Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

30 dicembre 2010

IMMIGRATI: CORTEO A MILANO, "SANATORIA PER TUTTI"
(AGI) - Milano, 29 dic. - E' partito a Milano il corteo organizzato dal comitato antirazzista a dal Cub contro la cosiddetta 'sanatoria frusta' del 2009 che ha consentito la regolarizzazione di colf e badanti. Con questa manifestazione gli immigrati vogliono chiedere al prefetto che vengano regolarizzate anche categorie lavorative diverse da quelle previste dalla sanatoria che risulterebbe, secondo loro, una violazione della costituzione. La legge infatti ha impedito di chiedere ad altri lavoratori irregolari che lavoravano in Italia di essere regolarizzati. Il corteo formato da circa 100 persone e' diretto alla prefettura di Milano dove una delegazione chiedera' di essere ricevuta. (AGI) Mi6/Car/Zeb



La fabbrica della paura: «in Italia una volontà politica di produrre clandestinità»

Diritto di critica,  30-12-2010
Maria Chiara Cugusi
“C’è una precisa volontà politica di continuare a produrre clandestinità in Italia”. Gianfranco Schiavone, consigliere nazionale Asgi (Associazione studi giuridici immigrazione), intervistato da Diritto di critica spiega le ragioni del “silenzio voluto” di fronte alla direttiva europea del 2008 sul rimpatrio degli immigrati irregolari (da applicare negli stati Ue entro il 24 dicembre, ma non ancora recepita dall’Italia) e spiega perché bisognerebbe riscrivere l’intera normativa italiana per combattere realmente l’irregolarità e “l’accanimento contro gli stranieri”.
Obiettivo della direttiva, favorire una procedura di allontanamento che rispetti maggiormente i “diritti” degli espulsi. Tra le novità, il “rimpatrio volontario” come alternativa all’espulsione coercitiva: ogni stato dovrà assicurare un periodo da 7 a 30 giorni all’immigrato che scelga “la partenza volontaria” (possibilità negata solo in caso di commissione di reati, pericolo per l’ordine pubblico e rischio di fuga). Nel caso di allontanamento volontario, gli Stati Ue hanno la possibilità di eliminare qualsiasi termine inibitorio del reingresso (che secondo la direttiva non può superare i 5 anni), “in modo da creare un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni”, spiega Schiavone.
Possibilità che in Italia non è ammessa: “Attualmente,  lo straniero irregolare può tornare nel proprio paese o clandestinamente o in esecuzione di un ordine di allontanamento”. E una volta espulso, l’immigrato non può fare ritorno in Italia per almeno 10 anni. “Una normativa rozza e inefficace – commenta Schiavone – che non prevede nessuna premialità e mina qualsiasi collaborazione tra le parti”.
La direttiva, inoltre, pur prevedendo la detenzione dello straniero irregolare, assicura alcune garanzie (deve essere una misura “strettamente necessaria” e può durare al massimo 18 mesi). Nella normativa italiana invece gli irregolari entrano in un meccanismo “di un’eterna privazione della libertà”, con il rischio di detenzione (dai 3 ai 5 anni in caso di mancata esecuzione dell’allontanamento, dopo l’uscita dai Cie) “che li equipara ai peggiori criminali, punendoli non per un reato commesso, ma per il solo fatto di essere clandestini”. Colpa di un “perverso circuito tra sanzioni penali e amministrative”, spiega Schiavone, introdotto a partire dalla Bossi – Fini, che ha alimentato “un accanimento durissimo verso l’immigrato”.
Per applicare la direttiva europea, “bisognerebbe riscrivere completamente l’attuale normativa”, spiega Schiavone. Forse si potrebbe ripartire dalla legge Turco-Napolitano, “sicuramente più in linea con l’attuale spirito europeo nel prevedere l’allontanamento coattivo come un’eccezione e non come la norma”. Termine ultimo dell’applicazione delle nuove norme sui rimpatri era il 24 dicembre, ma il processo di recepimento in Italia non è neanche iniziato: “C’è un voluto silenzio di fronte a questa direttiva, per continuare ad alimentare una fabbrica della paura”.



