Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

04 gennaio 2011

Procedure impossibili per scoraggiare chi vorrebbe integrarsi
l'Unità, 04-01-2011
Italia-razzismo
È stato pubblicato il decreto flussi 2010-2011 e il 31 gennaio ci sarà il primo “click day” tra i tre previsti. (Si noti: chi non possa accedere a un collegamento internet rimane definitivamente escluso) 98.080 assunzioni così ripartite: 52.080 posti per lavoratori provenienti da paesi che hanno firmato con l'Italia accordi di cooperazione in materia di immigrazione e senza alcuna restrizione sul tipo di attività lavorativa da svolgere; 30.000 posti destinati all'assunzione di colf e badanti non provenienti dai paesi del primo gruppo; 16.000 per richieste di conversione e per ingressi particolari. Che dire? Palesemente, siamo in presenza di un flusso di dimensioni ben al di sotto delle esigenze del nostro sistema economico, tanto più che gli ultimi ingressi risalgono al 2008. E così evidente risulta lo scarto tra fabbisogno di manodopera ed entità dei flussi che si sono aggiunti 30mila ingressi riservati esclusivamente a quelle figure professionali (colf e badanti) che appaiono, per un verso, “più indispensabili” e, per l'altro verso, meno concorrenziali con la manodopera nazionale. D'altra parte, restano le due fondamentali incongruenze di questo tipo di politica: l'abbandono alla irregolarità di decine e decine di migliaia di lavoratori, esclusi dalla sanatoria del 2009 limitata al solo lavoro domestico; e il fatto che per quanti, tra questi ultimi, oggi irregolari, volessero rientrare nei flussi, sarebbe necessario tornare nel paese di origine e, da qui, ottenere il nulla osta per l'ingresso in Italia. Insomma, come sempre, le procedure relative all'immigrazione si confermano come sistemi macchinosi e pesanti, sempre tesi a scoraggiare e a demotivare, piuttosto che a favorire lineari processi di integrazione.



Moschea a Torino? «Sì, nel rispetto della legge»

Avvenire, 04-01-2011
TORINO - La Lega Nord picchia i pugni sul tavolo, dice «no» e attacca il sindaco Sergio Chiamparino, reo secondo il Carroccio di essere uno dei grandi "sponsor" assieme alla sua maggioranza del progetto (approvato lo scorso 31 dicembre) di costruzione, a Torino, di una grande moschea. Per la Lega Nord Chiamparino «offende i suoi con-cittadini». Ma il primo cittadino del capoluogo piemontese non ci sta a farsi "processare". «La nuova moschea è una battaglia di civiltà», ha replicato agli attacchi nordisti Chiamparino. Ma la Lega insiste. «Se Chiamparino afferma che ciò che diciamo sono solo stupidaggini -spiegali segretario del Carroccio torinese, Stefano Allasia - offende i
suoi concittadini. Finora le poche rassicurazioni istituzionali circa la nuova moschea non ci hanno permesso di risolvere le perplessità. Ciò che è accaduto in altri Paesi dimo-stra come non sia raro che dentro le moschee si fomenti l'odio e si organizzino attacchi al mondo occidentale». E poi, dice ancora Allasia «ci chiediamo perchè uno Stato come il Marocco dovrebbe avere interesse a finanziare la costruzione della moschea torinese». Sulla vicenda è intervenuta anche la Curia torinese che, in una dichiarazione ha ribadito il «diritto fondamentale, alla libertà di espressione religiosa e di culto, che va garantito, soprattutto in un Paese come il nostro che riconosce tra i suoi principi fondamentali l'uguaglianza e la libertà di tutti i cittadini, e che deve
promuovere, anche sul piano delle scelte concrete il rispetto reciproco delle persone e la tolleranza delle idee». Inoltre in questa vicenda, spiega ancora la Chiesa di Torino, potrebbe ingenerare confusione il fatto di insistere con il termine moschea. Sarebbe più corretto parlare «di sala di preghiera in quanto non è previsto il minareto, e questa è una scelta opportuna e condivisibile». Fondamentale poi il ruolo che spetta alle autorità civili. «Hanno il diritto e il dovere - continua il comunicato della Curia - di stabilire le modalità e le condizioni con cui attuare i principi di libertà religiosa di cui si è detto sopra. E che hanno, anche, il dovere di far rispettare tutte le "regole" di una presenza religiosa nel territorio. È opportuno, dunque, che si proceda con gradualità, senza accelerazioni che rischiano di creare paure o tensioni. Un'attenzione particolarmente importante - annota la Curia torinese - in un caso come questo, in cui si tratta di una struttura molto ampia che può accogliere un gran numero di persone». Da qui la necessità di «una specifica vigilanza affinché le attività che si svolgono in un luogo pubblico di preghiera siano pienamente rispondenti alla legislazione vigente nel nostro Paese per quanto attiene all'esercizio del culto, e all'ordine pubblico, regole che valgono per tutte le Chiese o comunità religiose». Infine, è la raccomandazione della Chiesa torinese «occorre un'azione formativa e culturale, che aiuti tutti i cittadini ad entrare nella mentalità del rispetto comune delle regole e nell'accoglienza reciproca».



