Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

13 marzo 2014

Sui Cie non si deve abbassare la guardia
l'Unità, 13-03-2014
Italia-razzismo
È stata approvata un paio di settimane fa, dal consiglio comunale di Roma, la mozione che propone la chiusura del Centro di identificazione e di espulsione di Ponte Galeria. Si tratta di un'azione che riprende quella del Consiglio comunale di Torino che aveva approvato una mozione simile con la quale impegnava «il sindaco e la giunta comunale a chiedere ufficialmente al Governo di chiudere nel più breve tempo possibile il Cie di Corso Brunelleschi». La stessa proposta è stata presentata da Marta Bonafoni, consigliera regionale del Lazio, che auspica che la discussione avvenga il prima possibile.
Non si sa che esito avranno tali mozioni ma sicuramente rappresentano un altro tentativo, l’ennesimo, di far passare il messaggio che i Cie ormai hanno dimostrato la loro inefficienza. A dimostrazione di ciò, basta citare un dato, reso noto di recente dal Rapporto di Medici per i Diritti Umani: ovvero che appena il 47% delle persone trattenute nei Cie nel 2013 sono state rimpatriate. Ciò equivale allo 0,9% del totale delle persone straniere irregolari presenti in Italia. Attualmente i trattenuti sono circa 450 a fronte di costi davvero ingenti. E a rendere tutto ciò ancora più grave è la condizione di precarietà in cui vivono le persone lì dentro. Il Cie è un carcere che non è un carcere, un orribile non luogo, immerso nel non tempo: una sorta di oscena e feroce matrioska, dove una gabbia contiene un' altra gabbia al cui interno si trova una successione di gabbie, cancelli, serrature. Il risultato è uno solo: si tratta di «strutture sempre più inutili e afflittive».
Da una settimana, inoltre, è online la petizione promossa da change.org in cui vengono proposti quattro motivi per il superamento del sistema dei Cie. La chiusura di questi posti è, tutt'oggi, lontana e pare sia molto difficile che ci si possa arrivare con un atto normativo. Intanto, però, otto di essi sono già stati chiusi a causa delle precarie condizioni in cui versavano, e non tutti verranno riaperti.
È importante, quindi, che azioni come quella dei consigli comunali di Torino e di Roma continuino ad essere portate avanti, anche se la loro valenza rimarrà solo simbolica.
Lo stesso vale per le iniziative di concessione della cittadinanza a chi è nato e cresciuto in Italia portate avanti da molte amministrazioni comunali.
Si tratta di cittadinanza onoraria che ha un doppio significato: riconoscere che la cittadinanza non è solo una procedura burocratica in cui l unico criterio valido è quello della permanenza regolare ininterrotta dalla nascita alla richiesta; dimostrare che l attuale normativa che regola la materia, la 91 del 1992 è da riformare. Essa, infatti, esclude dal riconoscimento della cittadinanza numerose persone che in Italia sono nate e cresciute e che si sentono più vicine alla cultura italiana che a quella di origine.



Cupola e minareto: il progetto da dieci milioni di euro per la moschea di Milano
Palazzo Marino valuta il piano per l'edificio previsto su un'area di 4mila metri quadrati. La somma necessaria per realizzarlo sarà raccolta fra centomila fedeli. Ci sarà anche una zona aperta al pubblico
la Repubblica, 13-03-2014
ZITA DAZZI
C'era una volta il Palasharp. E lì, a Lampugnano, dove un tempo si tenevano i concerti rock, forse un giorno ci sarà una grande moschea. Annunciata da anni e sempre più urgente in vista di Expo 2015 e dei milioni di visitatori dai Paesi arabi. Nel progetto presentato due mesi fa al Comune di Milano dal Coordinamento delle associazioni islamiche milanesi, la nuova moschea è rappresentata come un luogo di culto tradizionale, con tutti i crismi. Cupola e minareto compresi. Anche se, su questo aspetto, gli stessi musulmani sanno che ci sarà da trattare. E a lungo.
