Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

19 dicembre 2014

"Ci minacciano con la pistola": la denuncia dei profughi nel centro d'accoglienza di Paestum
E' lo stesso gestore del centro che usa la pistola per intimidire gli ospiti. "Siamo la mafia, le regole le decidiamo noi". Khalid Chaouki, deputato Pd e coordinatore dell'Intergruppo parlamentare immigrazione presenterà un'interrogazione al ministro dell'Interno, Alfano. Ha fatto un sopralluogo nella struttura, allertato da Jasmine Accardo dell'Associazione "Garibaldi 101" nella Rete LasciateCiEntrare
la Repubblica.it, 19-12-2014
ALBERTO CUSTODERO
ROMA - Il gestore del centro di accoglienza per richiedenti asilo minaccia con la pistola gli ospiti stranieri: "Noi siamo la mafia, le regole le decidiamo noi". Trentacinque migranti richiedenti asilo, quasi tutti afgani, vivono da mesi sotto la minaccia delle armi presso l'Hotel Engel, in Via Afrodite a Paestum. La denuncia, fatta oggi in occasione della Giornata internazionale del migrante, è di Khalid Chaouki, deputato Pd e coordinatore dell'Intergruppo parlamentare immigrazione.
L'interrogazione parlamentare. Il deputato, che presenterà un'interrogazione al ministro dell'Interno, Angelino Alfano, ha fatto un sopralluogo nella struttura mercoledì 17 dicembre verso le quattro del pomeriggio, sotto la pioggia, allertato da Jasmine Accardo, coraggiosa militante dell'Associazione "Garibaldi 101" e rappresentante in Campania delle Rete LasciateCiEntrare. Chaouki, con il suo smartphone, ha registrato le lamentele e le denunce degli stranieri. "Qui non ci sentiamo al sicuro, ti prego, Khalid, non abbandonarci!". Rahman, giovane afgano, implora il parlamentare. "Ha paura - racconta Chaouki - questi ragazzi mi dicono che i boss, come li chiamano loro, hanno le armi, li minacciano con una pistola, gli ripetono che loro sono la mafia e che le regole le decidono loro". "Mi hanno riferito - dice ancora il deputato democratico - che una volta uno dei boss ha sparato in aria davanti agli ospiti per far vedere che non scherzava".
La denuncia. I 35 stranieri accettano di fare la denuncia davanti a una cinepresa. "È importante - spiega Chaouki - per far sentire la loro voce e magari usarla poi in sede giudiziaria. Gli prometto che non rimarranno soli. Mi ricordano che avevano già protestato in Prefettura lo scorso 11 novembre come testimonia una loro lettera timbrata dalla Prefettura di Salerno. Non avevano parlato della pistola perché non si fidavano. Temevano connivenze o la paura di non essere tutelati a seguito della loro denuncia". "In nove mesi - riferiscono gli stranieri - non abbiamo mai visto un medico, un legale, mancano vestiti e soldi per telefonare o prendere il bus". Mostrano alcune ferite, alcuni hanno la scabbia.
Il sopralluogo. Abbandonati completamente, raccontano di continue minacce appena si azzardano a chiedere qualsiasi cosa. A volte con tono aggressivo, a volte minacciati con la pistola. "Durante il sopralluogo - racconta il parlamentare - svolto in compagnia di Jasmine Accardo, si presenta uno dei gestori arrivato all'hotel a bordo di una Alfa rossa. Si avvicina e ci chiede di presentarci. Yasmine risponde imbarazzata: "Siamo un'associazione". Lui replica: "Quale associazione?". Intervengo io: "L'associazione Camera dei deputati". Il 'boss', come lo chiamano gli ospiti, cambia tono, fa qualche passo indietro. "Dottore, risponde, poteva avvisarci, avremmo potuto preparare meglio la sua visita".