SE LA MOSCHEA È UN ANTIDOTO CONTRO I FANATISMI

L'INTOLLERANZA LEGHISTA A TORINO
l'Unità, 04-01-2011
Marco Pacciotti FORUM IMMIGRAZIONE PD
Vedere le immagini dei corpi straziati dalla esplosione dei fedeli copti in Egitto, mi ha ricordato scene simili viste in altre Paesi ma davanti a moschee, sempre per opera di criminali esaltati in nome di un credo tutto loro, asservito spesso a ragioni politiche e che nulla ha a che fare con la religione di cui si credono alfieri. In questi atti di terrorismo a morire sono sempre gli innocenti, cristiani, ebrei o musulmani, e l'obiettivo reale da colpire è sempre lo stesso: la convivenza. Per questo è utile ricordare come la lotta al terrorismo si fa costruendo convivenza e alimentando il dialogo e il confronto, anziché le divisioni e l'odio. Sembra banale a dirsi, ma oggi va ribadito più che mai. Lo dico con preoccupazione verso una forza dell'attuale governo, la Lega, la quale per motivi elettoralistici sta alimentando l'ennesima becera campagna anti moschea a Torino, contro la decisione coraggiosa e lungimirante del sindaco e della sua giunta di autorizzare la costruzione di un luogo di preghiera dignitoso per quelle migliaia di cittadini di fede musulmana che vivono, lavorano e prosperano in quella città, contribuendo con la loro operosità al benessere della collettività.
Un segno di civiltà che coglie una realtà sociale mutata, che pone nuovi interrogativi a chi governa un Paese o a chi amministra una città, con l'obiettivo di dare risposte adeguate a costruire una convivenza civile fondata sul reciproco rispetto e sulla comune osservanza delle leggi. Per questo motivo preoccupa l'atteggiamento della Lega. L'esigenza, infatti, di avere un luogo di culto adeguato e decoroso dove poter praticare quella libertà religiosa esplicitamente riconosciuta e tutelata dalla nostra Costituzione, dovrebbe essere un impulso per le forze politiche a trovare una risposta positiva, anziché l'ennesima occasione per alimentare diffidenze, paure e divisioni. Basterebbe ricordare che a Roma, faro del cristianità e sede del soglio pontificio, si trova la più grande moschea d'Europa frequentata da una folta e variegata comunità di fedeli, che da oltre venti anni vi prega senza che mai abbiano rappresentato ragione di scontro o tensione con i residenti dei quartieri circostanti, che pur diffidenti all'inizio hanno poi accettato questa realtà. Ormai è parte del panorama urbano di Roma Nord e luogo di visita per migliaia di visitatori.
Dire sì oggi alla moschea di Torino, significa quindi ribadire in concreto quali siano i diritti di cittadinanza e rafforzare il senso di appartenenza piena alla comunità dove si vive. L'antidoto migliore contro ogni fanatismo religioso, un modello di sviluppo che garantisce coesione sociale e quindi vera sicurezza, non quella declamata a ridosso delle elezioni o rappresentata grottescamente dalle "famose" ronde.?



LA BATTAGLIA DELLA LEGA CONTRO LA MOSCHEA DI TORINO

RENZO GUOLO
la Repubblica, 04-01-2011
Vista da fuori, dalla realtà europea, la polemica su moschee e terrorismo cavalcata dalla Lega, ultimo caso Torino, mostra tutta l'arretratezza del dibattito italiano, ancora imperniato sul libero eserciziodel diritto di culto, che fa dell'islam una religione "speciale". Nel Belpaese si discute ancora se i musulmani possano avere una moschea, fingendo di non vedere quali sono i problemi reali. Torniamo sotto la Mole: il progettato luogo di culto di via Urbino, nasce per volontà dell'Unione musulmani in ltalia, attore dell'islam organizzato, l'associazionismo musulmano, che raggruppa fedeli su base nazionale. Ma il Carroccio grida che nessuno può garantire che diventi covo di qualche cellula terrorista, spingendo sull'equazione Alessandria (d'Egitto) =Torino.
E' chiaramente una posizione strumentale, agitata tanto più in prossimità di imminenti scadenze elettorali, comunali e, forse, nazionali. La Lega esprime il ministro dell'Interno e, come è noto, oltre ai sociologi che se ne occupano, solo gli apparati di sicurezza sanno quanto accade nella Mezzaluna di casa nostra... Non può, dunque, sfuggire al Carroccio che il centro torinese nasce da una scissione dell'Ucoii, organizzazione ritenuta dalle forze di maggioranza rappresentativa sul territorio ma politicamente non affidabile per il suoi legami transnazionali con leadership di filiera Fratelli Musulmani.
La Lega, infatti, non può ignorare che a pagare i lavori del nuovo edificio è il governo del Marocco, che in tal modo allarga il suo controllo sull'islam sabaudo. La scissione torinese nasce proprio su motivazioni di politica internazionale, sull'atteggiamento da tenere nei confronti dei governi dei paesi arabi, dalla preferenza per un islam che si aggreghi secondo linee etniche e nazionali anziché transnazionali come vorrebbe l'islamista neotradizionalista Ucoii.
Dunque una simile operazione non può non avvenire, per le implicazioni sul piano delle relazioni internazionali e dei rapporti tra burocrazi e della sicurezza, senza che vi sia, almeno, una tacita intesa tra Roma e Rabat.
Eppure il partito del ministro dell'Interno grida allo scandalo!
E' evidente il tasso di propaganda che alligna in questa polemica ma anche —fuori dalla ristretta cerchia degli addetti dei lavori—la mancata conoscenza dei riflessi e delle implicazioni che derivano da questa scelta. Se la moschea, tanto più ufficiale tanto più trasparente, colma un vuoto, è anche vero che, non l'ente locale, ma il governo stesso dovrebbe specificare qual è la sua linea in materia.
La rinuncia a costruire un islam italiano in nome del pegno da pagare al Carroccio, fondata sulla rinuncia a quella progressiva  cittadinizzazione degli immigrati che avrebbe permesso la costruzione di un islam nazionale capace di lealtà politica, ha dei prezzi. In
tal modo si preferisce affidare a stati stranieri il controllo politico e religioso delle comunità islamiche presenti in Italia. Con tutte le implicazioni sul piano della politica estera: il Marocco a Torino replica così l'operazione, in altro contesto ed epoca, della Tunisia in Sicilia, in particolare a Mazara del Vallo.
Nella discussione, pur importantissima sulla tutela della libertà di culto e sul terrorismo, è tempo di affrontare una questione molto rilevante: che tipo di islam, dal punto di vista degli attori politici e religiosi organizzati, si sta costruendo in Italia? Su tutto questo, il silenzio è naturalmente assoluto mentre si continuano ad alzare alte grida e discutere di minareti.



L'Italia? Non è un Paese per rifugiati Solo carte e timbri, eppure la Costituzione...