«Per dirsi tale, una moschea deve avere gli aspetti architettonici tipici, cioè la cupola e il minareto. Difficile immaginarla senza. Ma sappiamo che su questo aspetto potrebbero esserci problemi. Stiamo trattando con l’amministrazione sui dettagli e sulle linee generali: siamo ancora in una fase preliminare della progettazione», ammette Davide Piccardo, coordinatore del Caim, cui fa riferimento gran parte del mondo musulmano di Milano e Brianza. Il tutto mentre lo stesso Caim ha lanciato su YouTube una campagna pubblicitaria in cui giovani musulmani di Milano invocano la moschea come «un diritto».
Da mesi Piccardo ha presentato il piano di massima del nuovo luogo di culto, per un’area di 4mila metri quadrati, con ampie zone verdi. Lo stabile — progettato da uno studio di architettura milanese — sarà diviso in due parti. La prima dedicata strettamente alla preghiera, con tappeti per la preghiera rivolta alla Mecca, vaschette per le abluzioni, scarpiere e grandi lampadari tipici a gocce di cristallo; una seconda, invece, aperta al pubblico anche fuori dagli orari di preghiera, con biblioteca, teatro, sala conferenze, zona bar ristorante, e un vasto cortile porticato, fresco e concepito per favorire la meditazione.
Il costo? Fra i 5 e i 10 milioni di euro, di cui nemmeno un centesimo proveniente dalle casse pubbliche. «I 100mila fedeli milanesi si tasseranno per contribuire alla realizzazione del progetto. La comunità è pronta a far fronte alle spese — dice Piccardo — e poi abbiamo già fatto una ricognizione per trovare finanziatori privati, in Italia e all’estero. Al Comune chiediamo solo un’area edificabile, disposti a far fronte a tutti i costi». La presentazione ufficiale con tutti i dettagli e i rendering del progetto alla città è fissata per il 18 aprile. «Abbiamo mantenuto l’impegno con il Comune a non svelare le carte prima del tempo, ma ora i tempi stringono e se si vuole arrivare in tempo per Expo bisogna chiudere la trattativa. Il momento di decidere è ora, non si può più aspettare».
Piccardo parla con molta sicurezza, a nome di una trentina di associazioni e come esponente di quelle seconde generazioni degli immigrati che rivendicano un ruolo di interlocutori verso la pubblica amministrazione. Fra i dirigenti del Caim ci sono diversi giovani islamici candidati alle elezioni in varie liste di centrosinistra o collaboratori del Comune — anche nell’ufficio messo a disposizione delle G2 dall’assessore al Welfare, Pierfrancesco Majorino — come la portavoce Rassmea Salah, la scrittrice Sumaya Abdel Quader e l’avvocato civilista Reas Syed.
Manca invece al Caim l’adesione della Casa della cultura islamica di via Padova 144, storica associazione nota per l’atteggiamento dialogante verso istituzioni pubbliche e religiose. Nel coordinamento infatti c’è la moschea di Cascina Gobba, con cui via Padova 144 è in lite legale ed economica da anni. Ed è un’assenza pesante quella di Asfa Mahmoud, portavoce della Casa della Cultura, in questa trattativa con il Comune.
«Non facciamo parte del Caim, non siamo nemmeno stati avvisati della campagna pubblicitaria. Noi siamo in buoni rapporti con la giunta di Giuliano Pisapia, ma il Comune deve scegliere se vuole parlare con noi o con altri interlocutori. Io da dieci anni lotto per convincere il Comune a dire chiaramente quale strada prendere. Servirebbe una consulta cittadina per ascoltare tutte le voci. Siamo rimasti delusi da tutte le amministrazioni precedenti, che non ci hanno mai dato veramente ascolto. Ma anche oggi c’è molto da fare per risolvere i problemi aperti».



Braccianti stagionali, per Rosarno e Gioia Tauro è di nuovo emergenza
L’appello di Medu: indispensabile un intervento immediato di governo e regione Calabria. Oltre 150 braccianti soccorsi da Medu in un mese. Il 70% ha regolare permesso di soggiorno. L’89% lavora in nero, in molti casi fino a 10 ore al giorno
Redattore sociale, 12-03-2014
ROMA - Disastrose. E’ questo l’aggettivo più adatto a descrivere  le condizioni abitative, igienico-sanitarie e lavorative delle migliaia di migranti che ogni anno giungono nella Piana di Gioia Tauro per la stagione della raccolta degli agrumi. E nulla sembra migliorare. E' quanto emerge dall'indagine socio-sanitaria realizzata da Medu (Medici per i diritti umani), nell'ambito del progetto "Terra giusta". Nelle baraccopoli e nei casolari abbandonati dei comuni di Rosarno, San Ferdinando, Rizziconi e Taurianova, la clinica mobile dell'associazione, in un solo mese, ha dovuto prestare assistenza ad oltre 150 braccianti, vittime della mancanza dei servizi fondamentali.
