Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Le gabbie di Ponte Galeria, regno del chissà

Luigi Manconi e Valentina Brinis
 
l'Unità 21.07.2013
Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Prima di diventare il verso di una bella canzone di Sergio Endrigo, quel motto popolare già godeva di una straordinaria diffusione. La sua semplicità è così eloquente da risultare definitiva, ma – se applicata a determinate circostanze e a determinati luoghi - è addirittura micidiale.
 Il Centro di identificazione e di espulsione (Cie) di Ponte Galeria si trova ad appena 24 chilometri dai palazzi del Parlamento italiano, ma quando ci si muove per raggiungerlo, risulta lontano, davvero lontano. E la sua lontananza, forse, risponde all’esigenza di tenere quanto vi accade – persone e vicende – distanti dal cuore della città e della politica, dell’opinione pubblica e di un qualunque sentimento di partecipazione. Il Cie si trova sulla Portuense, nell’estrema periferia occidentale, tra il centro commerciale all’ingrosso cinese “Commercity” e quello di Fiumicino, “Parco Leonardo”. La struttura è chiusa da mura alte e grigie e di fronte all’ingresso principale c’è un grande parcheggio, in genere vuoto, e qualche porzione di terra ricoperta da erba spelacchiata. Quando ci arriviamo, ieri, 20 luglio poco dopo le 10, con una delegazione della Commissione speciale per la tutela dei diritti umani del Senato, sono passati esattamente 50 giorni dal momento in cui il cancello del Cie si era aperto per lasciar passare la macchina che portava Alma Shalabayeva all’aeroporto di Ciampino. E, da lì, in Kazakistan, con la figlia di sei anni. Ma di questa vicenda, che così tanto e scuote l’opinione pubblica e che quella stessa commissione del Senato ha avuto la ventura di trattare per la prima volta in una sede parlamentare, nel corso della nostra visita di ieri non si è fatto cenno. Per una sorta di imbarazzo collettivo, per non voler cedere alla pressione dell’attualità più bruciante anche in un luogo così tragicamente inattuale e, infine, perché lì, dentro il Cie, la sorte di Alma Shalabayeva si confonde e si stinge nel destino di altre centinaia di persone. E, tuttavia, c’è stato un momento in cui la sua presenza si è in qualche modo avvertita: è stato quando intorno a un tavolinetto, di fronte al modulo dove passano la notte, alcune donne ci hanno parlato della loro vita all’interno di quel recinto. È quello stesso recinto che sembra azzerare le differenze di risorse e di classe, di cultura e di protezione, rendendo la ricca Alma inesorabilmente uguale alla donna ucraina che lavorava nei campi e a quell’altra che faceva l’aiuto cuoca nel salernitano: entrambe trovate col permesso  di soggiorno scaduto e ora lì senza sapere minimamente la ragione di quella prigionia, senza conoscerne la durata, e senza poter immaginare quale sarà la loro sorte futura.
 
Ma facciamo un passo indietro. La prima tappa della nostra visita è l’ufficio del Giudice di Pace in cui avvengono le convalide del trattenimento per i migranti risultati irregolari.
 
Qui ci fanno accomodare e ci offrono dell’acqua, fa molto caldo ma sappiamo che quello non è il locale peggiore da questo punto di vista. Il direttore della cooperativa Auxilium, ente gestore del Cie, illustra la situazione e ci dice che attualmente sono presenti 78 persone, 60 uomini  e 18 donne e che la capienza massima è di 320 posti. Che il personale impiegato è composto da medici, infermieri, mediatori, la psicologa, due assistenti sociali, e gli operatori che svolgono le funzioni relative all’amministrazione quotidiana. Aggiunge che il cibo viene preparato da una ditta esterna e consumato nella mensa (ma anche, ci sembra di capire, in camera). Poi inizia il nostro giro. La struttura del Cie è singolare in quanto i locali adibiti a uffici e ad attività comuni introducono a un complicato sistema di gabbie, l’una collegata all’altra e l’una all’interno dell’altra. E la gabbia - proprio quella che nel nostro immaginario è l’idea di una prigione per animali (di canarini, se piccola, di leoni, se grande) - è la forma architettonica e residenziale e strutturale dominante. Sbarre molto solide e ravvicinate, di altezza notevole, sovrastate da una struttura che richiama i cavalli di Frisia o  le merlature munite di lance di qualche antico presidio militare. All’origine di questa singolare difesa aerea pare ci sia – ci venne detto nel Cie di Bari – l’incubo, diventato leggenda metropolitana, di una evasione da un qualche carcere italiano o francese, realizzata col ricorso a un elicottero disceso dal cielo. Qui, francamente, la cosa appare poco probabile. Per raggiungere l’area in cui alloggiano e trascorrono le loro giornate i trattenuti, si devono passare alcune porte e cancelli. Esattamente come in un carcere, anche se questo (giuridicamente) carcere non è. Poi si apre davanti a noi una sorta di vialetto e, a entrambi i lati, altri cancelli che conducono ai locali adibiti a dormitorio.  Parliamo con alcuni di loro e i problemi che emergono sono immancabilmente gli stessi: la salute precaria, l’assistenza legale che non c’è, le condizioni di vita che sono quelle che sono. Ma su tutto domina un clima di totale insensatezza. Un senegalese residente in Italia da dieci anni e che, per dieci anni, ha sbarcato il lunario nemmeno troppo male, è qui perché privo di permesso di soggiorno.  Ci racconta che oggi fa l’elettrotecnico (“due titoli di studio presi in Francia”), lavorando stabilmente in nero, e con una paga che gli consente una dignitosa esistenza. È fidanzato con una straniera regolare, possiede l’automobile e qualche piccolo commercio e, dunque, non capisce, non capisce proprio, perchè mai si trovi là. Ma l’uomo è intelligente e, in realtà, lo capisce molto bene. Ha molte cose da dire e le dice in un italiano più che passabile. Ci mostra una stanza e batte la mano contro il muro interno per farci vedere come, sotto i colpi del suo palmo, l’intonaco imbevuto di umidità, si sfaldi. Poi ci indica gli oggetti in dotazione per l’igiene personale, “di origine cinese”, spiega, di qualità miserevole e, a suo dire, pericolosi per la salute. Vorrebbe chiedere il rimpatrio volontario e assistito, ma chissà. Qui è il regno del chissà. Si pensi che la stragrande maggioranza degli “ospiti” si trova nel Cie senza saperne la ragione e, soprattutto, senza conoscere il tempo di permanenza. Per la verità, è proprio del tempo, che qui tutto si ignora. Siamo in un tempo desolatamente vuoto: noi, quelli della visita, ne controlliamo lo scorrere e ne prevediamo la conclusione, perché da qui dobbiamo uscire, per raggiungere la nostra vita, che si svolge altrove, e per rispettare i nostri orari. Qui dentro, per i trattenuti, gli orari sono esclusivamente quelli dell’esistenza primaria: il cibo e il sonno. Per tutto il resto, quasi non c’è attività da compiere, nessun progetto, nessun impegno da assumere e rispettare. Il vuoto, appunto, delimitato e definito dalle sbarre delle gabbie. A queste si aggrappa G. marocchino diciannovenne, in Italia da quando era bambino, tossicomane e affetto da problemi psichici. Ha smesso da poco di assumere metadone. Potrà stare qui dentro ancora qualche mese ma, una volta uscito, nulla esclude che debba ritornarvi. Chissà.
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