L'odissea dei 140 somali accampati nell'ex ambasciata di via dei Villini a Roma svela le profonde carenze di un sistema di accoglienza, che provoca il crollo delle domande di protezione non solo per il taglio indiscriminato ai finanziamenti, ma soprattutto per la mancanza di una legge organica sull'asilo politico capace di essere coerente con i principi della Carta Costituzionale
la Repubblica, 04-01-2011
VLADIMIRO POLCHI
L'Italia? Non è un Paese per rifugiati Solo carte e timbri, eppure la Costituzione...
ROMA - L'Italia è sempre meno un Paese per rifugiati. L'odissea dei 140 somali, accampati da anni nell'ex ambasciata di via dei Villini a Roma, denuncia le carenze di un sistema di accoglienza, che comincia a scricchiolare: crollo delle domande di protezione, taglio ai finanziamenti, mancanza di una legge organica sull'asilo.
Il diritto d'asilo. In Italia, il diritto di asilo è garantito dall'articolo 10 comma 3 della Costituzione: "Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge".
L'accoglienza. Il richiedente asilo è dunque una persona che ha presentato domanda ed è in attesa della risposta dello Stato in merito alla concessione dello status di rifugiato. "In base a una direttiva europea  -  spiega Fiorella Rathaus, responsabile integrazione del Consiglio italiano per i rifugiati (CIR)  -  lo Stato deve garantire l'assistenza e l'accoglienza ai richiedenti asilo". Qual è allora il problema? "E' che una volta concesso lo status di rifugiato (solitamente in 3/4 mesi), lo Stato italiano non ha sulla carta più alcun dovere di accoglienza verso il cittadino straniero, che deve camminare ormai con le proprie gambe".
Lo SPRAR. Ma come funziona l'accoglienza dei richiedenti asilo? Il sistema avviato in via del tutto sperimentale nel luglio del 2001 è stato istituzionalizzato dalla legge 189 del 2002, con la costituzione del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR). Le risorse vengono assegnate dal ministero dell'Interno, mentre la struttura di coordinamento del Sistema è affidata all'ANCI: l'associazione dei comuni italiani.
I numeri. Tra il 2002 e il 2009 sono stati accolti nella rete SPRAR 26.432 richiedenti e titolari di protezione internazionale, per il 74% uomini e per il 26% donne. 529 sono i bambini e le bambine che, dal 2005 al 2009, sono nati in Italia da una mamma accolta nei progetti SPRAR. I Paesi maggiormente rappresentati nel Sistema di Protezione sono Eritrea, Somalia, Afghanistan, Etiopia, Nigeria e Turchia. E' poi aumentata la presenza dei minori non accompagnati richiedenti asilo: nel 2006 gli accolti erano 31, mentre nel 2009 sono stati ben 320. Un sistema, dunque che funziona, ma non senza falle. 
Le falle: solo 3.000 posti. Lo stesso Flavio Zanonato, sindaco di Padova e vicepresidente ANCI con delega all'immigrazione, ha ricordato che "il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo oggi ha a disposizione 3.000 posti, organizzati in piccole strutture disseminate in 130 Comuni in tutta Italia. Il problema è che è sottodimensionato. Abbiamo liste d'attesa molto lunghe, circa 1.000 persone l'anno scorso non sono riuscite ad accedere al Sistema'' e quindi ai progetti d'accoglienza sul territorio 1
Il crollo delle domande. Le falle del sistema e il fatto che lo Stato italiano non ha doveri formali verso chi è stato riconosciuto oramai come rifugiato, spiegano la difficile situazione del nostro Paese. E questo, nonostante i rifugiati siano solo 55mila. A titolo di comparazione, la Germania ospita circa 580mila rifugiati, il Regno Unito 290mila, i Paesi Bassi e la Francia ne ospitano 80mila e i 160mila ciascuno. Non solo. Secondo i dati UNHCR, nel 2009 il numero delle nuove istanze di asilo presentate alle Commissioni territoriali sono state 17.603: quasi la metà in meno rispetto al 2008 (- 42,3 per cento). Un crollo dovuto agli effetti del Trattato con la Libia e dei respingimenti in mare di tutti i migranti, profughi o meno senza distinzione di sorta.
I senza tetto. Nonostante i numeri contenuti, la vita di molti rifugiati in Italia resta comunque drammatica. Secondo il CIR, solo a Roma vivono 1.500 rifugiati in condizioni abitative di drammatico degrado. Veri e propri ghetti, come quello di via Arrigo Cavaglieri (Romanina), quello di via Collatina, quello di via dei Villini, la baraccopoli di Ponte Mammolo o il binario 15 della Stazione Ostiense.
I "casi Dublino". Non è tutto: "Molti somali che si trovano accampati nell'ex ambasciata nel gergo burocratese vengono chiamati "casi Dublino" - spiega Laura Boldrini, portavoce italiano UNHCR nel suo blog su Repubblica.it 2 - Si tratta di persone che sono arrivate in Italia e qui hanno chiesto asilo ma che, non potendo sopravvivere senza alcuna assistenza e senza un lavoro, si sono successivamente spostate in altri paesi dell'Unione Europea dove hanno poi avanzato una nuova domanda, in contrasto con il Regolamento di Dublino il quale stabilisce che nei paesi dell'Ue si può richiedere asilo una sola volta e che è il primo paese europeo in cui si entra a dover vagliare la domanda". Insomma, chi è entrato in Italia, qui deve rimanere, anche senza lavoro o alloggio..
I rimedi? "Oltre alla carenza di fondi - sostiene Fiorella Rathaus del CIR - l'Italia è l'unico paese dell'Unione Europea senza una legge organica in materia di asilo, che riconosca dei diritti di assistenza anche a chi ha ottenuto lo status di rifugiato". Quanto ai somali accampati nell'ex ambasciata, "il comune e gli altri enti locali - suggeriscono al Cir - dovrebbero occuparsene come di propri concittadini e capirne le difficoltà di inserimento".



«Immigrato torna nel tuo paese», blitz notturno di Forza Nuova a Montesilvano

Prima Da Noi, 04-01-2011
MONTESILVANO. Un blitz notturno, una «pacifica propaganda» per chiedere agli immigrati che vivono in via Ariosto di lasciare l'Italia e tornare nel proprio paese.
E' l'ultima trovata del movimento di estrema destra Forza Nuova che nella notte fra ieri e oggi ha affisso per tutto il perimetro del quartiere abitato da immigrati, spesso oggetto di controlli da parte delle forze dell'ordine, 50 manifesti di piccolo taglio ed inserito all’interno dei palazzi della zona oltre 300 volantini.
«Immigrato, il tuo paese ha bisogno di te, delle tue braccia e del tuo cervello. Vattene via dall'Italia, sei ancora in tempo!» Si legge nel volantino. «Sei costretto a vivere in condizioni igieniche disumane e questo perchè in Italia gli affitti costano molto e tu guadagni poco. Non potrai avere una famiglia perchè non riusciresti a mantenere i tuoi figli o garantire loro un'educazione civile e senza traumi. Quando ti ammali», si legge ancora, «ti accorgi che nessuno si occupa di te e che la sanità in Italia funziona solo se puoi pagare. Avverti i tuoi connazionali del pericolo che corrono. Non lasciare che paghino somme enormi per dei viaggi interminabili e spesso mortali».
E gli esponenti di Fn durante il blitz notturno si sono anche filmati e hanno poi caricato le proprie gesta su You Tube, il sito di condivisione dei video. Le immagini raccontano il momento delle affissioni abusive: i due ragazzi che attaccano i manifesti hanno il volto coperto e sono completamente vestiti di nero.
«La nostra è una pacifica propaganda di persuasione», spiega il segretario provinciale Marco Forconi, «attuata nei confronti delle centinaia di immigrati, originari soprattutto dell’Africa, affinché lascino il nostro Paese a causa della strisciante e quasi irreversibile crisi economica ed occupazionale italiana».
«Un’immigrazione», continua Forconi, «trasformatasi in invasione nel corso di questi ultimi anni, presa colpevolmente sotto gamba sia dalle istituzioni che dalla politica, di destra e di sinistra, e che rischia di degenerare in bombe etniche dagli effetti esponenzialmente devastanti e contagiosi».
L’unico modo per arginare «i micidiali flussi migratori» secondo Forza Nuova è cercare di convincere gli immigrati a lasciare il suolo nazionale «attraverso leggi 'ad hoc' e, contestualmente, colpendo duramente quegli italiani che traggono evidente, subdolo e nauseante profitto dai nuovi schiavi attraverso paghe da fame, lavori disumani ed affitti stellari».
«Forza Nuova», chiude Forconi, «non lascerà mai che le proprie città si trasformino in succursali africane e, pertanto, intensificherà queste azioni nei prossimi mesi, estendendole a tutta l’area metropolitana».