E non è un centro qualsiasi. Il centro è gestito dalla Engel Italia s.r.l., che ha sede a Salerno, e dall'associazione "Engel for Life" di Capaccio. La srl, iscritta alla Camera di Commercio nel 2012, ha un capitale sociale di 10mila euro, ed è di proprietà di Paola Cianciulli. Nel 2013 ha avuto un utile di 707 euro a fronte di un fatturato di 473 mila euro. Quello di Paestum non è un centro qualunque. È uno Sprar il cui ente gestore, si legge, è di "comprovata esperienza pluriennale e che, nella presa in carico di richiedenti e titolari di protezione internazionale, ha collaborato anche con la Caritas diocesana, attivamente operante sul territorio provinciale". Diverse le nazionalità degli ospiti, prevalentemente afgani, questi ultimi sono là da circa un mese trasferiti da un centro di Udine.
Trattati come animali. "La situazione - riferisce Yasmine Accardo - è disastrosa. Gli ospiti non solo si sentono trattati come animali, senza alcun rispetto, ma vivono continuamente nella paura per la loro incolumità. L'Engel Hotel, si trova nel nulla, "le uniche persone che girano sono armate di pistola", raccontano i migranti". "Alcuni di loro - aggiunge la responsabile della "Garibaldi 101" - testimoniano che, dopo quattro mesi di permanenza, non hanno ricevuto vestiti, indossano ancora quelli ricevuti al momento dello sbarco. Non ci sono né corsi di italiano né attività di orientamento o cura del tempo libero (cosa comunque prevista negli Sprar). Gli ospiti riferiscono che "gli insegnanti vengono, fanno l'Abc, poi se ne vanno perché non vengono pagati". Così i mediatori, che vengono cambiati frequentemente, pare sempre per lo stesso motivo.
Abbandonati a se stessi. Nessuno di loro, anche quelli che sono lì da 5 mesi, ha ancora il permesso temporaneo, che viene rilasciato in attesa della commissione. Hanno incontrato un legale soltanto all'arrivo al centro e nessuno li ha informati dei loro diritti o seguito il loro percorso di preparazione all'intervista in commissione, che nessuno ha ancora visto. Inoltre, non hanno tessera sanitaria. "Uno dei mediatori - aggiunge ancora Accardo - mi dice che la procedura è stata avviata, ma di fatto non hanno ancora ricevuto nulla. Uno dei migranti racconta che ha dovuto pagare di tasca propria un medico. Per tutti l'assistenza sanitaria è assente. Se chiedono di vedere un medico nessuno li accompagna.
L'albergatore con la pistola. Il responsabile della struttura, proprietario anche di un altro hotel nelle vicinanze, non occupato da migranti, gira con una pistola, soprattutto la sera. I migranti riferiscono che anche quando non la porta con sè, l'ha sempre in ufficio. I migranti sono stati di frequente minacciati verbalmente da lui ed invitati a tornarsene nel loro Paese. "Questa è casa mia. Questo è il mio albergo. O seguite le mie regole e ve ne andate a dormire fuori", urla il "boss". Dopo la protesta in prefettura, all'hotel si sono recati alcuni operatori del comune e poliziotti che si sono limitati ad invitarli a "essere pazienti"". Tutti i migranti chiedono ora di essere trasferiti in un altro centro più umano, dove non si sentano sempre minacciati o abbiano paura di ritrovarsi di fronte alle scene di violenza già vissute nei propri paesi di origine e da cui sono scappati alla ricerca di un mondo sicuro. "Certo - conclude Accardo - un gestore con la pistola non è davvero quello che si sarebbero aspettati dall'Italia".



