Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

08 gennaio 2014

Quelle giuste parole da usare per non banalizzare le gabbie di Lampedusa
Il Foglio, 08-01-2014
Luigi Manconi
Tre rappresentanti della Lega delle Cooperative Sociali della Sicilia, dopo aver svolto un'indagine sulle condizioni del Centro di accoglienza di Lampedusa, hanno affermato: “Un centro da chiudere. Un centro che sembra un lager.” E hanno denunciato “lo sconcio di materassi sfatti e servizi peggio di un lager”. Posso dire di conoscere abbastanza bene i Centri di accoglienza e ancora più quella loro versione tetra e reclusoria e claustrofobica che sono i Centri di identificazione e di espulsione (Cie). Negli ultimi quindici anni ne ho visitati una ventina e, per quanto riguarda i Cie, ritengo debbano essere né più né meno che aboliti. E tuttavia mai li ho definiti “lager” e penso che quella estremizzazione così emotivamente violenta del giudizio riveli una sorta di inconfessato senso di colpa. Quanto più quest'ultimo è forte tanto più si tenta di liberarsene proiettando l'oggetto di quel giudizio in una sorta di dimensione metastorica. Quasi che le colpe di quell'obbrobrio prescindessero dalla concreta situazione attuale, normativamente e geograficamente e storicamente definita, e dalle personali responsabilità, comprese quelle di mancata vigilanza e di omesso controllo. Ma, al di là di una introspezione psicologica per la quale non ho né ruolo né competenza, qui interessa altro. L'evocazione del lager come paradigma del Male Supremo è ricorrente (lo si sente usare persino per descrivere le crudeli condizioni di certi canili illegali) e doppiamente impropria. Per un verso, perché rischia di banalizzare quello che è stato davvero l'Orrore Assoluto, ossia la Shoah, riducendolo a un'etichetta buona per troppi usi e immiserendone l'eccezionalità e, dunque, l'intollerabilità etica. Per altro verso il ricorso a quel termine estremo (e non solo a quel termine, ovviamente) rivela il rischio di una qualche latente forma di indifferentismo: quasi che tutto ciò che si colloca – oggettivamente per così dire – al di sotto della misura del lager sia, per ciò stesso, sopportabile o comunque, alla resa dei conti, accettabile. Dunque, le “parole forti” costituirebbero un surrogato della critica radicale e una scorciatoia della contestazione intransigente dell'ingiustizia: e di tutte le ingiustizie, anche quando  non si presentano nella loro manifestazione estrema. Infine, ed è conseguenza anch'essa assai perniciosa, accorpare tutte le forme di privazione della libertà a quel luogo demoniaco che è il lager e assimilare tutte le forme di maltrattamento all'unica categoria di tortura ha l'effetto di oscurare il nostro sguardo, impedendoci di cogliere le differenze di condizioni e dunque le diverse strategie per criticarle e, se possibile, superarle. Tutto ciò partendo dalla ferma consapevolezza che i Cie sono orribili e non riformabili e che gli attuali centri d'accoglienza vanno radicalmente trasformati. Anche per una ragione che gli stessi responsabili della Lega delle Cooperative Sociali della Sicilia hanno evidenziato, affermando che il Centro di Lampedusa è privo dei “requisiti minimi richiesti in un carcere”. Emerge così un nodo cruciale, sottolineato da tutti quei trattenuti nei Cie che ripetono ai loto interlocutori: “Qui è peggio che in carcere”. È proprio così. E non perché le condizioni di vita all'interno dei Cie o di un Centro di assistenza siano oggettivamente più degradate di quelle di un medio istituto