Torre chiama Terra

il Democratico, 04-01-2011
Sebastiano Di Mauro.
Perchè affermare i diritti dei più deboli vuol dire affermare i diritti di tutti!
Vi ricordate quelli sotto e sopra la torre di via Imbonati? Ora scesi dalla torre sono nelle vie e piazze di Milano per “chiamare e richiamare ancora i terrestri” sui problemi degli immigrati e italiani, più che mai insieme, per rivendicare diritti per tutti!
Questo il messaggio provocatorio che vogliono far passare: “Beep Beeep! C.Q – C.Q.! Questo è un messaggio per TUTTI i naviganti dello spazio cittadino,per i PASSANTI, per i distratti e gli attenti, per tutti i terrestri, bipedi ragionanti sparsi sul pianeta Terra e soprattutto per quelli che s’affollano nei pochi chilometri quadrati denominati ‘Milano’”
Infatti il problema non è stato ancora risolto e migliaia di immigrati che lavorano in Italia rischiano di rimanere nella clandestinità e nelle grinfie del lavoro nero. Per questo chiedono un permesso per attesa occupazione per tutti gli immigrati che sono stati “truffati” dalla sanatoria colf e badanti.
Questi lavoratori vogliono vivere e lavorare alla luce del sole mentre invece migliaia di immigrati vivono e lavorano in Italia in clandestinità e questo non favorisce né stranieri né italiani, ma solo chi ha interesse a sfruttare il lavoro nero.
Ora il governo farà uscire un nuovo decreto flussi che però è valido (nella teoria) solo per gli stranieri che sono ancora nel loro paese di origine. Per quelli che sono già qua non esiste nessun meccanismo che permetta i loro datori di lavoro di assumerli. Questo buco legislativo produce un mercato di lavoratori in nero, in mano a caporali o intermediari che “recuperano manodopera” a piazzale Loreto o davanti ai cancelli dell’Ortomercato, favorendo l’evasione fiscale e la riduzione delle regole di sicurezza sul lavoro.
Regolarizzare questo persone servirebbe a sanare le irregolarità contributive e fiscali, a ridurre lo sfruttamento del lavoro nero e rompere l’odioso meccanismo del ricatto a cui sono sottoposti i lavoratori senza permesso di soggiorno, a far cessare l’uso strumentale della guerra fra lavoratori per abbassare il costo del lavoro; ad aumentare gli introiti delle cassa dello Stato per sostenere il sistema di welfare e di protezione di tutti i cittadini.
“Se ne tornino a casa loro! Non c’è abbastanza lavoro per noi italiani, figurarsi per loro, via!” Questo è quanto afferma il pensiero leghista. Cosa succederebbe se queste parole diventassero il credo in altre parti del mondo? Decine di milioni emigrati, compresi i figli nati in quei paesi, dovrebbero tornare in Italia.
La diffusione di una (non) cultura dell’odio razzista, non solo non fa giustizia ai milioni di italiani che hanno vissuto la stessa esperienza in direzione opposta, ma di fatto non fa che alimentare una spirale violenta e becera antica quanto l’Impero Romano. Un “Divide et Impera” che assume nuove forme e individua nuovi soggetti: lavoratori italiani contro lavoratori immigrati.
È invece necessario accompagnare la società italiana e i suoi cittadini, autoctoni e immigrati nelle trasformazioni che i movimenti migratori inducono anche nel Bel Paese, affinché tutti ne possano ricavare il maggior numero di vantaggi, riducendo al minimo le sofferenze, i disagi e i traumi e raccogliendo la ricchezza che questo processo può rappresentare.



Liguria: corsi di lingua italiana per immigrati adulti e formazione per le badanti promossi dalla Regione.

Immigrazione Oggi, 04-01-2011
Sottoscritti sei accordi tra la Regione e il Ministero del lavoro e delle politiche sociali per la formazione e la qualificazione dei lavoratori stranieri.
Prenderanno il via nelle prossime settimane i nuovi corsi di italiano per cittadini immigrati promossi dalla Regione Liguria e finanziati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali.
Secondo quanto riferisce una nota dell'assessore regionale all'immigrazione, Enrico Vesco, i finanziamenti previsti di 216 mila euro permetteranno il ripetersi dei corsi già attivati nel 2009 e nel 2010.
“L’obiettivo – ha spiegato Vesco – è quello di dare risposta ai bisogni di comunicazione degli immigrati giunti in Italia, per facilitare il processo di integrazione e favorire il loro inserimento professionale”.
Sempre con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, la Regione Liguria comunica di aver sottoscritto un accordo per la qualificazione dei servizi socio-assistenziali presso le famiglie dove sono presenti persone non autosufficienti e per l'emersione del lavoro nero in tale settore.



Nel 2010 crescono ancora le imprese con titolare straniero: sono 263 mila, il 4,5% in più rispetto all’anno precedente. Nel biennio della crisi aumentate del 10%.