Scuola, casa, assistenza Gli immigrati al Comune costano 50 milioni

il Giornale, 30-12-2010
Alberto Giannoni
Palazzo Marino lancia l’allarme dopo il veto posto dai giudici alle espulsioni dei clandestini. De Corato: "L’integrazione costa, così è insostenibile". Moioli: "È impossibile spendere di più"
Con altre ondate di immigrazione il destino del Comune è il dissesto economico. A lanciare l’allarme proprio Palazzo Marino, dopo che un giudice ha scarcerato due clandestini egiziani in applicazione della sentenza della Corte costituzionale che smonta le misure anti-clandestini del pacchetto sicurezza, stabilendo l’impossibilità di espellere chi si trovi in condizioni di indigenza. «Porte spalancate a tutti producono dissesto finanziario - sintetizza il vicesindaco Riccardo De Corato - l’integrazione si fa con il denaro, perché gli enti locali devono poi mettere in campo assistenza sanitaria, case popolari, servizi per la scuola e la famiglia attività di sostegno alle fragilità da parte del terzo settore».
A Milano un cittadino su sei è straniero, e l’immigrazione straniera in 30 anni è passata dall’1,3% al 16,1%. «Una crescita impressionante, + 854%, senza dimenticare che la composizione è stravolta - ha aggiunto De Corato - Perché nel 1980 le nazionalità numericamente più rappresentate erano gli svizzeri (erano 1.673), i tedeschi e i britannici. Oggi invece domina la componente afroasiatica, che comporta ben altre esigenze. È vero che si tratta di cittadini regolari, ma ai Comuni paradossalmente toccherà ora farsi carico pure dei clandestini, perché dopo la sentenza della Consulta ormai sono di fatto inespellibili. A Milano si stimano 50mila irregolari, che continueranno a crescere, e chiederanno assistenza sanitaria, case». «E i Servizi sociali di Milano già oggi incidono per gran parte del bilancio del Comune - ha concluso il vicesindaco - La via d’uscita è pertanto l’immigrazione sostenibile, che è un concetto tutt’altro che astratto».
Ma quanto costano gli immigrati? Nel bilancio del Comune alla voce «Immigrazione» si prevede uno stanziamento di 12 milioni e 380mila euro, ma si tratta solo di spese specificamente dirette agli stranieri residenti. Non tengono conto, insomma, della quota di servizi sociali che sono diretti agli immigrati nel campo della scuola, delle case popolari, dei sussidi, dell’assistenza socio-sanitaria. «Quella voce è solo una piccola parte - conferma l’assessore al Sociale Mariolina Moioli - la spesa per immigrati è incalcolabile. Milano è un Comune avanzatissimo, e in un certo senso non voglio neanche calcolare quanto costano i bambini che vanno a scuola, perché la scuola è un diritto di tutti i bambini, e non m’interessa sapere se hanno gli occhi neri o blu». «Certo - dice l’assessore - con i chiari di luna della finanza pubblica è stata una scelta straordinaria del sindaco e dell’amministrazione quella di non toccare i fondi per il sociale, e investire ancora di più sarebbe impossibile. Se dovesse nascere un bisogno ulteriore dovremmo ragionare bene su come sostenerlo».
In città ci sono 22mila bambini nelle scuole, e il 25 per cento di questi sono figli di immigrati, 1.500 sono i posti per i senza tetto, 400 per i rifugiati politici, 15mila gli assistiti a domicilio. Le comunità straniere sono cento. «Per il Sociale - calcola ancora l’assessore Moioli - la spesa totale ammonta a 700 milioni, 265 di spese correnti, 250 di personale, 200 in conto capitale».
Gli immigrati sono un sesto dei milanesi. Per la Lega arrivano a beneficiare di fondi e contributi dal 40 al 70%. Secondo un vecchio studio della Banca d’Italia in tutto il Paese erano il 5% e «assorbivano» il 2,5% della spesa sociale. Mantenendosi su una stima prudenziale a loro toccherebbe una «fetta» di spesa sociale pari alla metà della loro incidenza sulla popolazione. Dunque a Milano un dodicesimo, pari a 58 milioni.



San Marino: istruzioni per immigrati, sposarsi senza soggiorno in Italia

Libertas, 39-12-2010
Corriere Immigrazione fornisce le istruzioni pratiche,  per sposarsi a San Marino,  agli immigrati extra Unione Europea, privi del permesso di soggiorno.
Il matrimonio celebrato presso il Comune della Repubblica di San Marino è spesso l'unica alternativa per chi desidera sposare il proprio partner italiana, e non lo può fare perchè con l'entrata in vigore del pacchetto sicurezza nell'agosto del 2009, chi è privo di permesso di soggiorno non può accedere agli atti amministrativi (tra cui, il matrimonio). Il Comune della Repubblica di San Marino accetta di celebrare i matrimoni e poi ne trasmette l’atto al Comune italiano di residenza del partner italiana perchè sia registrato, così come farebbe un qualunque altro Stato estero, ma con qualche facilitazione in più rispetto alla presenza sul suo territorio di chi non è in possesso di permesso di soggiorno.
Si consiglia, per chi vive lontano da San Marino, di fissare l'atto notarile alla mattina presto (8,30) così da poter andare anche al Comune per le pubblicazioni la mattina stessa.
Eventualmente dormire a Rimini la notte prima (meno cara di San Marino)
La registrazione del matrimonio presso il Comune italiano di residenza viene fatta direttamente dal Comune di San Marino al’avvenuta registrazione, è possibile andare alla Questura di riferimento, con la copia dell’atto di matrimonio e i documenti di identità dei coniugi, a chiedere il permesso di soggiorno.
Documentazione necessaria......



