Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

2 febbraio 2011

Fate qualcosa di umano
Paolo Lambruschi
Avvenire 2 febbraio 2011
Da ormai 70 giorni si è squarciato il velo che copriva, nel Sinai, un traffico di esseri umani del valore qualche milione di dollari che finisce (e non è un caso) anche per portare risorse all’estremismo e al terrorismo islamico. Merito – come spesso accade quando si tratta di denunce simili – di un prete, il sacerdote eritreo Mosè Zerai, e di alcune associazioni umanitarie. La fiaccolata silenziosa tenutasi ieri a Roma sulle scale del Campidoglio e organizzata dalla società civile ci ricorda l’odissea infinita di migliaia di profughi originari del Corno d’Africa, in fuga da persecuzioni e guerre, rapiti da clan di beduini Rashaida e ancora ostaggi nel deserto.
Non è cambiato nulla per loro, anzi. Le manifestazioni in corso al Cairo hanno contribuito a spingere ancor più nell’ombra questo dramma. Noi abbiamo seguito da vicino le vicende di un gruppo di 80 eritrei provenienti dalla Libia, Paese dove erano rimasti intrappolati dopo essere stati respinti in mare dall’Italia. Avevano pagato 2.000 dollari ai trafficanti per attraversare l’Egitto, raggiungere Israele – l’unico Oriente che nell’area fa rima con Occidente (che significa democrazia, e dovrebbe sempre significare anche diritti umani e tutela dei più deboli) – e da lì, poi, arrivare in Europa.
Sono stati invece ingannati e inghiottiti dalle sabbie del deserto in una nuova e crudele rotta degli schiavi. Per essere liberati sono stati pretesi da ognuno di loro altri 8 mila dollari, sono stati sottoposti a umiliazioni e torture per "sollecitare" il pagamento del riscatto. E il peggio è toccato a donne e bambini. Chi non aveva i mezzi ha dovuto vendere un rene per comperarsi la libertà oppure rischia in queste ore di essere venduto o ammazzato come una bestia perché è diventato ingombrante. Diversi prigionieri hanno perso la vita in questi mesi in un’autentica mattanza, per aver osato ribellarsi alle catene o perché serviva dare un feroce esempio.
Questa storia fin dall’inizio ha messo in imbarazzo le cancellerie europee, i governi egiziano e israeliano e la stessa Autorità palestinese per diversi motivi. Primo, perché dimostra che la chiusura indiscriminata dei confini europei anche a chi ha diritto di chiedere asilo fa a pugni con il diritto internazionale e con la nostra tradizione giuridica e umanitaria. Poi rivela che Israele è gelida e ostile con i rifugiati anche se reduci da torture e arriva a respingerli in Egitto. Paese, questo, che oltre a non avere piena sovranità su una parte del proprio territorio, il Sinai, non rispetta la convenzione sui diritti umani perché imprigiona e spara sui profughi o li respinge, a sua volta in Paesi che perseguitano i dissidenti. E, infine, perché mette in luce la debolezza dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che si è fatto sentire – e ci mancherebbe – ma non ha certo alzato la voce e chiesto conto a Mubarak di inerzie colpevoli e drammi impuniti...
Il Parlamento europeo a metà dicembre aveva solennemente chiesto al governo del Cairo di intervenire. La risposta è stata dapprima il rifiuto di ammettere anche solo l’esistenza del gravissimo problema. Quindi, tra dicembre e gennaio l’impegno a cambiare atteggiamento. Ma le forze dell’ordine egiziane, un po’ perché male equipaggiate e molto per connivenza, si sono limitate a non aprire più il fuoco sulle colonne di profughi appena liberati e diretti verso il confine.
Resiste così questa rete maligna. E si nutre di complicità internazionali, che consentono a spietati mercanti di uomini di catturare gli ostaggi già in Sudan e in Libia. Eppure si conoscono anche i luoghi di detenzione e i nomi dei capi dei clan di rapitori. Sembra, insomma, che non ci sia niente da fare: i drammi degli ultimi della Terra che rischiano di morire nella ricerca di scampo, non interessano a nessuno, né all’Europa né ai governi dei Paesi di origine. E ora bisogna aspettare la fine della tempesta che sconvolge l’Egitto per capire che cosa accadrà, per vedere se qualcun oserà prendere a cuore la sorte di questi disperati.
Ma la Ue che ha chiuso le porte ai profughi eritrei può dire e fare già ora qualcosa di giusto e di umano: accetti, Italia in testa, di offrire rifugio almeno a chi è scampato ai lager del Sinai.