In occasione della stagione agrumicola (che interessa annualmente il periodo novembre – marzo), giungono ogni anno nella Piana di Gioia Tauro oltre 2.000 braccianti, per la maggior parte sub-sahariani. Nonostante nei territori dei comuni di Rosarno, San Ferdinando, Gioia Tauro, Rizziconi e Taurianova il fenomeno si ripeta ormai da anni con le medesime caratteristiche, le condizioni di lavoro e di accoglienza di questi migranti - sulle cui spalle si regge letteralmente gran parte del comparto agricolo della Piana - continuano ad essere devastanti. Poco o nulla sembra essere cambiato rispetto alle condizioni materiali e ambientali che costituirono l’humus dei drammatici fatti di Rosarno del 2010.
I dati di un dramma. I braccianti della Piana sono per lo più di giovani uomini – l’80% ha un’età inferiore ai 35 anni - provenienti nella maggior parte dei casi da Burkina Faso, Mali, Ghana, Costa d’Avorio e Senegal. In oltre il 70% dei casi i pazienti possedevano un regolare permesso di soggiorno e quasi la metà (45%) era titolare di un permesso per protezione internazionale o per motivi umanitari. Il 95% di essi è in Italia da oltre due anni mentre il 68% ha una conoscenza sufficiente o buona della lingua italiana. L’89 % lavora in nero e il 64% percepisce in media 25 euro per un giorno di lavoro o anche meno. Quasi la metà dei migranti (46%) non riesce a lavorare più di tre giorni alla settimana per turni che sono in genere di 7-8 ore giornaliere anche se un lavoratore su quattro ha dichiarato di lavorare anche 9-10 ore al giorno. Un terzo dei migranti visitati dai medici di Medu riesce a consumare solo due pasti al giorno mentre la maggior parte delle malattie diagnosticate, in una popolazione giovane e sostanzialmente sana, è legata alle pessime condizioni abitative ed igienico-sanitarie e alle durissime condizioni di lavoro. Tutti i migranti intervistati dispongono di guanti come presidio di sicurezza durante il lavoro mentre solo il 29% fa anche uso di scarpe anti-infortunistiche. Nel 97% dei casi i braccianti devono acquistare per proprio conto i presidi di sicurezza poiché questi non vengono forniti dai datori di lavoro. (Francesco Sabbatucci)



Razzismo. Chaouki: "Facebook deve reagire e censurarlo davvero"
Il deputato del Pd: “Il social network si prenda le sue responsabilità, non può essere uno sfogatoio di bassi istinti. Si confronti con politica, polizia e associazioni. Bisogna affermare il principio che il razzismo non è più tollerabile”
stranieriinitalia.it, 13-03-2014
Elvio Pasca

Roma – 13 marzo 2014 - Facebook non può far finta di niente di fronte al razzismo di cui è zeppo. Deve contribuire a debellarlo prendendosi le sue responsabilità, dandosi regole chiare e confrontandosi con la polizia, la politica e le associazioni che combattono i predicatori d’odio.
Ne è convinto Khalid Chaouki, deputato del Pd figlio di immigrati marocchini.  Lui conosce bene i razzisti che affollano il social network, dei quali è vittima quotidianamente: ci sono quelli che creano pagine dove lo paragonano a un cammello, e quelli che riempiono di insulti la sua attivissima pagina Facebook.
“Da più di un anno – racconta a Stranieriinitalia.it - ho avuto a che fare con gruppetti razzisti che, in maniera più o meno organizzata, scrivono sulla mia pagina, creano gruppi dedicati e commentano con insulti e frasi razziste i miei post. In generale cerchiamo di dare spazio a tutte le opinioni, nel caso di frasi razziste che contengono volgarità provvediamo ad eliminarle. Il problema è che questa opera di selezione sembra essere diventata pressoché impossibile per l'attacco continuo e quotidiano”.