Eritrei, l'ultimo oltraggio: in 27 arrestati dagli egiziani

l'Unità, 30-12-2010
UMBERTO DE GIOVANNANGELI

Invece di liberarli, li arrestano. E poi li consegnano alle ambasciate dei Paesi da cui sono fuggiti. È l'ultimo oltraggio riservato, stavolta dalla polizia egiziana, ai 250 eritrei da mesi tenuti in ostaggio nel Sinai.
ROMA - La polizia egiziana, schierata nel Sinai dove centinaia di eritrei sono tenuti in ostaggio dai trafficanti di immigrati,  ha ricevuto l'ordine di non sparare, ma di arrestare e interrogare i migranti ( considerati immigrati clandestini in Egitto) che vengono rilasciati dopo il pagamento di un riscatto per cercare di capire dove si trovano e come agiscono i beduini. È l'ultimo oltraggio infetto a donne e uomini da mesi in balia dei predoni del Sinai. Gli agenti del Cairo, spiegano fonti egiziane, non intervengono per liberare gli ostaggi per rispetto del Trattato di pace con Israele che impedisce di introdurre armi pesanti e blindati nella zona di frontiera. I beduini, invece, sarebbero dotati di armi molto sofisticate, acquistate dai sudanesi con il traffico di migranti.
ODISSEA CONTINUA
Picchiati. Minacciati di morte. Trattati come bestie. Ed ora anche arrestati da coloro che avrebbero dovuto liberarli. È dell'altro ieri la notizia secondo cui 27 profughi etiopi ed eritrei, liberati dai trafficanti di Abu Khaled nella cittadina egiziana di Rafah, nel Sinai del Nord, dopo che i loro familiari hanno pagato il riscatto di 8mila dollari ciascuno, sarebbero stati prima arrestati dalla polizia egiziana e successivamente portati nelle rispettive ambasciate d'Etiopia e di Eritrea a Il Cairo. «È imminente la loro deportazione nei Paesi d'origine, dai quali questi profughi sono fuggiti per crisi umanitarie, persecuzioni e genocidi», denunciano Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, copresidenti dell'organizzazione umanitaria EveryOne, che segue sin dall'inizio l'intera vicenda degli oltre 250 profughi ostaggio dei trafficanti di esseri umani nel Sinai. «Questi innocenti, per fuggire da Etiopia ed Eritrea, hanno affrontato un estenuante viaggio nel deserto, toccando anche i confini libici, venendo ripetutamente respinti. Alla fine sono approdati in territorio egiziano e sono stati consegnati ai trafficanti beduini Rashaida collusi con Hamas e con la Muslim Brotherhood, prima di raggiungere Israele, che li hanno sottoposti a spietate estorsioni e tremendi abusi, tra cui stupri e torture. Deportarli nei rispettivi Paesi di origine vorrebbe dire ammazzarli, istituzionalizzando una persecuzione e rendendo vano ogni loro sforzo di sopravvivenza in tutto questo tempo».
VOCI DA ISRAELE
«We Refugees» (noi rifugiati), una Ong israeliana per la difesa dei diritti umani, ha chiesto ieri l'intervento urgente del governo egiziano per liberare circa 300 profughi eritrei tenuti prigionieri secondo diverse denunce nel Sinai da trafficanti, in condizioni disumane. L'Ong si è così associata a un analogo «indignato» appello lanciato l'altro da 13 Ong egiziane, che hanno denunciato «una congiura del silenzio» sul caso. Nel messaggio della Ong israeliana, firmato anche dall'ex-parlamentare Zaava Galon, si afferma che l'inazione mostrata finora dalle autorità «suscita la preoccupante impressione che i crimini (di cui sono vittime i rifugiati, ndr) siano visti dai governi egiziano e israeliano come in linea con i loro interessi nazionali. La situazione attuale è il diretto proseguimento di politiche che hanno visto migranti uccisi (dal fuoco delle guardie di frontiera) sul confine israelo-egiziano».«We Refugees» è una Ong formata da legali che si sono impegnati a proteggere i diritti dei rifugiati, di persone in cerca di asilo e di apolidi. Stando a fonti diverse, circa 300 profughi eritrei (e forse anche sudanesi) sono in ostaggio di bande di predoni che avrebbero fortemente aumentato la somma inizialmente pattuita per farli entrare clandestinamente in Israele. In base a quanto è trapelato, si ritiene che essi siano vittime di gravi maltrattamenti, torture e stupri. ?



Eritrei, «I predoni stanno separando gli ostaggi»