Eritrei una fiaccolata per non dimenticare

LUCA LIVERANI
Avvenire 2 febbraio 2011
Ma ha senso sperare ancora per la salvezza dei 200 eritrei in mano ai predoni del Sinai? Don Mosè Zerai non demorde, nonostante il caos che attanaglia l'Egitto: «Il momento è drammatico - dice -  ma se il paese si avvierà verso un nuovo assetto democratico, la questione dei profughi e dei diritti umani potrebbe trovare finalmente ascolto». Il sacerdote eritreo, direttore dell'Agenzia Habeshia, è in prima fila, fiaccola in mano, alla manifestazione indetta ieri sera sulla scalinata del Campidoglio. Un momento intenso di solidarietà, per te¬nere alta l'attenzione sulla tragedia di centinaia di uomini, donne, minori venduti dai trafficanti di migranti a bande criminali che chiedono riscatti migliaia di dollari alle famiglie.
Più di duecento le fiammelle accese, una per ogni ostaggio. Centinaia di persone, tra cui molti eritrei affollano il Campidoglio dietro lo striscione «Per la liberazione dei profughi sequestrati nel Sinai». A promuovere la fiaccolata, assieme all'Agenzia Habeshia, ci sono il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), A Buon Diritto, il Centro Astalli. Tra le adesioni Acli, Fondazione Migrantes, Amnesty International, Comunità di Sant'Egidio, Arci, Cgil, Uil, la deputata del Pd Maria Pia Garava-glia.
I promotori ieri mattina sono stati ricevuti dai sottosegretari agli Esteri Stefania Craxi, Alfredo Mantica, Enzo Scotti. «Abbiamo chiesto che il governo si muova a livello Ue - dice il presidente del Cir Savino Pezzotta - per attivare una evacuazione umanitaria e poi l'accoglienza nei paesi membri. Ma l'Italia e l'Europa devono fare pressioni per avviare un processo democratico, almeno quanto stanno già facendo gli Stati Uniti». «Dal " governo amico" di Mubarak - dice il presidente di A Buon Diritto Luigi Manconi - Italia ed Europa non hanno ottenuto nulla. Serve un'accelerazione: gli ostaggi non possono aspettare i tempi del rin-novamento in Egitto». Moderatamente ottimista sull' evolversi della situazione politica il portavoce della sezione italiana di Amnesty, Riccardo Noury: «Nelle manifestazioni di questi giorni in Egitto non sono riecheggiati gli slogan antiamericani. Le fazioni fondamentaliste islamiche ci sono, ma non sembrano in grado - sostiene Noury - di creare un consenso maggioritario, anche perché in parte compromesse col vecchio sistema di potere». «Se la transizione porterà verso la democrazia - dice padre Gianromano Gnesotto, direttore dell'ufficio profughi di Migrantes - allora anche in Egitto ci sarà spazio per i diritti umani e la giustizia». «La speranza è l'unico bagaglio di chi fugge - commenta il gesuita padre Giovanni La Manna del Centro Astalli: «Sono proprio loro a insegnarci a sperare anche nelle situazioni più drammatiche».


OTTO MESI DI ODISSEA: LE TAPPE DELL'ORRORE

Avvenire 2 febbraio 2011
L'odissea degli eritrei comincia a maggio 2010, quando alcune centinaia fuggono dal loro Paese diretti in Italia. Fermati al largo di Lampedusa, sono rinchiusi in un campo di detenzione in Libia. Rilasciati a novembre, in 250 tentano di raggiungere Israele attraverso il deserto, ma sono sequestrati da un gruppo di trafficanti di uomini e imprigionati a Rafah, nel Sinai del nord. Per il loro rilascio viene chiesto un riscatto di 8mila dollari a testa. Chi non paga viene ucciso: sei le vittime, mentre ad altri quattro viene tolto un rene come forma di pagamento. A dicembre si muove la diplomazia internazionale. Il Papa prega per gli ostaggi durante l'Angelus di domenica 5. Il 16 il Parlamento Europeo approva una risoluzione del Ppe che chiede la liberazione degli ostaggi. Il 23 ne vengono rilasciati 20. Il 5 gennaio 2011 i profughi liberati dopo il pagamento del riscatto salgono a 40. Altri 27 profughi sono però ancora tenuti in ostaggio.



