"Stronzo" si può dire? Ai professionisti dell'intolleranza sì
La frase del Presidente della Camera – “chi discrimina è uno stronzo” – non è passata, per così dire,  inosservata.
Molte le ragioni, innanzitutto, l’autorevolezza di chi l’ha pronunciata  e (ma ci si comincia a fare l’abitudine) la contraddittorietà rispetto alla cultura da cui Gianfranco Fini proviene. In questo caso, la ragione più dirompente è un’altra: è proprio l’epiteto usato  (davanti a dei bambini poi!) e la sua scandalosità, che l’uso quotidiano, in particolare televisivo, non ha ancora mondato. Non solo. Se quella frase fosse stata detta, che so?, da Rosy Bindi, la si sarebbe classificata come l’ennesima manifestazione di buonismo (che si fa, all’occorrenza, cattivista contro i cattivi) o come un’espressione del “politicamente corretto”. Detta da Fini, evidentemente, è tutt’altra storia. Ma perché mai, finora, di fronte alle mille nequizie dell’intolleranza etnica, nessun rappresentante dell’opposizione, politica e intellettuale, ha voluto ricorrere a quel linguaggio? (che so? Chi discrimina è una piccola e rotonda testa di cazzo)? La risposta è duplice. Per un verso, una saggia riflessione: piuttosto che radicalizzare i discriminatori, meglio è disincentivarne le pulsioni e disinnescarne l’aggressività. Ma questo, che vale certamente per gli strati popolari  indotti all’intolleranza da una convivenza non voluta e da una concorrenza temuta, non può valere per Roberto Calderoli o per Maurizio Gasparri. Per essi, l’improperio di Fini, o i mille altri possibili sinonimi ed equipollenti, anche dialettali (tipo “ciula” o “mona”) vanno benissimo: in certi casi, possono essere una mano santa. Dunque, se non vengono pronunciati, se non li pronunciamo, è per un soprassalto di perbenismo che può diventare codardia. Non perché si tema Calderoli o Gasparri (via, non esageriamo…), ma perché non piace il suono un po’ demodé di quel linguaggio politico offensivo. E questo è un errore. Nei confronti degli strati popolari che patiscono l’immigrazione perché intacca le loro risorse già scarse (servizi, spazi, forse anche lavori), è necessario esercitare la massima intelligenza nel motivare, argomentare, persuadere. Nel discutere, non nel respingere (tanto meno nell’ignominia morale dell’accusa di “razzismo”): e soprattutto nella capacità di elaborare politiche pubbliche in grado di integrare gli immigrati senza che i costi siano scaricati sui residenti delle fasce più deboli.  Ma per gli “imprenditori politici dell’intolleranza”, un po’ di sana merda, orsù.

Unità 24 novembre 2009
Share/Save/Bookmark