Da minorenne "clandestino" a re del kebab, storia di Faisal, dal Punjab al Salento
Premio UNAR-SPRAR. Questo è l'articolo vincitore del concorso, in collaborazione con Repubblica.it, indetto dalla Presidenza del Consiglio tra i giornali locali che hanno trattato temi legati all'accoglienza e all'integrazione di richiedenti asilo e immigrati
la Repubblica.it, 19-12-2014
GABRIELE DE GIORGI
LECCE - Perché i clienti siano disposti a percorrere una quindicina di chilometri prima di tuffarsi nel traffico cittadino del tardo pomeriggio, un kebab deve essere proprio buono. Me ne rendo conto personalmente mentre sto seduto ad un tavolo della Coca Cola con Faisal, il gestore: solo un attimo prima ha finito di dirmi che per gustare la sua carne di pollo e tacchino si muovono in tanti dall'hinterland di Lecce e anche oltre. Mi sembra la solita esagerazione di chi, in fondo, è un commerciante, fino a che moglie e marito non scendono dall'auto lasciata in sosta con le quattro frecce ed entrano nel locale - che mi piace per l'abbinamento dei colori giallo e arancione delle piastrelle - per l'ordinazione, sottolineando di essere partiti da Leverano. Colto da una fame insolita dato l'orario, finirò anche io per mettere alla prova la bontà del cibo di Faisal. Intanto, durante una lunga chiacchierata di circa un'ora, mi saranno passate attorno una decina di persone.
Le origini e l'inizio del viaggio. La storia di Faisal Shezad, oggi 26enne, è di quelle che si possono definire felici. Non solo perché oggi è il proprietario di tre attività - Lecce, Nardò e Galatina - ma perché nel suo lungo percorso di inserimento ha avuto la fortuna di incontrare persone in gamba, agenti di polizia e operatori di vari ambiti, e l'intelligenza di affidarsi loro senza pregiudizi di sorta. Nato a Dhoul Ranjha, una cittadina del Punjab pachistano, ha lasciato la sua terra nell'estate del 2003, quando non aveva ancora compiuto i 15 anni. Lo fa per motivi economici: la sua è una famiglia modesta, ma dignitosa. Il padre è contadino, la madre si occupa dei sei figli, di cui quattro maschi. Faisal è il più grande e ricorda la sua infanzia e adolescenza con serenità: in fondo, dice, non gli è mai mancato da mangiare. Nel suo paese non è certo insolito partire in età scolare: aiutare i propri genitori fa parte dell'ordine della cose. Così si lascia alle spalle "la terra dei cinque fiumi" (questo il significato letterale di Punjab), e approda in Libia dopo un viaggio aereo. Sente profumo di Mediterraneo, sogna l'Europa, incontra subito la sfida più dura della sua vita: a Tripoli sale su un barcone, assieme ad una ventina di altre persone.
L'arrivo a Lampedusa. E' metà agosto, fa caldo e le condizioni del mare sono buone. Dopo due giorni di navigazione, così ricorda, finisce la benzina e inizia la deriva: a gestire la traversata due tunisini, ma nessuno di loro pare un lupo di mare, tanto che il carburante si esaurisce prima del previsto. Per fortuna passa un'imbarcazione da pesca, il cui comandante segnala via radio la presenza di quello scafo, dopo aver rifiutato di prestare soccorso: due uomini in particolare sembrano star male. Non passa mezz'ora che sulla testa di Faisal e degli altri "clandestini" - termine in voga a quei tempi e ancora oggi di facile ricorso - volteggia un elicottero militare e poco dopo si materializza all'orizzonte la sagoma di una nave della Marina italiana. E' il 19 agosto quando, il ragazzino tocca il suolo di Lampedusa. Isola simbolo della grandezza, ma anche della miseria dell'animo umano, dove piccole e grandi storie di solidarietà e di capacità operativa si incrociano con fallimenti clamorosi delle politiche di accoglienza e con morti strazianti delle quali, purtroppo, non si smette mai di rendere conto.