Eritrei rapiti: fiaccolata Campidoglio per non dimenticare

01 febbraio 2011
(ANSA) - ROMA, 1 FEB - Centinaia di persone partecipano sulla scalinata del Campidoglio, a Roma, a una fiaccolata per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica italiana e internazionale sugli oltre 200 immigrati, in gran parte eritrei, sequestrati da più di due mesi nel Sinai egiziano. 'Per la liberazione dei profughi sequestrati nel Sinai' è scritto su uno striscione che apre la manifestazione, promossa, tra gli altri, dal Consiglio italiano per i rifugiati, Agenzia Habeshia, Associazione A Buon Diritto e Centro Astalli. (ANSA).


Egitto: fiaccolata in Campidoglio per i profughi sequestrati nel Sinai

Roma, 1 feb. (Adnkronos) - Una fiaccolata per esprimere solidarieta' ai profughi eritrei tenuti prigionieri dai trafficanti di uomini nel deserto del Sinaib si e' svolta oggi pomeriggio a Roma, sulla scalinata del Campidoglio. La manifestazione e' stata promossa dal Consiglio Italiano per i Rifugiati (Cir), dal Centro Astalli, da 'a Buon Diritto' e dall'Agenzia Habeshia. Il direttore del Cir, Christopher Hein, ha sottolieato che l'intento della manifestazione era quello di "allarmare e sensibilizzare l'opinione pubblica e politica sul dramma, che ormai da piu' di due mesi, si consuma nel Sinai. Basta con il silenzio della comunita' internazionale".
"Questa mattina - ha dichiarato Hein - abbiamo avuto un incontro alla Farnesina dove abbiamo potuto parlare della situazione dei sequestrati. Abbiamo parlato anche della prevenzione affinche' nuovi profughi non entrino ancora in questa trappola.Dal governo italiano mi aspetto da una parte, che non si dimentichi del destino di queste persone e, dall'altra, che venga fatto il possibile per arrivere alla loro immediata liberazione e, una volta liberati, che vengano fatti venire in Europa".
"Chiediamo che nei paesi di transito come Sudan e Libia sia fatto un'opera di prevenzione, affinche' altri siano informati e scoraggiati nel fare lo stesso viaggio. La causa di tutto questo - ha sottolineato - e' anche la chiusura della frontiera europea, come nel caso dell'Italia. Il respingimento dei profughi in Libia e' stato solo la punta dell'iceberg. Simili politiche sono state fatte anche da Spagna e Grecia, quindi non si entra piu' in Europa cosi' le persone sono costrette a questo tipo di viaggi".(segue)