Avvenire, 30-12-2010
Paolo Lambruschi
Nei container sepolti sottoterra nel Sinai è iniziata la separazione tra chi è in grado di pagare il riscatto e chi non potrà farlo. Un preludio di nuovi orrori. Le ultime, drammatiche cronache dall’inferno del Sinai procurano angoscia. Le riferisce don Mosè Zerai, che dal 23 novembre scorso è in contatto telefonico con gli eritrei caduti nelle mani dei rapitori.
«Ieri gli ostaggi – afferma il sacerdote eritreo, presidente dell’agenzia di cooperazione allo sviluppo Habeshia –  mi hanno riferito che per la prima volta sono stati separati, Il gruppo di donne, anche le tre in stato di gravidanza, che non possono pagare gli ottomila dollari richiesti dai banditi è stato spostato ieri mattina. Il loro timore è che ora vengano vendute ad un altro gruppo di trafficanti. Oppure, nella peggiore delle ipotesi, che siano sottoposte all’espianto degli organi». Forse sono stati gli arresti della polizia egiziana compiuti ai danni degli ostaggi nei giorni scorsi a suggerire ai moderni mercanti di schiavi di accelerare i tempi. Nell’area operano almeno 20 gruppi di predoni collegati tra loro, che hanno rapito negli ultimi tre mesi 300 eritrei, tutti diretti verso il confine israeliano sulla nuova rotta del Sinai presidiata da sempre dai Rashaida, i beduini dell’Africa nordorientale. Almeno 80 eritrei sono fuggiti dalla Libia dopo aver tentato invano di raggiungere via mare le coste italiane, mentre il resto è in fuga dal Corno d’Africa.
Stando alle testimonianze telefoniche dei detenuti, confermate dalla ong sanitaria americana Phr che ha documentato le torture subite dai superstiti giunti in Israele in questi mesi, agli eritrei è toccato il trattamento peggiore per rappresaglia. Un gruppo di fuggiaschi tigrini, poi catturato, avrebbe infatti ucciso un carceriere. Le donne sono state ripetutamente abusate, tutti sono stati incatenati, picchiati e sottoposti a torture e violenze disumane, compresa la marchiatura a fuoco. Otto prigionieri sono stati uccisi e ad almeno quattro sembra sia stato prelevato un rene come pagamento del riscatto. Il cibo è scarso, una pagnotta ogni tre giorni e acqua salata. Solo chi ha già pagato rate della somma richiesta, con modalità ormai codificate – via Western union a emissari segnalati dalle bande – è trattato meglio.
Stando alle dichiarazioni delle forze di sicurezza egiziane, che l’altro ieri hanno per la prima volta ammesso la presenza degli ostaggi, sarebbero detenuti nel deserto anche altri 900 africani – etiopi, somali e sudanesi – che avrebbero pagato la somma richiesta per la liberazione e starebbero per varcare il confine con Israele.
La telefonata effettuata ieri dal prete ha aggiunto un tassello alle notizie sugli arresti della polizia egiziana di 27 ostaggi liberati. Tra questi non vi sarebbero i 20 eritrei provenienti dalla Libia rilasciati prima di Natale. Ieri alcuni hanno infatti telefonato agli ormai ex compagni di sventura confermando l’arrivo sul suolo ebraico. Hanno detto di aver fornito le proprie generalità alle autorità israeliane e di trovarsi in un centro di detenzione. Si attendono riscontri.
Don Zerai intanto è tornato chiedere l’intervento dei governi della regione, «ormai terra di nessuno dove regna l’anarchia dei trafficanti di esseri umani. Non si comprende il silenzio delle autorità egiziane, israeliane e palestinesi. Si sta consumando un dramma alle porte delle loro nazioni e nessuno di loro prende a cuore questa emergenza umanitaria».
Il prete si domanda amaro che fine hanno fatto gli accordi internazionali per la lotta contro la tratta di esseri umani e il traffico d’organi.
«Perché si sta perdendo del tempo? Spero che non sia una scelta politica di questi paesi che usano questa situazione drammatica come deterrente contro l’immigrazione. Molti di questi migranti sono profughi di guerra, perseguitati, gente che fugge dalla morte lenta causata da calamita naturali. Le persone disperate tentano il tutto per tutto, anche affrontando la morte, ma i paesi ricchi e "civili" non possono preoccuparsi solo di sigillare i propri confini».



