che uscirà anche con sottotitoli in cinese.

La proiezione si terrà domenica 9 gennaio nel quartiere di San Donnino a Firenze. Una storia di amicizia giovanile ambientata a Pontedera.
ImmigrazioneOggi, 05-01-2011
La marea silenziosa (Quelli della Vespa) è il primo film italiano con sottotitoli in cinese. La pellicola verrà presentata in anteprima domenica prossima, 9 gennaio, presso la fondazione Spazio Reale a Firenze, nel quartiere di San Donnino.
Il film – già realizzato con sottotitoli in inglese, francese, spagnolo e tedesco – sarà presto disponibile anche con sottotitoli in hindi e, prossimamente, in arabo. “Il nostro obiettivo – spiega il produttore Lorenzo Minoli – è intercettare un vasto pubblico dimenticato, quello degli immigrati, che ha il diritto ad essere intrattenuto come gli altri”.
Il film, diretto da Tommaso Cavallini e prodotto dalla Flying Dutchman Produzioni, è una commedia ambientata nelle fabbriche di Pontedera, dove lo scooter più famoso al mondo, la Vespa, fa da sfondo ad una romantica storia d’amore e d’amicizia intergenerazionale.
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