Può Facebook essere uno spazio senza regole? O di regole solo in teoria? Una sorta si spazio sovranazionale dove le leggi nazionali contro il razzismo non valgono?
“No, credo che proprio in questo ultimo anno tutti ci siamo resi conto che Facebook deve darsi delle regole, e queste regole devono essere chiare. Sono stati molti i gruppi razzisti nati contro l’ex ministra Cécile Kyenge, contro la presidente della Camera Laura Boldrini, e anche contro il sottoscritto. Tra l’altro questo tipo di razzismo è particolarmente odioso perché gli xenofobi si nascondono dietro un pc e usano nickname che non consentono di risalire alla loro identità. Il “Signor Facebook” dovrebbe reagire”.
Può valere come alibi il fatto che ci sono così tanti iscritti e che comunque i contenuti sono generati da loro, non da Facebook?
“No, mi sembra appunto solo un alibi. È la piattaforma Facebook che deve regolamentare gli utenti e quindi, se necessario, censurare violenze e razzismi. Altrimenti i social network rischiano, in taluni casi, degenerare in uno ‘sfogatoio’ degli istinti più bassi”.
L’Italia può  chiedere a Facebook di intervenire con più efficacia, di darsi strumenti migliori?
“L’Italia dovrebbe senz’altro chiedere più controllo e anche maggiore attenzione a Facebook: molte volte le frasi segnalate non sono poi rimosse e molti gruppi razzisti continuano ad esistere nonostante le segnalazioni”.
Che armi ha la politica?
“La politica dovrebbe, per iniziare, aprire un serio dibattito sulla questione della libertà e della responsabilità sui social network, un confronto che deve coinvolgere in primis i gestori del maggiore portale, le autorità della Polizia Postale e le associazioni attive su questi temi. Bisogna affermare il principio che il razzismo non è più tollerabile nel web, sostenere il lavoro delle autorità di polizia e promuovere campagne di sensibilizzazione online”.
Quando si chiede di bloccare i contenuti razzisti, i razzisti lamentano che stanno esercitando la libertà di espressione… Non si rischia di passare per censori?
“Ci sono anche dei limiti alla libertà di espressione, ed emergono quando le dichiarazioni di uno infangano, offendono e ingiuriano l’altro. Tutto il resto è libertà di espressione e va sempre difeso, a maggior ragione quando non combacia con le proprie idee”.
Che ruolo possono avere gli altri utenti di facebook in questa lotta?
“Intanto sarebbe importante segnalare i razzisti. Facebook e gli altri social network rappresentano una grande possibilità di scambio e di comunicazione, gli utenti dovrebbero capire questa enorme potenzialità e interagire nel rispetto delle regole”.
Gli strumenti esistenti per la lotta al razzismo online bastano o ne servono altri? Sono anni che si invocano invano nuove norme contro i razzismo online
“Io credo che, innanzitutto, vada fatto un grande lavoro culturale, di sensibilizzazione, perché la discriminazione può essere eclatante e volgare – come vediamo sui social network – ma anche più sottile e non per questo meno insidiosa. La nostra è una società plurale, multiculturale, attraversata però da molte tensioni e questo perché, spesso, le leggi sono più indietro della società. Prendiamo per esempio la legge sulla cittadinanza.  La nostra è un’Italia che è già cambiata, sotto tanti punti di vista, il nostro obiettivo è sollecitare il Parlamento a stare al passo con questa Italia”.
Credibile che si muova un parlamento dove i leghisti paragonano Cécile kyenge a un orango o chiedono a Chaouki di "tornarsene tra chi sgozza gli infedeli!"?
“Il Parlamento è – nel bene e nel male – lo specchio del Paese. Secondo me sono i leghisti a non essere più credibili, e certamente noi non siamo più disposti a tollerare la loro retorica razzista. Ma il nord si sta accorgendo dell’enorme vuoto che c’è dietro le loro urla, e io credo che le loro invettive contro di me o la collega Cécile non troveranno più terreno così fertile come nel passato”.