La sfida: da clandestini a cittadini

la Repubblica, 30-12-2010
IAN BURUMA
IL FILOSOFO olandese Baruch Spinoza, il premier inglese di fine Ottocento Benjamin Disraeli e l'attuale presidente francese Nicolas Sarkozy hanno una cosa in comune: sono tutti figli di immigrati. Da migliaia di anni la gente emigra, per fuggire, per vivere meglio, per essere libera o solo per ricominciare. Molti hanno arricchito la patria d'adozione realizzando grandi cose, personalmente o attraverso i loro figli.
L'arrivo di nuove masse di immigrati di rado (o mai) è visto confavore. Spesso, però, è una necessità. Negli ultimi cinquant'anni sono emigrati in Europa dal Nordafrica e dalla Turchia tantissimi, non per nostra generosità ma perché servivano per svolgere lavori scartati dagli abitanti del posto. Tuttavia erano considerati lavoratori temporanei, non immigrati.
Si dava per scontato che sarebbero tornati a casa. Quando s'è capito che la maggior parte aveva scelto di restare e di farsi raggiungere dai parenti, si è scelto, a denti stretti, di consentire a molti di diventare cittadini europei, il che non significava che fossero trattati come tali.
Gli xenofobi, come per gli ideologi del multiculturalismo di sinistra, consideravano questi nuovi europei diversissimi dagli autoctoni, anche se per ragioni differenti. I multiculturalisti vedevano i tentativi di integrare i non occidentali nella società occidentale come una forma di razzismo neocoloniale, mentre gli xenofobi non gradivano ciò che pareva, parlava o suonava straniero.
Noi che viviamo in società sempre più vecchie, come l'Europa occidentale o il Giappone, abbiamo bisogno di immigrati: se no istituzioni come gli ospedali rimarrebbero senza personale, e un numero sempre più esiguo di giovani dovrebbe mantenere un numero sempre maggiore di anziani.
Nonostante ciò, molti politici oggi trattano l'immigrazione come una catastrofe. Isterici allarmismi esagerano le difficoltà d'integrazione
degli immigrati in Paesi come Francia, Germania o Olanda. L'Europa non è a rischio «islamizzazione». Ma il fatto che alcuni giovani di origini africane, indopachistane o mediorientali si sentano talmente estranei ai Paesi europei in cui sono nati da essere disposti a uccidere nel nome di un'ideologia religiosa rivoluzionaria è segno che qualcosa manca.
La colpa è anche della politica in molti Paesi islamici. Per i giovani vulnerabili, l'estremismo islamista è un credo rivoluzionario cui è facile aggrapparsi per ricavarne un senso di forza e appartenenza. Ma come dimostrano le occasionali rivolte che scoppiano nei quartieri di immigrati in Francia, la violenza non è limitata ai musulmani. C' entrano le politiche nazionali e i gravi limiti delle politiche migratorie nell'Unione europea.
Oltre ai cittadini Ue, altre tre categorie di persone hanno avuto la possibilità di stabilirsi in Europa: ex sudditi coloniali, come gli algerini in Francia, gli indiani e i pachistani in Gran Bretagna o i surinamesi in Olanda; i «lavoratori ospiti», che arrivarono negli anni 60 e 70; i rifugiati politici. Diversamente dal Canada e dagli Stati Uniti, gli immigrati per ragioni economiche nella Ue non possono ottenere la cittadinanza in cambio del loro indispensabile lavoro.
Quando i politici europei dicono che la Francia, la Gran Bretagna o l'Olanda non sono tradizionalmente «Paesi di immigrazione" come gli Stati Uniti, hanno ragione solo in parte, come dimostrano gli esempi di Spinoza, Disraeli e Sarkozy. Quel che è vero, è che grandi quantità di immigrati de facto si sono ammassate in molti Paesi nell'arco di un breve periodo e in modo accidentale, dando l'impressione di un fenomeno fuori controllo per i governi.
Milioni di persone in tutto il mondo si trovano in un limbo, spesso necessarie, ma non gradite. Il primo  passo della Ue dovrebbe essere quello di legittimare la migrazione economica. Ciò significa individuare i lavori che servono, e accogliere con favore chi viene a colmare questi vuoti: non come ospiti, ma cittadini: alla pari con gli altri.
L'autore è docente di Democrazia e Diritti umani al Bard College, N.Y.
Traduzione di Fabio Galimberti