penitenziario italiano e siano tendenzialmente simili a quelle “di un lager”. No. La miseria delle condizioni materiali di esistenza in un Cie è in linea con gli standard, appunto miserabili, di gran parte dei luoghi destinati alla privazione della libertà nel nostro Paese. Ma qui effettivamente c'è qualcosa di peggio. Intanto la struttura, per così dire, architettonica: gabbie all'interno di gabbie, chiuse a loro volta da altre gabbie, come in un vertiginoso e ossessivo labirinto. Gabbie esattamente nella progettazione e nella realizzazione e nella logica di una recinzione finalizzata alla riduzione in cattività. E sbarre proiettate verso l'alto a scongiurare – immagino – impossibili evasioni verso il cielo o dal cielo;  sbarre (questo vuole la leggenda nera qui prevalente) che sono state allungate al ritmo dei successivi provvedimenti che hanno protratto il tempo di permanenza previsto dalla norma: da un mese a due a sei agli attuali diciotto. In questi spazi ristretti e coatti non si fa assolutamente niente. Le uniche attività previste sono quelle primarie delle funzioni fisiologiche: dormire, mangiare, orinare, defecare. Per un paio di decenni abbiamo discusso intorno al concetto di “non luogo” elaborato da Marc Augè ma oggi credo di poter dire che il non luogo per eccellenza, nel continente europeo è appunto il Cie. Qui la categoria di smarrimento, variamente definita da Augè trova una sua radice nella marxiana alienazione, da intendersi in particolare come condizione di estraneazione e spossessamento. Nella gabbia e nel campo quella condizione si palesa come scissione, spesso in senso strettamente psichico. Estraneazione spossessamento scissione come altrettante espressioni di un processo di separazione tra il corpo fisico e l'identità soggettiva. E' l'effetto di una situazione dove il non luogo galleggia in una dimensione di non tempo, come negazione brutale - mi suggerisce Vittorio Dini - di quelle qualità kantiane (luogo e tempo, appunto) che costituiscono il fondamento stesso della persona umana.  Tutto ciò può collegarsi a quanto scrive Hannah Arendt  in un brano del capitolo XI de L’origine del totalitarismo, citato da Valeria Verdolini in un bell'articolo in doppiozero.com (richiamato dall'indispensabilissima rassegna radiofonica "Pagina 3"). Così la  Arendt: "La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana”. Ecco, nei Cie, gli individui trattenuti hanno perduto "tutte le altre qualità e relazioni specifiche" e qualunque rapporto reale con la dimensione del luogo e del tempo. Ed è questo a rendere così imprescindibile e urgente, ma, allo stesso tempo, così labile e inafferrabile il discorso sui diritti umani. Un discorso che rischia costantemente di "naufragare", quasi che la "semplice" qualità umana non offrisse alcun appiglio tangibile per svilupparsi adeguatamente (ed è forse un segno del destino che quel "naufragare" dei diritti umani incroci la sorte di chi spesso dal mare proviene e spesso nel mare trova la morte).



A DOMANDA RISPONDO
Furio Colombo
Le bocche cucite degli immigrati
Il Fatto, 08-01-2014
  CARO COLOMBO, ho visto scandalo, protesta e indignazione (tutto con moderazione s'intende) per gli immigrati detenuti nei Cie che si sono cuciti la bocca. Ma non ho visto risposte ad Alfano, vice primo ministro dei nostro (ahimè, nostro) governo che ha detto: "Si tratta di gente che ha conti aperti con la giustizia", ovvero criminali. il gesto è terribile, la frase è spaventosa e il silenzio dei Cittadini, forconi e non forconi, un'indecenza.