Immigrazione Oggi, 04-01-2011
Uno studio della Fondazione Leone Moressa sui dati Infocamere riferiti alla fine del terzo trimestre 2010. Gli stranieri sono il 7,8% del totale degli imprenditori.
Aumentano ancora le imprese individuali guidate da cittadini extracomunitari, con i marocchini e i cinesi a trainare la crescita. Nei primi nove mesi del 2010 – secondo i dati di Infocamere, la società informatica delle Camere di commercio, riportati in uno studio della Fondazione Leone Moressa – le aziende con titolare straniero sono salite a quota 262.934, con un +4,5% rispetto alla fine del 2009 (251.562). Nello stesso periodo, invece, tutte le imprese individuali in Italia si sono ridotte di 2.287 unità.
Gli imprenditori stranieri rappresentano il 7,8% del totale (3.373.513), il settore principale di attività è il commercio e il 18,4% è concentrato in Lombardia. E per un'impresa su cinque (il 20,1%) il titolare è una donna. I più numerosi tra gli imprenditori extracomunitari sono i marocchini con 49.958 (+4%) iscritti e le regioni in cui sono più presenti sono il Piemonte (6.840) e la Lombardia (6.673). Subito dopo ci sono i cinesi, in totale 36.788 (+6,3%), diffusi su tutto il territorio e soprattutto in Toscana (8.086) e Lombardia (6.702). Al terzo posto gli albanesi (28.330), di cui 5.484 solo in Toscana.
Il settore in cui gli stranieri sono più attivi è il commercio: le imprese sono 112.891, pari all'11,4% del totale degli imprenditori individuali nel Paese. Altri comparti di rilievo sono le costruzioni con 70.050 aziende (il 12,6% del totale), le attività manifatturiere con 25.614 imprese (il 9,7%), i servizi di ristorazione con 11.692 operatori (il 6,9%) e quelli di noleggio con 9.873 (il 14,1%).
Complessivamente, il numero di imprenditori stranieri è cresciuto dall’inizio della crisi (dal biennio cioè che va dal III trimestre 2008 al III trimestre 2010) del 9,2%, in controtendenza rispetto a quanto avviene per l’imprenditoria italiana, dove si assiste ad una contrazione del -1,2%.
Prato, Pavia e Rieti sono le province che nel confronto tra trimestri hanno fatto segnare le crescite più evidenti in quanto a numero di imprenditori stranieri (rispettivamente +17,7%, +17,7% e +16,2%), mentre l’unica area in Italia ad aver mostrato tassi di variazione negativi è Nuoro (-2,3%). Prato e Trieste sono le province che mostrano la più alta densità straniera nel mondo dell’imprenditoria, con incidenze sul totale degli imprenditori, rispettivamente, del 15,3% e del 10,9%. A queste seguono a ruota le province di Teramo (10,2%) e Gorizia (10,0%). Ma sono Milano, Roma e Torino ad accogliere il maggior numero di imprenditori stranieri, sebbene nel capoluogo lombardo la loro variazione nell’ultimo biennio sia stata appena del 5,6% (contro il 13,5% registrato nella capitale e del 12,6% nel capoluogo piemontese).
“Oltre ad essere un fenomeno sempre in continua evoluzione” affermano i ricercatori della Fondazione Leone Moressa, “quello dell’imprenditoria etnica non sembra aver subito il contraccolpo della crisi almeno in termini di numerosità. Essi continuano a crescere mostrando buona vivacità imprenditoriale, dimostrando probabilmente una maggiore flessibilità e adattamento all’evento recessivo. Si può presumere che il 2010, come l’anno precedente, possa concludersi con un ulteriore segno positivo”.



Bari, nascerà il Centro Polifunzionale per immigrati regolari

Stato Quotidiano, 04-01-2011
Piero Ferrante
Bari – DUE milioni di euro ed un progetto che si realizza, adoperandosi per venire a capo delle esigenze migratorie. Grazie ai fondi Pon Sicurezza, il Ferrhotel di Bari, struttura in disuso da tempo, sarà ristrutturato e diverrà un Centro Polifunzionale destinato ad offrire servizi di accoglienza, integrazione ed orientamento lavorativo agli immigrati extracomunitari regolari.
IL PROGETTO. Si tratta di un piccolo grande capolavoro socio-urbano che, se da un lato permetterà alla città levantina di riappropriarsi di uno spazio altrimenti da considerarsi al di fuori dell’utilizzo, dall’altro fornirà servizi essenziali tali da compensare situazioni di svantaggio. Grazie ai fondi ottenuti, a breve, verranno approntate sedici camere da letto, ognuna da due posti letto, per un totale, dunque, di 32 giacigli temporanei. In accordo con l’Obiettivo 2.1 del Programma cofinanziato dalla Ue e intitolato “Migliorare la gestione dell’impatto migratorio”, il Centro nascente offrirà tutta una serie di servizi diretti a favorire e facilitare l’integrazione e l’inserimento lavorativo degli immigrati giunti in Italia con regolare permesso di soggiorno. Oltre agli interventi sociali, il Centro si occuperà anche di formazione e di intrattenimento ricreativo-culturale.
Una serie di progetti rivolti al singolo affinchè possa emanciparsi dalla condizione di marginalità, insomma e che saranno realizzati e monitorati da operatori specializzati. Un info point fornirà agli utenti tutte le informazioni necessarie per quanto concerne l’accesso ai servizi socio sanitari, mentre verranno attivati corsi di lingua italiana con percorsi didattici individualizzati.
COLLABORAZIONE DELLE ISTITUZIONI. I corsi di formazione e riqualificazione professionale, per un massimo di 40 utenti, saranno offerti dalla Provincia di Bari nell’ambito dell’offerta formativa dei piani annuali di formazione professionale. Il Comune di Bari, oltre al cofinanziamento di 33mila euro relativo alle spese non ammissibili, si è impegnato a sostenere la gestione e la manutenzione del centro per almeno 5 anni successivi alla conclusione del progetto.