CINESI MADE IN ITALY

CRESCONO GLI INVESTIMENTI E LE AZIENDE DI QUALITÀ. AUMENTANO GLI STUDENTI IN SCUOLE E UNIVERSITÀ. E ARRIVA ANCHE IL PRIMO ASSESSORE COMINCIA L'INTEGRAZIONE NELLA PIÙ CHIUSA DELLE COMUNITÀ STRANIERE
L'espresso, 30-12-2010
FEDERICA BIANCHI
—Non ci sono "estranei" in giro, non ci sono negozi di souvenir e nemeno palloncini rossi appesi agli stipiti dei ristoranti. Quella di Pra-
to non è una Chinatown per turisti: è un pezzo del sud della Cina trapiantato in un lembo di Toscana. In piazza, sulla vetrina di un piccolo supermercato, è appeso un grande monitor blu su cui scorrono, in cinese, offerte di lavoro: operai, segretarie, commesse, modiste. Una moltitu-dine di giovani stretti in giacchette nere di finta pelle attende con ansia lo svolgersi del rotolo elettronico, poi su un pezzettino di carta bianca si appunta un numero di telefono. Sono le prossime reclute del pronto moda più economico e più efficiente del Vecchio
continente: 3.400 aziende, 40mìla addetti regolari e clandestini, due miliardi di giro d'affari. Qui, tra via Pistoiese e via Filzi, gli abitanti hanno gli occhi a mandorla davanti e dietro i banconi dei negozi, i supermercati vendono cavolo bianco e zenzero, e i parrucchieri tagliano i capelli ai bambini lasciandogli un codino sulla nuca. Queste vie sono per i pratesi i primi gironi dell'Inferno e per molti italiani la dimostrazione che ben lontana dall'integrarsi la popolazione cinese in Italia, rinchiusa nelle sue fortezze autosufficienti, minaccia di sfilarci il Paese dalle mani, un distretto alla volta. Eppure a guardare oltre pregiudizi e titoli di giornale, a sbirciare nei negozi all'ingrosso di piazza Vittorio a Roma, a fare un giro tra le università di economia ed ingegneria di Milano, e a passeggiare tra le boutique del centro storico di Firenze si colgono i primi segnali che qualcosa sta cambiando: i cinesi residenti in Italia iniziano ad integrarsi. Un po' per voglia. Un po' per forza.
E siccome l'Italia non è la California, di cinesi che parlano l'italiano meglio del mandarino ancora non vi è traccia. Ma è solo una questione di tempo. Cominciano ad esserci persone come la quarantaduenne Hongyu Lin, assessore all'integrazione di Campi Bisanzio, un piccolo comune alla periferia di Firenze che aveva preceduto Prato nell'essere definita la Chinatown d'Italia: «Io sono la speranza che i cinesi possano accedere anche al quadro istituzionale italiano e sentirsi italiani a tutti gli effetti». Lei è arrivata in Italia appena laureata all'indomani del massacro di Piazza Tiananmen nel 1989, in cerca di un paese dove coniugare opportunità economiche a libertà democratiche. Passata per il Trentino dove il marito era stato assunto da un'azienda informatica durante gli anni del boom, ha trovato in Toscana una seconda patria. Oggi nella giunta del sindaco Adriano Chini (Pd) si batte affinché i cinesi rispettino le leggi e i costumi locali e gli italiani si accorgano dell'immensa opportunità offerta dalle seconde generazioni di asiatici. «L'intolleranza dei cittadini italiani verso i cinesi nasce dal mancato rispetto delle regole», racconta: «Ma glielo hanno insegnato gli italiani stessi a forza di assumere lavoratori in nero e a non stipulare mai un contratto di affitto. Così finisce che l'unica regola che gli immigrati imparano velocemente è quella di non pagare le tasse».
Negli ultimi anni il rapporto tra lore di italiani e cinesi si è talmente incrinato da culminare nell'aprile del 2007 nella prima rivolta etnica della storia del Paese (contro le limitazioni imposte al commercio cinese dal comune di Milano) e, successivamente nel 2009, nella scelta (speculare) di un sindaco di destra a Prato, dopo 63 anni di giunte rosse. Ad alimentare il risentimento sono soprattutto due fattori.
Innanzitutto il successo economico raggiunto dalle comunità cinesi che hanno sfruttato non solo il fiuto imprenditoriale ma anche gli anelli deboli del nostro sistema economico - dall'evasione fiscale all'impiego di manodopera in nero. E poi l'autoreferenzialità delle comunità, in grado di aiutare i propri membri sotto ogni aspetto, dal sostegno economico a quello legale, rendendo inutile per i nuovi arrivati imparare perfino la lingua italiana. Se questa vecchia tendenza a rimanere nella propria enclave etnica era una caratteristica apprezzata dagli italiani quando i cinesi erano numericamente inferiori ed economicamente più deboli, ora che il loro status sale mentre quello dell'italiano medio scende, crea sospetti, pregiudizi e ritorsioni. Senza contare il successo di tanti imprenditori - da Luigi Sun a Milano a Xu Qiulin a Prato - contraddice lo stereotipo classico della via italiana all'immigrazione. «Il modello Caritas con loro non funziona perché non sono vittime e tantomeno vittimizza bili», spiega Patrizia Farina, professore di Demografia presso l'università Bicocca di Milano: «Si mettono in diretta concorrenza con gli italiani». Ma il successo economico porta con sé inevitabili cambiamenti: con la maggiore visibilità aumenta la radicalizzazione sul territorio e l'esigenza di un maggior rispetto delle leggi. «Dieci anni fa nei capannoni c'era una situazione igienica disperata e non c'erano nemmeno abbastanza posti letto per tutti: due operai dividevano lo stesso letto», racconta Lina lervasi, capo dell'ufficio immigrazione della questura di Prato: «Adesso i datori di lavoro cercano magazzini a due piani per separare la zona notte da quella del lavoro. La situazione rimane illegale, ma è meno illegale di prima». Le aziende che riescono a fare il salto di qualità sono ancora poche, ma sono molte quelle che non si perdono una mossa di pionieri come la Koralline di Francesco Zhang, uno dei rari marchi del pronto moda, per vedere se dopotutto una produzione di maggiore qualità e una campagna promozionale basata sulla comunicazione potreb¬bero avere un effetto positivo sul fatturato. «La soluzione vincente è lavorare insieme», spiega Edoardo Nesi, scrittore e assessore allo sviluppo economico della provincia di Prato: «Per battere la concorrenza dei prodotti in arrivo dalla Cina anche i cinesi che vivono in Italia dovran¬no alzare il livello qualitativo, di conseguenza i prezzi, e quindi potranno comprare i tessuti dagli italiani».