Fabrizio
PRENDIAMO per prima cosa i Cie (Centri di identificazione e di espulsione). In essi non si identifica e non si può identificare nessuno (non c'è personale e non vi sono strutture o collegamenti col mondo e questo è stato scritto e dimostrato). E l'espulsione avviene tuttora alla cieca, nel senso che per compiacere il ministro dell'Interno secessionista Maroni, che ha stabilito regole indegne che valgono ancora, a un certo punto, e dopo detenzioni lunghe e illegali e prive di ogni assistenzà e protezione, un detenuto viene portato a forza a Fiumicino e imbarcato a caso verso un Paese che non conosce. Perché cucirsi la bocca? Perché, come sanno coloro che hanno visitato con frequenza i Cie (quasi solo i Radicali e, per coloro che allora erano nel Pd, Andrea Sarubbi e io) la detenzione, che è illegale, è stata illegalmente prorogata all'improvviso (sempre per ordine del secessionista Maroni) da sei mesi a un anno e mezzo. In quell'anno e mezzo, non esiste assistenza medica o legale regolare, non esistono regole o norme giuridiche per questo tipo di detenzione che, a tutti gli ejfetti, è sequestro di persona. E se ciò che accade li dentro non è disumano (nelle strutture non date in appalto a strane cooperative) si deve al buon senso della polizia che cerca di evitare il più possibile lo scontro, e tenta di dare un senso a una situazione certamente priva di senso (anche perché vengono portati in quei campi anche coloro che nelle carceri normali hanno già scontato la pena per reati che sono quasi sempre modesti o anche solo "clandestinità"). Ma le bocche cucite segnalano il totale isolamento: non sai niente, non vedi nessuno, non ti parla nessuno e molti non hanno alcuna idea del dove si trovano e perché. Purtroppo intorno ai Cie (e come non avviene neppure nelle carceri dove sono rinchiusi assassini, stupratori e omicidi seriali) ci sono soldati italiani, mezzi militari italiani, la bandiera italiana cucita sulle divise di giovani italiani che non sanno neppure di fare la guardia a persone innocenti sequestrate illegalmente, persone che non hanno (quasi tutti) commesso reati. La vergogna è grande e le bocche cucite, nel loro forzato silenzio, lo urla- no. Strano che nessuno li ascolti nel Parlamento che dovrebbe avere come uno scopo le famose riforme. Strano che nessuno si ver- gogni di essere sponsor-sostenitore dell'ignobile legge italiana Bossi-Fini.



L'America scopre la Kyenge un genio a nostra insaputa
La rivista Foreign policy pone il ministro all'Integrazione tra i cento pensatori più influenti al mondo. I suoi meriti intellettuali? "Ha sopportato abusi inimmaginabili"
Il Giornale, 08-01-2014
Luigi Mascheroni
Il segretario di Stato americano John Kerry, il dissidente russo Alexey Navalny, il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi, Jeff Bezos e Mark Zuckerberg dei quali è inutile presentare i curricula, Papa Francesco...
e Cécile Kyenge. Della quale - sedendo lei su una poltrona offertale dal competitor Enrico Letta - uno come Matteo Renzi potrebbe dire «Kyenge, chi?».
Da oculista in un poliambulatorio di Modena a ministro dell'Integrazione del governo Letta per imposizione del conterraneo emiliano Pier Luigi Bersani, Cécile Kyenge ha ora ultimato il cursus honorum (multi)culturale: la prestigiosa rivista statunitense dedicata alle relazioni Internazionali Foreign Policy l'ha inserita nella lista dei cento «pensatori più influenti» del 2013. Pensatori.
Abbiamo in casa una statista, e non ce n'eravamo accorti. Una influente «filosofa della politica», eppure un fine politologo come Giovanni Sartori non l'aveva capito. Una autorevole decision maker che con il suo coraggio «ha cambiato l'Italia», e pensavamo che la sua nomina a ministro fosse solo un caso politicamente corretto in ossequio alle quote di colore.
Primo ministro di colore della storia italiana, di madrelingua swahili e marito calabrese, Cécile Kyenge - mediaticamente intoccabile - ha guadagnato meritatissime medaglie sul campo, rispondendo sempre con mitezza e garbo esemplari agli insulti di alcuni suoi colleghi politici, in specie leghisti, e del popolo anonimo, e più infido, della Rete. Il sorriso con cui la Kyenge ha smorzato le offese zoomorfe di alcuni curiosi esemplari del variegato bestiario parlamentare è da portare a modello, rispetto alla Boldrini piagnens, ad esempio. E tutto ciò ne fa una donna di spirito e di carattere. Ma il pensiero influente, quello è un'altra cosa.