A Brescia i primi guadagni. Del primo contatto con l'Italia ricorda le scarpe nuove fornite, assieme al vestiario e alle cure sanitarie di controllo. Dimostra subito capacità di adattamento, cerca di star dietro a qualche suo connazionale. Nel giro di pochi giorni viene portato a Crotone, in Calabria: sede di uno dei più grandi centri di accoglienza per richiedenti asilo, ma anche di identificazione e di espulsione. Ottiene un permesso di sei mesi, al termine del quale dovrà ripresentarsi nella questura della città calabrese. Il primo contesto urbano nel quale si affaccia è Brescia, cuore della Lombardia e di un Nord produttivo dove la crisi economica è ancora di là da venire. Va a vivere in casa di altri pachistani, comincia a girare per le strade come ambulante e a guadagnare qualcosa. Quanto basta per pagare un affitto e mandare qualcosa a casa. Nel tragitto tra l'Italia e in Punjab, quei 100, 150 euro assumono però un valore enorme e Faisal è contento di poter essere già in grado di contribuire al sostegno della sua famiglia. E' sveglio e affabile. Ha una predisposizione verso gli atteggiamenti positivi, che lo tiene lontano dai guai.
L'incontro con una donna della polizia, "per bene".  Alla scadenza del permesso deve tornare a Crotone: non ci pensa due volte, sale su un treno e si presenta in questura. Il suo mentore e connazionale, he lo aveva aiutato per ottenere il permesso ha preso un'altra direzione. Di quel passaggio ricorda l'ansia di poter essere rispedito indietro, in Pakistan, perché sa che senza una sorta di garante, si corre il rischio di essere rimpatriati: del resto, ha appena 15 anni. Ma non si perde d'animo: non ha molte alternative, la cosa migliore che può fare è fidarsi di quanto gli viene detto da un'agente di polizia dell'ufficio preposto, una donna, che Faisal ricorda ancora oggi come tra le "brave persone" incontrate nel suo cammino. E non si scoraggia nemmeno quando viene rimandato nel centro, nel quale trascorre qualche altro mese. Ad un certo punto, si presentano quelli che lui ricorda come "i ragazzi di Anna", i responsabili di un progetto dedicato ai minori non accompagnati previsto dal Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. L'ente capofila è il comune di San Pietro Vernotico, il soggetto attuatore è l'Arci. Faisal e un altro ragazzo vengono quindi portati nel Salento.
Lo studio, il lavoro e gli aiuti ai genitori. Studia l'italiano, segue un corso come apprendista meccanico, si attiene alle indicazioni che gli vengono date dagli operatori sebbene patisca di non poter lavorare. In fondo è per questo, pensa, che ha lasciato casa per raggiungere l'Italia. Diventato maggiorenne viene incluso in un progetto per categorie ordinarie e si trasferisce a Trepuzzi, dove ancora oggi vive. Continua a studiare, lo deve fare, ma finalmente può anche pensare di tornare a racimolare denaro col proprio sudore: e infatti l'occasione gli si presenta grazie all'azienda agricola Mongiò, che produce olio. Tra ulivi e macchinari si apre definitivamente la nuova fase della sua vita: è lì che riesce a riabbracciare un fratello, il primo familiare dopo tanto tempo, ed è lì che la sua retribuzione, via via crescente, gli consente di spedire ai genitori con una certa puntualità somme di denaro non trascurabili, soprattutto per un'economia povera. Quando gli chiedo in che modo tangibile sono stati impiegati quei denari, mi risponde: "Hanno sistemato la casa, vivono in buone condizioni". Ed è una risposta controcorrente, in un quadro in cui intere generazioni, in Italia, vengono mantenute dai sacrifici della famiglia.
Lui ha rivisto i suoi solo nel 2010. Vorrei che mi descrivesse quel giorno, ma il suo sguardo vacilla e si perde in uno sforzo che non produce grandi risultati. La brillantezza nel fondo dei suoi occhi torna però in un battibaleno quando ci inoltriamo sul versante imprenditoriale, del quale naturalmente è molto orgoglioso: oggi ha sei dipendenti divisi in tre locali, uno dei quali gestito dal fratello, anche lui oramai stabilmente nel Salento. L'idea di voler fare qualcosa in proprio, Faisal dice di averla sempre avuta e se la ride di gusto quando ammette di aver iniziato a vendere kebab senza nemmeno saperli fare: ora, a quattro anni di distanza, sostiene di poter fare le maratone e mi sfida ad andarlo a trovare in un giorno di grande affluenza come può essere un sabato, ma allora non sapeva da dove iniziare, lo riconosce. Si era però messo in testa di voler rilevare quell'attività che alcuni suoi connazionali gestivano in viale dell'Università. Con 22mila euro si prende l'attività e saggiamente si tiene uno dei dipendenti in servizio. E' da lui che impara l'arte del kebab.