Atene vuole un muro contro gli immigrati

Timori a Bruxelles, dovrebbe correre lungo il confine "caldo" con la Turchia
La Stampa, 04-01-2011
MARCO ZATTERIN
BRUXELLES -Un muro, un altro muro da tre metri di cemento, o forse solo una barriera di rete metallica. Da un lato la Grecia e dall'altro la Turchia, l'Europa e l'Asia separate come gli Usa e il Messico per cercare di fermare l'immigrazione fuorilegge. Un ministro junior del governo di Atene, il titolare della Protezione civile Christos Papoutsis, ha annunciato l'intenzione di erigere una protezione lunga 206 chilometri sul confine orientale, un colabrodo dove in ottobre sono stati beccati 7.586 clandestini. «Non una buona idea», commentano fonti diplomatiche europee, pensando anche alla delicatezza delle relazioni coi turchi. «I muri sono una soluzione temporanea - dice un portavoce della Commissione -. Il problema impone interventi strutturali».
Si storce il naso tanto a Bruxelles quanto ad Ankara, così il governo greco è sotto pressione. Piegato dalla crisi finanziaria, vive un'auste-
rità durissima e in più si trova a essere titolare della porta attraverso cui passa l'80% dei senza documen¬ti che compaiono nell'Ue. In serata Atene è stata costretta a correggere il tiro, confermando il piano, ma aggiungendo che si parla di 12,5 chilometri nei pressi della città di Orestiada, luogo di frontiera che la mitologia vuole fondato da Oreste, figlio di Agamennone e Clitennestra. Un abitato da 20 mila anime dove si stima siano sfilati 40 mila clandestini nei primi dieci mesi del 2010.
Forse la Grecia si fermerà alla dozzina di chilometri, forse ne faranno di più come dice la stampa locale, o magari seguiranno le indicazioni che vengono sussurrate da Bruxelles, rinunciando al muro e scegliendo strategie ritenute più solide. L'Ue chiede ai greci di rafforzare il monitoraggio e affinare il regime di asilo. Le frontiere nazionali greche sono anche dell'Europa; la loro gestione è soggetta al rispetto dei trattati comunitari.
Non è una sfida facile per il premier Papandreu. Il flusso globale dei clandestini si è dimostrato una realtà flessibile, rapida a riorientarsi. La stretta del governo italiano (con gli accordi bilaterali firmati da Roma con la Libia), ha sforbiciato gli accessi dallo stivale. Analogo è il fenomeno riscontrato in Spagna e a Malta. Il popolo in cerca di speranza ha così scelto le isole del Dodecanneso e la strada oltre i Dardanelli. Sono in prevalenza afghani, algerini, pachistani, somali e iracheni.
Da due mesi l'Ue ha preso per mano le autorità elleniche. A novembre sono state inviate 175 guardie di frontiera europee che pattugliano il corso dell'Evros dalla Bulgaria alla foce dell'Egeo. È meno di un uomo per chilometro di confine turco, ma il numero dei clandestini intercettati è già raddoppiato e la missione continua sino al 2 marzo.
«La Grecia ha bisogno di riforme strutturali solide e a lungo termine e di misure per gestire meglio i suoi confini, affrontare i problemi legati ai flussi migratori e creare un sistema dell'asilo solido ed efficiente», dice la Commissione. Ufficialmente non si raccoglie di più nei corridoi, però, si fa notare che la condanna più volta espressa dell'Ue per i muri con cui Israele isola i palestinesi perderebbe credibilità se si acconsentisse alla costruzione di strutture analoghe. A dicembre la commissaria agli Interni Malmstroem ha chiesto ad Atene di fare qualcosa per i centri di accoglienza, «degradanti» secondo l'Onu. «Il muro è un'ammissione di colpa più che una scelta politica», - spiega un diplomatico Ue. «Pericolosa», aggiunge, per gli effetti sulle relazioni con la Turchia, irritata per lo stop al processo di adesione. Il muro, si fa notare, non conviene a nessuno. Non Atene, e non all'Europa.



Yemen, due barconi affondati annegano 80 immigrati

Avvenire, 04-01-2011
Ilaria Sesana
La colpa, probabilmente, è delle forti raffiche di vento e delle violente ondate che spazzano il Golfo di Aden. Due imbarcazioni cariche di profughi, prevalentemente di origine etiope, si sono ribaltate nel braccio di mare che separa il Corno d’Africa dalla penisola arabica: 43 persone sono morte annegate mentre circa 40 risultano disperse.
La notizia è stata diffusa dal ministro dell’Interno yemenita. «Una delle imbarcazioni trasportava 46 persone, la gran parte etiopi, e si è capovolta vicino alla costa, nella provincia di Taez - ha spiegato il ministro, citando la guardia costiera -. Tutte le persone a bordo, ad eccezione di tre somali, sono annegate». L’altra imbarcazione coinvolta, invece, è affondata al largo delle coste della provincia di Lahej, e trasportava «tra le 35 e le 40 persone, tutti etiopi tra cui donne e bambini - ha concluso il ministro - La loro sorte resta sconosciuta». Sono migliaia, ogni anno, i profughi in fuga dalla guerra civile che devasta la Somalia, dall’Etiopia e dalla dittatura eritrea: solo tra gennaio e ottobre dello scorso anno, circa 43mila persone (13mila somali e quasi 30mila etiopi) hanno compiuto il pericoloso viaggio attraverso il Mar Rosso o il Golfo di Aden a bordo di vecchie carrette, secondo quanto ha riferito l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). E in centinaia muoiono durante la traversata: sempre secondo l’Acnur, nel 2008 circa mille persone sono affogate o disperse in mare. «Una tragedia umana di enormi proporzioni che si svolge da anni», l’ha definita l’Acnur.
Dal Sinai, intanto, non trova soluzione il dramma dei profughi eritrei sequestrati da oltre un mese dai beduini Rashaida che, dopo le liberazioni degli scorsi giorni, tengono prigioniere ancora una cinquantina di persone, segregate in un container sotterraneo ad Arish, fra cui tre donne incinte. «Siamo preoccupati in modo particolare per una ventina di loro: non hanno soldi per pagare il riscatto né parenti che li possano aiutare», spiega don Mosè Zerai direttore dell’agenzia Habeshia che da settimane mantiene un contatto telefonico con i profughi.  Ma c’è un altro fatto che preoccupa il sacerdote eritreo: «Israele non concede facilmente lo status di rifugiato. La nostra speranza è che venga concesso loro un documento di soggiorno per motivi umanitari».
Nel Paese, inoltre, cresce l’intolleranza nei confronti dei migranti africani e il governo di Tel Aviv ha in programma di costruire un centro di detenzione per migranti (10mila posti) al confine con l’Egitto in cui rinchiudere gli stranieri che varcano illegalmente il confine. Una buona notizia arriva intanto dal deserto del Sinai: i capi delle tribù beduine della regione firmeranno il prossimo 15 gennaio un accordo per condannare il traffico di esseri umani e assicurare la loro collaborazione con le autorità governative e locali per contrastarlo.
L’annuncio viene dal Gruppo EveryOne. «Abbiamo scritto ai capi tribù per sollecitarli su questo problema», spiega Roberto Malini, co-presidente del Gruppo. All’appello ha risposto il capo della tribù al-Tarabin, una delle più antiche e numerose: gli anziani del clan hanno dichiarato che «si oppongono al traffico di esseri umani e sperano non di non vedere le loro aree tribali usate dagli schiavisti». Il loro impegno ha poi coinvolto altre tribù beduine che sottoscriveranno l’accordo «per vietare il passaggio dei trafficanti sulle loro terre e combattere il fenomeno», conclude Malini.