Così recitano le motivazioni di Foreign Policy per la citazione della Kyenge fra le cento ?menti? dell'anno: «ha sopportato abusi inimmaginabili. È stata paragonata a una prostituta e a un orango; le hanno tirato banane... E ha saputo gestire questo razzismo mozzafiato con grazia e equanimità. In un Paese che fatica a fare i conti con una crescente popolazione di immigrati, la sua nomina ha un valore per il solo simbolismo». Icona per icona, Mario Balotelli dovrebbe essere segnalato a Stoccolma per il Nobel per la pace.
Se lo stile con cui Cécile ha risposto alle offese razziste è senza alcun dubbio da applaudire, la sua citazione fra i cento intellettuali più importanti del 2013 è - altrettanto indubitabilmente - eccessiva. La notizia è di metà dicembre, e se la stessa grande stampa finora l'ha tenuta bassa, significare che neppure noi italiani ci crediamo troppo. Simpatica sì, simbolica pure, «pensatrice»... mah. Senza fare i nomi dei soliti noti maître à penser, quanto - al confronto - pensatori come Alain Finkielkraut, o Regis Debray, o Jean Claude Michéa, o Peter Sloterdijk, o persino Slavoj Zizek appaiono più «influenti» sulla geo-politica mondiale? Certo, sono più intellettualmente autorevoli, ma meno politicamente corretti. E così, si è scelto la Kyenge.
Quando Enrico Letta, nell'aprile scorso, la chiamò per affidarle il ministero all'Integrazione, Cécile era a Bologna, a bere un tè con un'amica. «Non so come abbiano pensato a me», disse. A dimostrazione che non sarà una pensatrice in grado di cambiare il mondo, ma una donna di buon senso e misura, questo sì.



Kyenge, bilancio di inizio anno
Corriere delle migrazione, 08-01-2014
Stefania Ragusa, Ilaria Sesana
L’intervista comincia con una domanda del ministro: «Al mio predecessore, Andrea Riccardi, nessuno chiedeva conto e ragione di quel che avveniva nei Cie. A me sì. Come mai?». C’entra il colore della pelle. C’entra l’origine straniera. C’entrano – e lei lo dice chiaramente – anche giochi politici, che non fanno bene alla causa dell’integrazione. Che è «la politica del futuro».
Da quando è diventata ministro,  Cécile Kashetu Kyenge ha raccolto a ciclo continuo insulti razzisti (risulta il ministro più insultato al mondo, in una singolare classifica) e varie contestazioni. In particolare, è stata accusata di avere cambiato idea su temi sensibili, come la chiusura dei Cie. «Non ho cambiato idea. Le mie opinioni sono note (Kyenge per molti anni si è battuta per la chiusura dei Cie e per una nuova legge sull’immigrazione, ndr) e il mio percorso da politica e attivista pure. Come ministro ho però un margine di azione limitato ed è all’interno di quei limiti che posso agire e agisco. Tra chi mi chiede di forzare questi limiti qualcuno è in buona fede, perché davvero non conosce le competenze del mio ministero e confonde l’Integrazione con l’Immigrazione. Altri no, non sono in buona fede».
Le competenze del suo ministero. Partiamo da qui.
«Le mie deleghe sono: Integrazione, Politiche giovanili, Servizio civile Nazionale, Adozioni Internazionali, Antidiscriminazione razziale, Strategia di inclusione di Rom, Sinti e Caminanti. In questi ambiti ho pieno potere decisionale pur essendo limitata dalla mancanza di risorse: il mio ministero infatti è senza portafoglio. Posso inoltre essere presente ai tavoli in cui si discutono i temi legati all’immigrazione, collaborare e agire da pungolo. Ma le decisioni finali spettano ai ministri che hanno la delega per quella materia specifica, non al mio ministero. Che non può diventare il capro espiatorio per quello che gli altri dicasteri non fanno».