Napoli, rom in fuga dopo assalto alle baracche
l'Unità, 13-03-2014
Felice Diotallevi
Un tentativo di violenza sessuale ad una sedicenne, avvicinata ieri sera da due nomadi rom nel quartiere di Poggioreale a Napoli, ha innescato la dura protesta dei parenti della ragazza e di residenti, che hanno attaccato con pietre e petardi l'insediamento di nomadi Rom di via del Riposo. L’altro ieri, poco prima delle 21, la ragazzina è stata bloccata e palpeggiata dai due Rom prima di riuscire a divincolarsi e fuggire a casa, dove ha raccontato tutto ai familiari. Questi ultimi hanno sporto denuncia, ma due cugini ventenni della ragazza si sono andati al campo Rom per regolare i conti. Qui, però, hanno avuto la peggio, riportando lievi ferite (5 e 7 giorni di prognosi), medicate in ospedale.
Ma subito dopo ai parenti della ragazza si sono uniti alcune decine di residenti, almeno una cinquantina, che hanno avviato una sassaiola contro l'insediamento Rom. Polizia e carabinieri, giunti di rinforzo, hanno evitato il peggio. Ma ieri mattina l’assedio al campo Rom è ripreso, come il lancio di petardi, ed un blocco stradale di protesta contro la presenza dei nomadi di origine rumena, che da oltre quattro anni, si sono stabiliti a Poggioreale. Nella notte un nomade Rom sarebbe stato aggredito per rappresaglia, riferiscono alcuni di loro. Poi, impauriti dai petardi che continuano ad esplodere, hanno cominciato a riempire auto e furgoni di masserizie e a lasciare l'insediamento. Sul posto, per cercare di calmare gli animi il presidente della IV Municipalità, Armando Coppola. «Finora i residenti hanno subito furti e gesti osceni dei nomadi, che hanno l'abitudine di urinare per strada, ma il tentativo di violenza ha fatto scattare la reazione violenta», dice ai giornalisti. Arriva anche l' ex missionario comboniano Alex Zanotelli, animatore della protesta sociale, che parla di "Pogrom" contro i Rom ed accusa il Comune di Napoli di fare vincere «la legge del più forte». «Nessuno di loro è qui per difenderli ed ho cercato inutilmente di contattarli da questa mattina». «Rispetto la storia di Zanotelli e le associazioni - replica l' assessore alle politiche sociali, Roberta Gaeta -ma ci vuole moderazione e collaborazione e dobbiamo poter parlare con i Rom anche direttamente, senza l' intermediazione delle associazioni, per le soluzioni alle quali lavoriamo, insieme ad altre istituzioni». Sono circa quattromila - secondo stime - i nomadi Rom a Napoli, accampati nei quartieri di Secondigliano, Soccavo e Poggioreale. Il Comune ha emesso il 29 gennaio un'ordinanza sindacale che prevede lo sgombero dell' area di S. Maria del Riposo, non ancora attuata.
L’episodio riporta alla mente i fatti della primavera 2008, quando a Ponticelli scoppiò una rivolta popolare per un presunto rapimento di una bambina da parte di una donna del campo Rom. Accadde il 12 maggio e fu Flora Martinelli, 27 anni, a denunciare il tentativo di rapimento della sua piccola di appena sei mesi da parte di una nomade che si era introdotta in casa sua, nel rione controllato all’epoca dal clan della famiglia Sarno. Qualche quotidiano riportò anche la notizia del pizzo che i Rom avrebbero pagato alla camorra per poter stare in quella zona. Dopo le accuse della signora Martinelli nel quartiere si scatenò una specie di caccia al Rom, con assalti alle roulotte a colpi di molotov e spranghe.
Il campo fu messo a ferro e fuoco e i nomadi furono costretti ad abbandonare le loro cose. Solo qualche tempo dopo venne fuori che il tentativo di rapimento era stata una bufala e che quindi i Rom avevano subito una caccia alle streghe ingiustificata, con momenti di alta tensione tra gli abitanti del quartiere e l’insediamento che constrinsero la polizia ad intervenire. Il clima fu surriscaldato ancora di più da alcuni esponenti politici che soffiavano sul fuoco dell’intolleranza. «Il sindaco deve ordinare lo sgombero di tutti i campi nomadi», disse Raffaele Ambrosino, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale, seguito da Fabio Chiosi, coordinatore cittadino di An che ha annunciato: «Il tempo delle mezze misure deve terminare».