Per chi non vuole o non riesce a fare il salto di qualità, la via del rientro in Cina è spesso la soluzione più facile. Quegli imprenditori cinesi del Nord Italia che sono sbarcati da noi con l'intenzione di fare un rapido bottino e sistemarsi per la vita stanno facendo le valige, complici la crisi economica degli ultimi anni e la concorrenza diretta degli imprenditori della madrepatria che hanno annullato i margini delle im¬prese più precarie. Tra il 2004 e il 2007 le rimesse cinesi sono quintuplicate, passando dai 335 milioni di euro del 2004 ai 1.687 milioni del 2007. «Una parte consistente è attribuibile al controesodo dei cinesi che stanno tornando in patria» alla ricerca di nuove opportunità, si legge nel rapporto del ministero degli Interni. «Ormai non si guadagnava più», spiega Marco, un imprenditore di Wenzhou, per anni in Italia, che con un socio si è appena trasferito nel Qinghai, la frontiera occidentale della Cina, per aprire un supermercato e acquistare la licenza dell'unica salina della regione: «Mia moglie e mio figli però non vogliono tornare, loro vivono bene a Modena». A rimanere in Italia e chi si e maggiormente legato al territorio in veste personale, magari tramite un marito italiano, o attraverso i propri figli, nati e, soprattutto, cresciuti da noi. Secondo i dati del ministero dell'Istruzione, nell'anno scolastico 2008-2009 hanno frequentato le classi italiane 30.776 bambini cinesi rispetto ai 27.558 dell'anno precedente, il quarto gruppo di studenti stranieri dopo rumeni, albanesi e marocchini. E se una volta i genitori che venivano nel nostro Paese alla ricerca di un lavoro tendevano a lasciare i figli piccoli alle cure dei nonni rimasti in Cina almeno fino alla conclusione del ciclo elementare, adesso hanno fatto retromarcia. Si sono resi conto che il tardivo inserimento nel sistema scolastico italiano impediva ai ragazzi di avere un'educazione e un futuro adeguati. Oggi l'80 per cento dei 235 mila residenti cinesi in Italia ha meno di 40 anni e il 21,7 per cento è minorenne. Così dentro le severe mura umbertine della gelateria Fassi, nel quartiere multiernico di Roma, a parlare mandarino sono gli studenti italiani della facoltà di studi orientali: i ragazzi cinesi della limitrofe scuola Daniele Manin litigano tra loro in romanaccio, con i più piccoli che alternano le due lingue mentre tengono in bilico sul cono gelato una generosa porzione di panna a dispetto del fatto che i cinesi detestano i dolci. Insieme ai gusti alimentari, stanno cambiando anche le aspirazioni professionali. « In Italia se sei un immigrato e cerchi prospettive di crescita, l'unica via è quella imprenditoriale», spiega il sociologo Daniele Cotogna: «E la cosa è tanto più facile quanto più la tua comunità etnica ti aiuta a reperire capitali e relazioni, chiedendo in cambio una fedeltà e disponibilità assoluta ad aiutare a tua volta i nuovi arrivati». Ma le nuove generazioni hanno meno bisogno di uno stretto rapporto socioeconomico con la comunità di origine e possono permettersi il lusso di rompere il cordone ombelicale perfino con la loro ambasciata, che - a differenza delle sedi consolari europee - ha sempre svolto un ruolo importante nel coordinamento della vita dei cinesi all'estero. Parlando e pensando in italiano possono ambire a una serie di attività e relazioni precluse ai loro genitori. «I cinesi di seconda e terza generazione con titolo di studio superiore lavorano regolarmente assunti come commessi nei negozi italiani, diventano segretarie oppure traduttori: l'interpretariato è un settore in grande crescita», racconta lervasi: «Ormai ci sono ragazzi cinesi sempre più integrati che pensano al futuro esattamente come noi. Sono loro il traino dell'integrazione». Le boutique firmate del centro impiegano regolarmente ragazze cinesi perfettamente bilingui per trattare con il numero crescente di turisti cinesi (quest'anno un milione) che amano fare shopping nel nostro Paese; le agenzie di viaggi cinesi cominciano a rivolgersi anche ai clienti italiani; nei bar gestiti dai cinesi un occhio di attenzione viene dato a usi e tradizioni di casa no¬stra; nelle liste di attesa degli ospedali della capitale cominciano ad apparire cognomi cinesi. «Ho appena assistito una paziente di Wenzhou», spiega meravigliato un anestesista dell'ospedale Sant'Eugenio a Roma: «Non era mai successo che una donna cinese si sottoponesse a un intervento ospedaliero non in emergenza. Prima si rivolgevano solo ai loro dottori ». Il sogno per i rampolli borghesi di origine cinese non è più o non solo l'aziendina tessile, il negozio o il bar, ma le migliori università che l'Italia può offrire: « I nuovi status symbol sono la casa, la macchina e un figlio in Bocconi», spiega Marco Wong, presidente di As-socina, l'associazione nata per aggregare le seconde generazioni.
La Bocconi quest'anno conta tra i suoi studenti 134 cinesi cresciuti in Italia e il Politecnico di Milano ha visto i cinesi salire dall'1 all'8 per cento degli iscritti in otto anni. «Volevo studiare business e i miei genitori hanno scelto la Bocconi», spiega Angela Wei, 21 anni, figlia di piccoli imprenditori di Cesena, terzo anno di Economia aziendale, e, involontariamente, lancia un campanello di allarme: «Mi piacerebbe trovare un lavoro in Europa o negli Usa, oppure lavorare per un'azienda occidentale in Cina, così potrei fare avanti e indietro e guadagnare di più». Con tutto questo andirivieni rischiamo di perdere lei e i giovani come lei: se il nostro Paese non saprà offrire ai suoi nuovi ragazzi opportunità di crescita, saremo noi a mancare il treno dell'integrazione, quella nell'economia globale. ?