Può tracciare un primo bilancio di questi primi sette mesi da ministro?
«Sette mesi sono pochi e allo stesso tempo sono tanti. Abbiamo lavorato molto e siamo riusciti a ottenere parecchie cose: piccoli miglioramenti su tanti fronti diversi. Cominciamo con i tavoli. Ne abbiamo avviato uno per l’inclusione di rom sinti e caminanti, facendo partire una commissione ad hoc, unica in Europa, per definire lo status giuridico di quelle persone che, per varie ragioni, non ce l’hanno e si trovano a vivere come fantasmi: non si tratta di singoli ma di intere comunità. Abbiamo fatto partire il tavolo per il dialogo interreligioso. Partecipiamo a quello per i minori non accompagnati.
Abbiamo contribuito all’avvio di un fondo per l’imprenditoria femminile, che è per tutte le donne, non solo per le immigrate. Abbiamo avviato vari protocolli con gli enti locali per valorizzare e premiare le buone pratiche di integrazione.
A luglio abbiamo varato il primo piano triennale contro il razzismo. Abbiamo recepito una direttiva europea che permette l’accesso ai bandi per il pubblico impiego a titolari di protezione umanitaria e lungo soggiornanti.
Inoltre, attraverso il decreto scuola, abbiamo ottenuto di far valere il permesso di soggiorno per motivi di studio per tutto il periodo della formazione. In questo modo si agevola il percorso degli studenti e si rende anche l’Italia più competitiva a livello internazionale.
Stiamo lavorando poi, attraverso le Politiche giovanili, per favorire la partecipazione dei giovani a tutti i livelli, che è un passaggio di estrema importanza per il futuro. Abbiamo ottenuto una semplificazione nell’iter per la cittadinanza, prevedendo altri criteri per dimostrare la presenza continua sul territorio oltre a quello della residenza anagrafica (grazie a questo passaggio, una persona come Liza Suamino, di cui il nostro giornale ha raccontato la storia, può finalmente ottenere la cittadinanza italiana, ndr). Abbiamo portato avanti la campagna contro l’hate speech sul web. Abbiamo scelto di farlo attraverso le politiche giovanili perché riteniamo importante educare i giovani a un uso diverso e più consapevole del web e dei sistemi informatici. Abbiamo promosso e adottato, inoltre, la dichiarazione di Roma, che vuole essere uno strumento concreto contro la xenofobia e per la riscoperta dei valori fondanti dell’Europa».
Cos’è la Dichiarazione di Roma?
«Di questa Dichiarazione, presentata a settembre, si è parlato molto in Europa. In Italia la notizia è passata pressocché inosservata. Si tratta di un Patto – che al momento è stato sottoscritto da 23 Paesi – finalizzato a contrastare razzismo e discriminazionie, a impegnare chi riveste un ruolo di responsabilità (rappresentanti delle istituzioni, politici, pubblici ufficiali…) a utilizzare un linguaggio corretto ed educativo. Intende agire sul piano della cultura ma prevede sanzioni (che saranno poi definite dai singoli stati) per chi deroga dal principio in questione. A fine gennaio ci sarà un altro incontro, che coinvolgerà tutti gli stati Ue. Nel nostro Paese c’è una preoccupante tendenza a sottovalutare la portata e gli effetti del razzismo verbale, a considerarlo quasi una goliardata. Invece si tratta di una condotta da perseguire in modo sistematico e soprattutto quando appartiene a chi dovrebbe dare l’esempio».