Strage di immigrati in mare annegati ottanta africani

la Repubblica, 04-01-2011
ADEN — Circa 80 clandestini africani sono probabilmente annegati a causa del ribaltamento dei due barconi su cui viaggiavano a largo delle coste dello Yemen. Anche se si attendono conferme definitive sul numero delle vittime, la maggior parte dei migranti era di origine etiope. «L'incidente è stato provocato dalla forza del vento e delle ondate che hanno fatto capovolgere le due imbarcazioni spingendole verso la costa», ha dichiarato il ministero degli Interni yemenita in un comunicato. Secondo le ricostruzioni fornite al ministero dalla guardia costiera di Aden, la prima barca si è ribaltata a largo della costa della provincia di Taez con 46 persone a bordo: tutte annegate, eccetto per tre migranti di origini somale. Il secondo barcone, invece, si è rovesciato a largo della provincia di Lahij, con 35-40 passeggeri, tutti etiopi, tra cui donne e bambini. «La loro sorte resta sconosciuta» ha affermato la nota del ministero sostenendo che sono ancora in corso ricerche con «la speranza di ritrovare sopravvissuti». Non è noto quando l'incidente sia accaduto. Di certo, le vittime appartenevano alle migliaia di altri africani che ogni anno lasciano il Corno D'Africa per raggiungere il più affluente Medio Oriente, sbarcando sulle coste yemenite. Stando all'Alto commissariato per i rifugiati delle Nazioni Unite, solo tra gennaio e ottobre dello scorso anno 43mila persone -13mila somali e 30mila etiopi - hanno tentato di superare il Golfo di Aden sfuggendo a «situazioni disperate di guerra civile, instabilità politica, povertà, carestia e siccità nel Corno D'Africa». Tuttavia, centinaia di loro muoiono nel tentativo di raggiungere lo Yemen via mare.



Sinai, ucciso un poliziotto egiziano durante un'operazione anti trafficanti

la Repubblica, 04-01-2011
Le forze dell'ordine egiziane hanno evidentemente avuto disposizioni per intervenire direttamente nella zona di Rafah dove in container sotterrati sono detenuti i profughi africani. Un agente è rimasto ucciso durante un conflitto a fuoco con i predoni. A segnalarlo è il sito di EveryOne Group, l'organizzazione umanitaria che segue da vicino la sorte dei sequestrati
RAFAH - La polizia egiziana del governatorato del nord del Sinai - si legge sul sito di EveryOne Group 1, l'organizzazione umanitaria che segue da vicino la sorte dei profughi sequestrati nella zona di confine Egitto-Israele nel Sinai - sembra aver ricevuto disposizioni di combattere il traffico di esseri umani. Per la prima volta dopo molti mesi - prosegue l'articolo scritto sul sito - agenti della polizia di frontiera della Repubblica Araba d'Egitto, dislocati a Rafah, hanno affrontato domenica scorsa alcuni trafficanti intenti a condurre un gruppo di migranti africani verso il confine con Israele. L'agente Rami Ahmed Abdel-Latif è stato colpito a morte da un predone.
Nel frutteto di Khaled. "Non sappiamo ancora se i migranti nelle mani dei trafficanti beduini appartengano al gruppo detenuto da oltre un mese nel frutteto di Abu Khaled a Rafah," dicono Roberto Malini, Matteo Pegoraro e Dario Picciau, co-presidenti del Gruppo EveryOne. Il poliziotto colpito da un proiettile è stato trasportato all'ospedale di Rafah, ma vi è giunto privo di vita. Le operazioni contro i trafficanti sono proseguite durante tutto il giorno di domenica. "E' raro che le forze di sicurezza e i predoni si scontrino, sul confine con Israele, " prosegue EveryOne, "molto più frequenti sono stati i migranti uccisi a sangue freddo dagli agenti mentre tentavano di attraversare la frontiera, tanto che le Ong per i diritti umani hanno spesso
protestato contro quella carneficina legalizzata".
La verità capovolta. Anche nei pochi scontri armati fra polizia e trafficanti, fino a ieri erano stati i profughi a farne le spese, con perdita di numerose vite. Autorità e media egiziani definiscono i profughi come "migranti illegali in cerca di lavoro", per evitare di riconoscere il loro diritto a protezione umanitaria: è un capovolgimento della verità che purtroppo vige anche in Italia, a Malta e in Grecia, i paesi europei che violano sistematicamente la Convenzione di Ginevra. In realtà i migranti africani, spesso giovani o giovanissimi, fuggono da paesi in guerra o grave crisi umanitaria".