Rosarno punto e a capo

Panorama, 30-12-2010
MARIA PIRRO
Il 7 gennaio 2010 gli immigrati africani si ribellarono ai caporali che li sfruttavano. «Panorama» eternato sul luogo degli incidenti, scoprendo che nulla è cambiato, inuovi schiavi sono bulgari e romeni, pagati un euro a cassetta di mandarini. E che il paese è di nuovo pronto a esplodere.
A  Rosarno è di nuovo tempo di clementine e arance. Alle 5.55, in via Nazionale, sotto lo sguardo obliquo dei «caporali», il mercato dei braccianti riparte puntuale. Il ragazzo nero, magro come un chiodo, si trascina dietro una busta di plastica annodata sull'orlo. È l'unico tocco italiano, la marca del discount che dondola nel vuoto. All'improvviso scivola dentro un furgone bianco a nove posti, il motore fumante Lo guida uri altro ventenne, pure africano. A fianco a fianco, sagome. Sullo sfondo insegne abbaglianti, caffè, scheletri di cemento, capannelli, muri scrostati, panni stesi al gelo, manifesti elettorali strappati, persiane serrate. È Rosamo, provincia di Reggio Calabria.
È passato un anno dalla rivolta degli immigrati e dalla «caccia al negro» che ne seguì. Furono costretti, i neri, a lasciare il paese tra l'8 e il 9 gennaio. Ora non più di 650 di loro, sui 2.500 originali, sono tornati a lavorare nella Piana di Gioia Tauro. Per varie ragioni. Perché il settore è in crisi, si lamentano gli agricoltori. Ma anzitutto per il timore di nuovi scontri, tanto è vero che ai braccianti africani sono subentrati in massa bulgari e romeni. Donne comprese. «Da Sofia ne sono arrivati 500, a bordo di dieci bus» sussurrano in paese.
Gli ultimi rapporti della polizia confermano il fenomeno. E il ricambio ha un vantaggio evidente: «I nuovi braccianti provengono da stati membri dell'Unione Europea, anche se lavorano in nero, al momento dei controlli non devono esibire il permesso di soggiorno» spiega il questore Carmelo Casabona. Come dire: se l'attenzione su Rosarno rimane alta, almeno le multe saranno più basse.
Cosi in via Nazionale continuano ad avvicendarsi volti e sguardi di due continenti. Tra loro ci sono i feriti del gennaio 2010. Konade, il ragazzo impallinato con un fucile da caccia; Saikon, bastonato perché vittima del raptus collettivo. «Alternative non ne ho» fa intendere il primo. «Ho moglie e figli in Gambia, vorrei portarli qui, non li vedo da quattro anni e mezzo» dice il secondo, mostrando il piccolo tesoro fasciato nella plastica: indumenti, per difendersi dalle intemperie
Braccia e sudore per un pugno di euro. «Le paghe sono le stesse dell'anno scorso: 25-30 euro a giornata, oppure 1 euro per ogni cassetta ricolma. Meno 2 euro e 50 centesimi, il prezzo del trasporto nelle campagne». I caporali? «Ancora gestiscono il mercato delle braccia: contattano i connazionali africani la sera prima, anche se non tutti accettano di lavorare con loro» segnala l'Osservatorio migranti. È la ragnatela dello sfruttamento: squarciata ad aprile 2010, con gli arresti e i sequestri dell'inchiesta Migrantes, la rete si ricompone all'alba del 2011. Dice a Panorama il questore Casabona: «La polveriera Rosarno potrebbe riesplodere se non si rimuovono le cause di disagio. La vera scommessa è favorire l'integrazione, attraverso rapporti di lavoro regolari, alloggi con equo canone, il ricongiungimento familiare».
Un percorso in salita, secondo la 83enne che gli immigrati chiamano «marna Africa». Norina Ventre ogni domenica organizza la mensa della solidarietà. E racconta: «Un anno fa, ragazzacci avevano distrutto tutti i tavoli per impedirci di servire i pasti, ma il nostro "ristorante" ha ripreso a funzionare. E l'altra settimana si è seduto un ragazzo dal volto scorticato: colpito allo zigomo, con un casco». Episodi isolati, commessi da giovani spavaldi. Tutti cresciuti nel solco tracciato dalla 'ndrangheta. «La percentuale degli affiliati nella zona è elevata. Ma il problema non è soltanto nel numero, è anche nella qualità e nell'incidenza del fenomeno mafioso» sottolinea il procuratore generale di Reggio Calabria, Salvatore di Landre
Il magistrato è in prima persona nel mirino di una escalation criminale, cominciata il 3 gennaio, quattro giorni prima dei fatti di Rosarno, con il ritrovamento di una bomba vicino al suo ufficio. «Le due situazioni rappresentano facce diverse di un prisma, anche se si tratta chiaramente di fatti distinti, non riconducibili» sostiene.
A Rosarno il sindaco è stato eletto il 13 dicembre 2010, dopo lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose: Elisabetta Tripodi, del Pd, si ritrova ad affrontare il battesimo di fuoco. «In 12 mesi nulla è stato fatto per favorire l'accoglienza. La situazione rimane drammaticaperché manca un centro dove ospitare i lavoratori stagionali» incalza Peppe Pugliese, del movimento Africalabria, minacciato un anno fa perché «amico dei neri».
Durante l'emergenza freddo, i volontari si adoperano per raccogliere indumenti, materassi, scarpe, anche attraverso appelli su Facebook. Panorama segue le operazioni della prima distribuzione di aiuti umanitari promossa dai ragazzi di Onda rossa, a cui si aggiunge il contributo del-l'associazione San Ferdinando in movimento. Da Cinquefrondi a Rosarno arriva un camion di speranza.
Altri segnali positivi: quattro immigrati (fra le vittime della violenza) oggi vivono a Polistena, in una casa di proprietà della parrocchia, e lavorano con don Pino De Masi, nella terre confiscate ai boss e affidate a Libera; mentre la Caritas di Drosi, con don Pino La Rocca, fa da garante per gli affitti delle case messe a disposizione dai parrocchiani. «La spesa è di 50 euro al mese, tutto incluso. In 50 hanno già un tetto» sorride Ciccio Ventrice, responsabile dell'associazione cattolica, mentre Aziz Comparoe, 22 anni, mostra la casa dove abita. Pulito e ordinato. Eppure, sembra una goccia nel mare.
Svuotate le fabbriche che ospitavano gli immigrati, a Rosarno e nei dintorni sono spuntati dieci accampamenti: meno visibili, più degradati. Gli africani dormono in casolari diroccati, fra travi inclinate, lamiere, fornelli a gas, teloni di plastica per fermare pioggia e calcinacci, miasmi e filmi che bruciano gli occhi e l'anima. Giacigli per terra, appoggiati su legni, cigolanti su sgangherate reti. Né acqua, né elettricità, né gabinetti. Una bomba igienico-sanitaria che può rendere micidiali comuni malattie «Per Marcus è stato così. Stroncato dalla polmonite. All'età di 36 anni» sottolinea Pugliese. E aggiunge: «Purtroppo, non è l'unico caso censito».
Con Saikon e Konade, anche Sang Batch Correa, campione di pugilato, sopravvive in condizioni indescrivibili. «Se solo ci fosse più cooperazione» ragiona il 41 enne in quella che definisce una «crazy home», la sua folle sistemazione. L'ingresso celato da una tenda, tra fango e rifiuti. Si sta seduti su un materasso stretto tra altri 11. Spazi indistricabilì. Alla luce di una candela, non si distinguono le facce, solo le ombre.
E Sang, in inglese, ripercorre le tappe che l'hanno riportato nell'anonimo paese sotto il tacco della 'ndrangheta. Perché a Rosamo tutto appare sospeso, non solo le vite interrotte degli emigranti. L'ospedale, per esempio. Posa della prima pietra nel 1966, lavori da completare in 24 mesi, proseguiti per 24 anni: mai aperto. Ancora, le fabbriche dismesse. E le palazzine lasciate a metà. Mattoni e pilastri a vista, troppe incompiute. Anche in via Nazionale, la strada che attraversa gli anni senza mutazioni, fino a diventare il simbolo del comune diviso in due. In bianco e nero. Tra desideri che danno forma al paese, oppure riescono a cancellarlo.   


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