Ma c’è stata anche la riapertura agli stranieri del Servizio Civile Nazionale. Un’azione accompagnata da molte polemiche…
«Quest’anno – malgrado la difficoltà a reperire le risorse – abbiamo aperto un bando che permetterà a oltre 15 mila ragazzi e ragazze di impegnarsi in progetti sociali e nel volontariato internazionale. Poi, come stabilito da una sentenza del Tribunale di Milano, lo abbiamo riaperto includendo, per la prima volta, i ragazzi di origine straniera. Ed è stato importante perché la possibilità di partecipare al servizio civile fa parte di un percorso di cittadinanza piena. La giurisprudenza spesso indica delle strade e bisogna saper cogliere questo messaggio per cercare di cambiare politicamente l’impostazione del sistema.
Noi abbiamo fatto la nostra parte ma il percorso va completato in Parlamento, modificando quella legge che equipara il servizio civile a quello militare che è riservato ai soli cittadini italiani e che di fatto ostacolava questa apertura. I parlamentari, che hanno gli strumenti per farlo, devono impegnarsi per fare le modifiche di legge necessarie».
A questo elenco potrebbe aggiungersi presto una legge organica sul diritto d’asilo?
«Quando abbiamo iniziato il nostro mandato questo tema non era tra le priorità del Governo. Ora ha assunto un ruolo centrale: stiamo recependo tutte le direttive europee che riguardano l’asilo e completeremo questo lavoro entro il mese di gennaio. Successivamente armonizzeremo il tutto con la normativa nazionale per arrivare alla stesura di un testo unico che dovrebbe essere pronto entro i primi mesi del 2014. Tra le direttive recepite ricordo quella che permette ai profughi riconosciuti di essere equiparati ai lungo soggiornanti e, quindi, muoversi e cercare lavoro anche all’interno dell’Unione Europea. Se ne è parlato poco ma rappresenta un cambiamento molto importante».
Il 2014 sarà anche l’anno buono per la riforma della legge sulla cittadinanza?
«Per me questa rimane una priorità, un obiettivo e anche una promessa. La cittadinanza è lo strumento principale per promuovere l’integrazione e la partecipazione attiva dei giovani, in tutti i settori. Senza cittadinanza è difficile parlare di integrazione completa. Alla nuova legge si dovrà arrivare però in accordo con tutte le parti e con il coinvolgimento di tutti. Il cambiamento dovrà essere condiviso. Per evitare che, con un nuovo governo, si cambi di nuovo la legge».
Qual è lo ius soli che ha in mente?
«La mia proposta, da deputata, è stata quella di uno ius soli temperato per i bambini che nascono in Italia da genitori stranieri che hanno alle spalle un percorso di integrazione. Mentre, per coloro che arrivano qui molto piccoli, prevedeva la possibilità di ottenere la cittadinanza dopo aver concluso un ciclo scolastico. Tutto questo per favorire una piena partecipazione e la consapevolezza dell’universalità dei diritti umani. Ma anche per tener conto della specificità dell’Italia che è stato a lungo un paese d’emigrazione e che solo da pochi anni è diventato anche d’immigrazione».
Che fine ha fatto la legge per il diritto di voto agli stranieri?
«È una questione che a me sta molto a cuore, ma nel nostro ordinamento il potere legislativo spetta al Parlamento. È stata depositata una proposta di legge su questo argomento e i parlamentari hanno tutti gli strumenti e il potere per portarla avanti. Auspico che lo facciano».
Ministro, perché ha partecipato ad Agrigento alla contestata cerimonia funebre per le vittime del 3 ottobre?
«Per rispetto verso le persone e verso le istituzioni. Agrigento non è stata una mia scelta. Sarebbe stato molto significativo farli a Lampedusa, dove pure ci sono state funzioni e celebrazioni secondo i vari riti religiosi. Ma io dovevo comunque essere presente».
Molto insultata ma anche molto amata e popolare. Chi l’ha sostenuta in questi mesi?