Ormai è uno del quartiere. Da quel giorno - era l'8 di agosto del 2010 - Faisal non ha mai chiuso nemmeno per un giorno di ferie e, quando torna a far visita alla sua famiglia, l'attività procede come un orologio svizzero. Ha comprato altre licenze in città, poi le ha rivendute, ora ha qualche nuovo proposito sul quale però resta abbottonato. Colpisce molto di più l'abbraccio che un fornitore, entrato nel locale, gli riserva chiamandolo "imprenditore". Non è una recita. Subito dopo, fa capolino la vicina di negozio che chiede di poter riscaldare al microonde qualcosa. Faisal è insomma uno del quartiere. Poi è la volta di un ragazzo che vive nei paraggi: è una semplice visita per un "ciao, come stai?".
I meriti degli enti locali e dell'Arci. La storia di Faisal è, in fin dei conti, quella di un inserimento riuscito, di una metamorfosi da "clandestino" a cittadino perfettamente integrato e benvoluto: "Fidati - dice parlando di intolleranza e discriminazione - Lecce è una città tranquilla". Ma è anche la storia delle buone prassi degli enti locali, che aderiscono ai bandi del sistema di protezione per richiedenti asilo e dell'impegno degli operatori salentini, che fanno capo all'Arci e che attualmente sono impegnati in 17 progetti su tutto il territorio provinciale: sono "i ragazzi di Anna" - Anna Caputo, la presidente provinciale dell'associazione - che si spendono ogni giorno per gente come Faisal, alle quali magari basta dare una sola opportunità.



Immigrazione sempre più sentita come minaccia in Ue. Italia sopra la media
Sondaggio Eurobarometro di autunno. Il 18% degli abitanti dell'Unione vive il fenomeno con preoccupazione rispetto al loro paese. A livello personale, l'8% degli degli italiani si sente minacciato, contro una media del 5. Avramopoulos: serve una nuova narrativa
Redattore sociaòlòe, 18-12-2014
BRUXELLES - Una nuova narrativa che sottolinei gli aspetti positivi dell’immigrazione nell’Unione Europea. A invocarla è il commissario agli Affari Interni e alla Migrazione, Dimitris Avramopoulos, in occasione della Giornata Internazionale dei Migranti che si celebra oggi. Avramopoulos riconosce come “sia difficile difendere l’immigrazione in tempi di disoccupazione e forte crisi economica, ma il suo impatto sull’economia Ue è immensamente positivo”.
E che ai cittadini europei il tema stia a cuore lo conferma l’Eurobarometro standard di autunno, pubblicato ieri, che indica come economia e immigrazione siano le cause più grandi di preoccupazione nell’Ue. In particolare, l’immigrazione continua a salire nella graduatoria delle questioni più frequentemente menzionate, sia a livello di Ue che di singoli Stati membri. Per quanto riguarda la percezione a livello di Unione Europea, essa si colloca al quarto posto con il 24% fra le tematiche maggiormente menzionate come fonti di preoccupazione (+3% rispetto allo scorso anno), e al terzo posto a livello di singoli Stati membri (complessivamente al 18%, anche qui con un +3% rispetto all’Eurobarometro standard di autunno 2013). Ci sono poi paesi quali Malta, il Regno Unito e la Germania, in cui l’immigrazione rappresenta la prima causa di preoccupazione per i cittadini.