“Italiani di fatto ma non di diritto”: in un film le paure delle seconde generazioni
Si intitola “Il futuro è troppo grande” la pellicola di Giusy Bucchieri e Michele Citoni, che racconta i problemi e le angosce dei cosiddetti nuovi italiani. Protagonisti sono due ragazzi: Re e Zhanxing. L’anteprima il 13 marzo a Roma
Redattore sociale, 12-03-2014
ROMA –  Che cosa significa nascere e crescere in un paese che continua a considerarti “straniero in patria”? Cosa vuol dire, nella vita di tutti i giorni, essere cittadini di fatto ma non di diritto? A raccontarlo attraverso le quotidianità di Re e Zhanxing, è il “Futuro è troppo grande” un film di Giusy Bucchieri e Michele Citoni., che sarà presentato in anteprima a Roma, il prossimo 13 marzo. Protagonisti sono due ragazzi di seconda generazione, figli di genitori stranieri, ma da sempre vissuti in Italia: Re, di famiglia filippina e Zhanxing, di famiglia cinese.
 Tra ritratto e vivido autoracconto, gli autori ci portano nella vita dei due ragazzi che si dividono tra lo studio, il lavoro, la famiglia e l’amore. Re, vive con i genitori e la sorella, è fidanzato, frequenta l’università e lavora. Insegnante di danza,  spera di trovare nell’arte la propria realizzazione. Ma se nel suo personaggio troviamo il racconto di un’Italia multietnica, dove le culture si incontrano e convivono ormai di fatto, è con Zhanxing, che si apre il fronte più politico della narrazione: attivista da sempre per il riconoscimento dei diritti della rete G2, nella pellicola racconta quali sono gli ostacoli con cui deve confrontarsi a causa di una legge che ancora oggi non le permette di essere italiana a tutti gli effetti. “Negli ultimi mesi sto sviluppando un' insofferenza per l'Italia, non riesco più a vivere in un posto dove mi sento continuamente un bersaglio – afferma -. Desidero vivamente essere solo me stessa, senza dover rappresentare una comunità intera ,un gruppo o una generazione”. Laureata, Zhanxing vive sola, ed è in cerca di una chiara definizione di sé, proverà a trovarla viaggiando lontano verso le proprie origini. Intanto per ora, l’Italia non le ha ancora concesso la cittadinanza.
La storia dei due protagonisti è stata seguita dagli autori per due anni e mezzo. “Abbiamo iniziato interrogandoci sulle seconde generazioni – racconta Giusy Bucchieri -. In passato entrambi avevamo lavorato sull’emigrazione italiana, e ora volevamo raccontare l’altra faccia della medaglia. L’Itali di oggi, dove convivono sempre più culture. Quindi abbiamo iniziato a seguire gli incontri sul tema delle associazioni che si occupano di seconda generazione, dalla rete G2 a Roma Multietnica, finché non ci siamo registicamente innamorati dei due protagonisti”. E così il film viaggia su due filoni paralleli: quello dell’impegno politico, con la denuncia della mancanza di diritti effettivi per i cosiddetti nuovi italiani, e quello del racconto di vita di due giovani, poco più che adolescenti, che vivono le paure, le angosce di un’Italia nel pieno della crisi. “Abbiamo scelto di raccontarli nel quotidiano, sono italiani a tutti gli effetti ma immersi nelle comunità di origine. - continua Buccheri - E vivono con la paura del futuro che è la stessa dei loro coetanei”.Ill titolo del film è preso in prestito proprio da una battuta di Re, che vede il  futuro davanti a sé difficile e quindi troppo grande.
La realizzazione del film è stata possibile grazie anche al crowfunding, sono stati 254 i produttori dal basso che hanno donato una quota da agosto a gennaio, per permetterne l’uscita nelle sale. E anche la distribuzione sarà di “tipo civile”, spiega Bucchieri: “sappiamo che non avremo mai un distributore ufficiale, quindi siamo pronti a diffonderlo attraverso le associazioni e tutti coloro che ne faranno richiesta”. L’anteprima del film si svolgerà il 13 marzo a Roma al cinema L’Aquila. A maggio la pellicola parteciperà al festival del cinema africano di Milano. (ec) 

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