«C’è un tipo di sostegno, morale e verbale, che ho ricevuto e ricevo da tante persone, da quella che chiamo l’Italia migliore e che spesso passa inosservata perché non fa rumore. È un appoggio che va oltre la mia persona e che riguarda le idee e i valori per cui mi sto impegnando. C’è un altro tipo di sostegno. A livello territoriale, l’ho avuto da molti enti locali, che mi hanno appoggiato, per esempio, nella campagna sulla cittadinanza onoraria, che è molto importante sul piano culturale. Ho avuto il sostegno, poi, di molti colleghi e del presidente del Consiglio. Ma l’aiuto vero, che deve ancora arrivare, è l’attribuzione di risorse economiche alle politiche sull’integrazione».
Cosa pensa dell’interesse che si è scatenato attorno alla sua famiglia d’origine?
«Io rappresento una novità per l’Italia e non mi sorprende la curiosità. Ci sono state però delle punte di esagerazione. Penso ai video fatti su mio padre, che probabilmente sono stati legati anche a un certo desiderio di denigrare e sui quali non mi sono mai pronunciata. Cosa volete che dica? Per me mio padre è mio padre, la mia famiglia è la mia famiglia. Chi conosce la cultura africana può capire e apprezzare. L’identità è fatta anche di contaminazioni. Io ho scelto di essere cittadina italiana, ho le mie idee, ma non rinnego le mie origini: chi lo fa perde una parte della propria identità».



Autocertificazioni. Anche nel 2014 gli immigrati dovranno mettersi in fila
Il Milleproroghe ha fatto slittare nuovamente il termine per utilizzare dichiarazioni sostitutive per i permessi di soggiorno e altre procedure riguardanti l’immigrazione. La Pubblica Amministrazione non riesce a far dialogare le sue banche dati
Elvio Pasca
stranieriinitalia, 08-01-2014
Roma – 7 gennaio 2014 – Il 2014 per gli stranieri in Italia si apre con una conferma attesa, ma tutt’altro che gradita: dovranno continuare a mettersi in fila agli uffici della pubblica amministrazione, per chiedere documenti da portare in altri uffici della pubblica amministrazione. Alla faccia della semplificazione.
Tutt’altro che semplice è anche il percorso che ha portato a questa situazione, sembra anzi un labirinto fatto di eccezioni e proroghe. Proviamo a ripercorrerlo.
Una legge in vigore dall’inizio del 2012, prevede che gli uffici pubblici non possono richiedere o rilasciare certificati che contengano dati già in possesso di altri uffici pubblici e che devono essere utilizzati nei rapporti con la Pubblica Amministrazione. Esempio: l'Inps non può chiedere uno stato di famiglia, deve accettare un'autocertificazione ed eventualmente verificarla con l'anagrafe del Comune.
Quella stessa legge fa però un’eccezione: non vale per “le speciali disposizioni contenute nelle leggi e nei regolamenti concernenti la disciplina dell’immigrazione e la condizione dello straniero”. Esempi: se chiedo il rinnovo di un permesso di soggiorno per studio, dovrò portare in Questura un certificato dell’Università che dice che sono in regola con gli esami, se chiedo un permesso per attesa occupazione dovrò portare un certificato di iscrizione alle liste di collocamento.
Quell’eccezione era dettata dal fatto che all’inizio del 2012, tanto per utilizzare gli stessi esempi, non c’era ancora un valido collegamento telematico tra le banche date di Questure, Università e Centri per l’Impiego, che consentisse di verificare facilmente eventuali autocertificazioni presentate dai cittadini stranieri.
Una situazione, si sperava, provvisoria, tanto che nella primavera del 2012 un’altra legge aveva eliminato quell’eccezione, prevedendo che il ricorso alle autocertificazioni fosse possibile anche nelle pratiche degli immigrati. La novità doveva scattare però dal 1 gennaio 2013, in modo che la Pubblica Amministrazione potesse intanto collegare le varie banche dati.