L’Italia, in questo senso, si colloca esattamente in media con il resto d’Europa, poiché il 18% dei cittadini del nostro paese vedono l’immigrazione come una minaccia nazionale, mentre siamo molto più preoccupati ad esempio dalla disoccupazione (citata da ben il 60% degli intervistati) e dalla difficile situazione economica (che ottiene il 37%).
A livello personale, solo l’8% degli italiani si sente minacciato dall’immigrazione, comunque più della media europea che è del 5%. I numeri aumentano invece se si chiede, in Italia, quali siano le sfide principali che l’Ue deve affrontare (l’immigrazione si attesta in questo caso al 29%).
Oltre nove italiani su dieci, però, si dicono favorevoli a misure aggiuntive per affrontare i problemi legati all’immigrazione. Il 23% degli intervistati pensa che tali misure debbano essere preferibilmente a livello Ue, quasi la stessa cifra (il 24%) invece sarebbe più favorevole a provvedimenti di carattere nazionale. Il 45% degli italiani, infine, pensa siano necessarie sia misure da parte dell’Unione Europea che da parte del nostro governo. Alla domanda se si sia in favore di una politica comune europea per quanto riguarda l’immigrazione, in Italia il 73% ha risposto sì, contro una media europea del 71%, e solo il 19% ha detto no (in Europa i no sono al 20%).
Ma per tornare alle parole del commissario Avramopoulos, che ha sottolineato quanto sia difficile avere un’immagine positiva degli immigrati, i dati mostrano che in Italia solo il 36% degli intervistati considera positivamente l’immigrazione da altri Stati membri Ue (in Europa sono il 52%) e ben il 56% degli italiani la considera negativamente. I numeri sono ancora più indicativi se si parla di extracomunitari: qui solo il 18% degli italiani li considera in maniera positiva, mentre il 75%, tre italiani su quattro, hanno una percezione negativa (in Europa le opinioni positive sono al 35% e quelle negative al 57%). (Maurizio Molinari)



Per i migranti il 18 dicembre è un giorno di lotta
Internazionele, 18-12-2014
Francesca Spinelli
Questo giovedì 18 dicembre, giornata internazionale dei migranti, decine di loro lo passeranno dietro le sbarre dei centri belgi di identificazione ed espulsione.
Per esempio D., che ha lasciato il suo paese per andare a studiare in Inghilterra, è ricercato nel suo paese di origine per un crimine che non ha commesso ed è detenuto da otto mesi.
M. è stato arrestato ad agosto, è affetto da una grave forma di diabete e gli proibiscono di tenere insulina e cibo nella sua camera, consigliandogli invece del paracetamolo e delle docce calde per calmare le sue crisi di panico.
A., separato da sua moglie e da suo figlio da quattro mesi, è detenuto nonostante un tribunale abbia espresso parere favorevole alla sua liberazione (ma l’Office des étrangers, che dipende dal ministero dell’interno ed è responsabile della “gestione della popolazione immigrata”, ha presentato ricorso).
T., studentessa di liceo, fermata ieri durante un controllo d’identità in un negozio di vestiti, è stata subito trasferita in un Cie.
“I can’t breathe”, sono state le ultime parole di Eric Garner, ucciso a luglio da alcuni poliziotti a New York, ma anche quelle di Jimmy Mubenga, morto durante un tentativo di espulsione dal Regno Unito nell’ottobre del 2010. Due giorni fa, le tre guardie private che lo stavano scortando sono state scagionate dall’accusa di omicidio. Per la giuria hanno solo fatto il loro dovere cercando di immobilizzare Mubenga sull’aereo che doveva riportarlo in Angola, lontano da sua moglie, dai suoi figli e dal paese dove viveva dal 1994.
Oggi in Europa i migranti e le migranti (se proprio vogliamo chiamarli così), con o senza documenti, sono soffocati da leggi che li discriminano e li criminalizzano. Per questo, finché le cose non cambieranno, il 18 dicembre rimarrà una giornata di lotta.

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