Dall'Italia al Senegal, le nuove imprenditrici sono migranti di ritorno

il Sole, 04-01-2011
Gigi Donelli
LOUGA (Senegal) - «Voi ci chiamate vucumprà, e noi invece a voi bianchi vi chiamiamo toubab. Voi i senegalesi li chiamate tutti vucumprà e noi, invece, quelli che vanno in Italia a lavorare li chiamiamo modou-modouja-tou-fatou se sono donne». Nel suo minimarket di Louga, gomiti appoggiati su una pila di confetti Valda ancora impacchettati, Ibrahim regala pillole di lessico della migrazione in chiave senegalese.
Il negozio di generi alimentari illuminato al neon offre di tutto e resta aperto ogni sera fino a tardi. La porta, spalancata sulla via di transito, illumina l'asfalto incerto, l'incedere africano dei passanti, i calessi tirati da ronzini vivaci che le donne ancora sembrano preferire alle auto. Per raccontarmi la sua storia di migrante tra Senegal e l'Italia, Ibrahim ha chiesto alla moglie di pazientare, tanto, dice, skype è gratis.
Ibrahim non ha ancora quarant'anni anni ma è un modou con i galloni. Il primo viaggio italiano risale a 16 anni fa. Da clandestino ammette, «ma è passato molto tempo». San Benedetto del Tronto via Roma, poi Ancona, Rimini, i Lidi ferraresi e ancora su verso Jesolo, una spiaggia dopo l'altra a vendere il piccolo artigianato africano. Infine Forte dei Marmi. Con i viaggi, negli anni, ha costruito la sua piccola fortuna. Lui minimizza, ma il negozio di generi alimentari è molto ben fornito e proprio accanto ne ha anche un altro, di abbigliamento, di cui va molto fiero. «In Italia ho imparato molto sullo stile - mi spiega - ma adesso, anche se vorrei fare diversamente, sono costretto a rifornirmi inMarocco dove si tro-vano prodotti di gusto italiano, ma a un prezzo migliore».
Ibrahim, qui a Louga - che è un paesone agricolo di 8omila anime 5 ore a nord dalla capitale Dakar - è solo uno tra tanti. Molti dei 200mila arrivati in Italia dal Senegal negli ultimi venti anni sono di queste parti, e si sente. Lo raccontano a gran voce i bambini che giocano a
pallone a piedi nudi sollevando la sabbia del Sahel e ti indicano le case più belle gridando modou-modou, lo suggerisce 0 gemellaggio con Torino, ma anche lo sbocciare delle filiali degli istituti di credito. E poi lo dicono le donne, quando spiegano che qui ogni famiglia -ma proprio tutte, insistono - ha contribuito almeno con un figlio a costruire la più grande comunità di lavoratori stranieri dell'Africa nera nel nostro paese.
Le rimesse hanno trasformato Louga, tenendo a bada lo spettro della fame che la crisi delle arachidi, la desertificazione ma anche la guerra contro la Mauritania ('89) avevano scatenato. Gli euro passati di mano in mano sostengono i consumi quotidiani e quelli in eccesso sembrano rovesciarsi nelle case dei migranti, immacolate, nuovissime ma spesso anche disabitate. Poi, però, il 2008 è arrivato come una gelata anche qui ai confini del Sahara. La crisi in Europa ha suscitato allarme: «Le ditte italiane - spiega Ibrahim - ora gli operai li licenziano, oppure ti offrono contratti brevi o incerti. Molto meglio fare la stagione sulle spiagge, dove non c'è ancora troppa concorrenza, e poi iniziare a pensare al futuro, un futuro qui a casa nostra».
L'effetto crisi, ma non solo quello, ha spinto anche Marie a tornarsene al paese. Per ìei,fatou-fatou e mamma di due bambini cresciuti a Lucca, si tratta di trovare un suo personale equilibrio. Il marito ha un buon lavoro fisso e resta dunque in Toscana, lei dal 2009 «solo una serie di contratti a termine». I figli intanto crescono - «ma per la legge non sono comunque italiani» - e a volte la spaventano: soprattutto quando le sembrano incapaci di capire la fatica e le sofferenze patite dai genitori africani. Insomma, viziati. Marie, già contabile in un oleificio, è precisa anche mentre parla in italiano: «Un po' di Senegal - dice - farà bene ai miei bambini. Capiranno molte cose crescendo in Africa, e forse apprezzeranno ancora di più anche quello che possono avere in Italia».
Il ritorno non è comunque definitivo, né viene vissuto con leggerezza. Il marito, spiega Marie, in Toscana, guadagna in un mese più di quanto un suo omologo senegalese raccolga in un anno. Marie e le altre è chiaro che non sono tornate, a casa, per stare in casa e poi l'esperienza italiana ne fa delle leader naturali. «Io ho cominciato a pensarci ai compleanni di mio figlio, quando era l'unico bambino africano in una classe elementare di Mantova. Per me diventava una ragione d'orgoglio poter offrire sempre agli amichetti italiani un prodotto senegalese, un succo, un sapore del mio paese. Poi ho pensato che era ora di farlo diventare un business». Aichatou Sarr -sorridente amalgama di signora afrolombarda - corre, organizza, gesticola, portando a spasso con eleganza la sua persona avvolta in un confortevole abito etnico di foggia italiana. A Mantova ha raccolto i connazionali della diaspora ma non le è bastato: ora il suo progetto è quello di invadere il suo Senegal «e poi l'Italia perché no» con i succhi di frutta prodotti dalle donne di Kebemer.
La incontro mentre arringa un'assemblea femminile di lavoratrici dell'Association des Femmes pour la Solidarité et le Développement du Nord (Afsdn). È affiancata da Coumbaly Diaw, operatrice sociosanitaria a Parma dal '98, animatrice in Senegal di alcune iniziative di sviluppo sostenute dagli italiani di Fondazioni4 Africa. Loro -le donne senegalesi emigrate in Italia e tornate in patria - sono le fatou che cambiano nuovamente pelle e diventano le agenti di una nuova forma di cooperazione e anche le antenne accese sulle possibilità di finanziamento. Quello della trasformazione della frutta, che raccoglie circa 40 donne, è una parte di un progetto molto ampio che si sviluppa attraverso i settori della pesca, quello zootecnico e del turismo sostenibile e opera sull'educazione finanziaria di pari passo allo sviluppo delle casse rurali.
«È la nostalgia alimentare che diventa motore d'iniziativa economica», racconta Aishatou. Il succo di baobab, il bissap o anche il ditakh, che somiglia al kiwi ma solo nell'aspetto, in Senegal sono i frutti della quotidianità consumata in famiglia. «Noi li trasformiamo in opportunità di formazione e lavoro per molte donne, che nella piccola impresa trovano anche l'occasione di colmare i vuoti lasciati aperti dal basso tasso di scolarizzazione». In un paese agricolo che non ha ancora raggiunto l'autosufficienza alimentare - e che importa ogni anno 600mila tonnellate di riso dall'Asia - la cultura della trasformazione ha ancora ampi margini di affermazione. La produzione alimentare dipende dai cicli delle piogge e nelle campagne non è raro veder un allevatore gettare il latte "scaduto" nei campi.
Di certo non è un lavoro facile. E come tutti gli innesti - anche se sei una donna africana tra donne africane - il cambiamento solleva interrogativi e sospetti. «Noi per esempio abbiamo imparato a Parma e a Mantova il valore della cultura propria di un prodotto alimentare. Vogliamo che anche le donne di Kebemer escano dalla dimensione della bottega e crescano, come persone all'interno della famiglia anche attraverso la loro capacità di produrre reddito». A volte, Coumba e Aisha ammettono di perdere la pazienza: l'orologio regolato su Parma e Mantova fatica a rallentare il passo al ritmo di Kebemer. I ritmi di lavoro sono molto diversi, «le chiami in riunione alle 3 e arrivano alle 4», si discute un'ora sulla validità degli standard igienici quando magari basterebbe togliere gli orecchini. «E così a volte finisce che ci prendano in giro chiamandoci - con una punta di veleno - le nuove fatou-toubab».
Lasciando il nord del Senegal penso che il vucumprà Ibrahim dovrebbe essere fiero di loro. L'ora italo-africana batte il tempo delle fatou-toubab, migranti di ritorno cariche di sogni, perché tutto il mondo è paese e la differenza la fanno sempre le persone.

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