Quel collegamento, a quanto pare, si è rivelato molto più difficile del previsto. E così, di norma in norma, sono arrivate altre proroghe: prima al 30 giugno 2013, poi al 31 dicembre 2013. Chi a Capodanno sperava di brindare anche a un 2014 più semplice, però, è rimasto deluso. Tra le Mille Proroghe dell’omonimo decreto varato faticosamente a fine dicembre dal governo, ce n’è infatti anche una sulle autocertificazioni degli immigrati.
Lo spumante torna in frigo, rimettersi in fila. Fino a quando? Il decreto dice 30 giugno 2014, ma visti i precedenti è difficile crederci.



Germania, ora di Islam alle elementari “Favorirà l’integrazione dei più piccoli”
L’esperimento sarà avviato per la prima volta in Assia: «I corsi aiuteranno la minoranza islamica a inserirsi e contrasteranno la crescente influenza del pensiero islamico radicale nel Paese»
La Stampa, 07-01-2014
Berlino -Per la prima volta, la scuola tedesca ha introdotto lezioni di Islam per gli alunni della primaria affidati a docenti abilitati ed appositamente formati dal sistema educativo pubblico e che prevede l’uso di libri di testo appositamente redatti. I corsi sono stati voluti allo scopo di promuovere una migliore integrazione della minoranza musulmana e contrastare la crescente influenza del pensiero islamico radicale nel paese.  
L’iniziativa ha preso il via nello stato dell’Assia e risponde all’idea sempre più largamente diffusa che la Germania, dopo decenni di immobilismo su questo fronte, deve fare di più a favore della popolazione musulmana se vuole promuovere l’armonia sociale e sventare il rischio di un potenziale minaccia alla sicurezza pubblica. Un’esigenza sempre più sentita, sottolinea il New York Times, ricordando che solo negli ultimi sei mesi due giovani di nazionalità tedesca provenienti proprio dalla stato dell’Assia - uno dei quali si ritiene avesse appena 16 anni - sono rimasti uccisi in Siria dopo aver risposto all’appello ad unirsi alla jihad ed essere stati reclutati da predicatori salafiti radicali a Francoforte. Il timore riguarda non solo il rischio che sempre più giovani tedeschi si lascino convincere da chi cerca di reclutarli, ma anche che in un secondo tempo - una volta addestrati all’uso delle armi e degli esplosivi all’estero - possano importare la jihad nel loro paese.  
Con questa decisione lo stato dell’Assia ha equiparato di fatto l’istruzione sull’Islam a quelle già previste per protestantesimo e Cattolicesimo. Offrendo ai giovani musulmani una formazione di base sull’Islam fin dal primo ciclo della scuola, e sottolineandone il messaggio di tolleranza, le autorità sperano di tener lontani i giovani dalle idee più radicali segnalando al tempo stesso il riconoscimento da parte dello stato dell’importanza della loro confessione religiosa. I genitori possono scegliere se iscrivere i figli e stando a quanto emerso finora, l’adesione nelle 29 classi in cui l’iniziativa è stata proposta in distretti a forte presenza di immigrati è stata altissima. In Germania ognuno dei 16 stati pianifica il proprio sistema educativo e decide se e come offrire corsi non obbligatori di religione o etica. Forme di istruzione islamica sono previste in tutti gli ex stati tedeschi occidentali, mentre non ve ne sono in quelli della ex Germania orientale. La particolarità dello stato dell’Assia sta nel fatto che le autorità hanno messo a punto un particolare programma universitario e si sono assunte l’incarico di formare gli insegnanti. Uno di questi, Timur kumlu, 31 anni, ha seguito 240 ore di formazione extra all’università di Giessen per poter entrare a far parte del gruppo dei primi 18 insegnanti di Islam dell’Assia. In altri posti, ad esempio Berlino, sono anni che viene offerto questo tipo di insegnamento, ma i docenti provengono da organizzazioni quali la Federazione islamica che contribuisce anche a stabilirne il curriculum. 

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