Profughi nel Sinai, la fiaccolata in Campidoglio

Più di 100 migranti arrestati nel deserto egiziano
La Repubblica 2 febbraio 2011
I controlli al confine fra Egitto e Israele si sono intensificati, grazie ad una deroga agli accordi di Camp David concessa da Gerusalemme alle autorità egiziane. In questo periodo di caos alcune bande di trafficanti scelgono di liberarsi dei migranti detenuti nei campi di prigionia a Rafah, al-Gorah, al-Arish, Sheikh Zuweid. Rimangono ancora prigionieri oltre 100 profughi
IL CAIRO -  Sono oltre cento i profughi eritrei, etiopi, sudanesi e somali sono stati arrestati negli ultimi due giorni dalle autorità egiziane nel nord del Sinai, vicino al confine fra Egitto e Israele. Lo riferisce il Gruppo EveryOne, un'organizzazione umanitaria e l'agenzia eritrea Habeshia. Secondo la televisione egiziana, sarebbero stati arrestati anche quattro trafficanti beduini armati e un numero imprecisato di eritrei ed etiopi complici dei predoni. Si presume che i controlli intensificatisi al confine fra i due stati, grazie ad una deroga agli accordi di Camp David concessa da Israele alle autorità egiziane in questo periodo di conflitti interni e di caos nel Sinai, stiano costringendo alcune bande di trafficanti a liberarsi dei migranti detenuti nei campi di prigionia a Rafah, al-Gorah, al-Arish, Sheikh Zuweid e altre località del Sinai egiziano. Rimangono ancora prigionieri gli oltre 100 profughi, che comunque restano in contatto con padre Moses Zerai, direttore dell'Agenzia Habeshia e con Roberto Malini del Gruppo EveryOne.
La fiaccolata in Campidoglio.  Alcune centinaia di persone hanno partecipto sulla scalinata del Campidoglio, a Roma, ad una fiaccolata per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica italiana e internazionale sugli oltre 200 immigrati, in gran parte eritrei, sequestrati da più di due mesi nel Sinai egiziano. Uno striscione con su scritto "Per la liberazione dei profughi sequestrati nel Sinai" campeggiava  ai piedi della scalinata del Campidoglio.
La manifestazione era stata promossa, tra gli altri, dal Consiglio italiano per i Rifugiati (Cir), dall'Agenzia Habeshia, dall'Associazione "A Buon Diritto" e dal Centro Astalli. Numerosi i cittadini romani che hanno voluto così testimoniare la loro solidarietà alle persone tenute in ostaggio dai predoni nel deserto. Nel corso della manifestazione, il sindaco Gianni Alemanno, che indossava la fascia tricolore, è sceso a dare un saluto ai manifestanti, intrattenendosi con alcuni degli organizzatori della manifestazione, con Luigi Manconi di "A Buon Diritto", con Savino Pezzotta e  Christopher Hein, rispettivamente presidente e direttore del Cir, e con padre Giovanni Lamanna, del Centro Astalli. Il capo della Giunta capitolina ha affrontato con tutti loro l'altra annosa questione dei somali che occupano la loro ex sede diplomatica di via dei Villini.
L'incontro alla Farnesina. Nella mattinata, i promotori erano stati ricevuti al Ministero degli Esteri da tre sottosegretari, Stefania Craxi, Alfredo Mantica ed Enzo Scotti. "Abbiamo chiesto di individuare con precisione i luoghi dove gli immigrati vengono tenuti in ostaggio dalle bande di predoni - ha detto il presidente di 'A Buon Diritto' Luigi Manconi - Vista la situazione caotica che c'è in questo momento in Egitto possiamo solo cercare di evitare che le condizioni dei sequestrati peggiorino ancora". A tenere i contatti telefonici con i profughi è sempre il direttore dell'Agenzia Habeshia, don Mussie Zerai, un sacerdote di nazionalità eritrea. I sequestratori infatti permettono ai prigionieri di effettuare chiamate con il cellulare per convincere i familiari a pagare un riscatto di circa 7 mila euro per ognuno di loro. Don Zerai ha riferito ancora una volta di violenze di ogni tipo che gli immigrati dicono di subire, in particolare le 15 donne e ragazze. La Farnesina si è impegnata a intervenire, attraverso i canali diplomatici possibili, nella vicenda del Sinai egiziano.
Le altre adesioni.  Fra i manifestanti, c'era anche Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. "L'Egitto - ha detto la funzionaria dell'Onu - in questo momento sta affrontando una grave prova, ma questo non deve far passare in secondo piano la sorte di queste persone tenute in ostaggio nel suo territorio". Le Acli e il Cisp-Sviluppo dei popoli erano presenti alla fiaccolata sulla scalinata del Campidoglio. Antonio Russo, responsabile dell'immigrazione per le Acli: "Il silenzio della comunità internazionale e dell'Europa in particolare - ha detto - desta angoscia e preoccupazione. Questa drammatica  situazione è una delle conseguenze della politica europea di chiusura delle frontiere che sempre più, attraverso la costruzione di muri fisici o legali e amministrativi, allontana le persone che cercano protezione dal nostro continente".



Una fiera del lavoro per la seconda generazione E’ il ponte verso l’Oriente

DARIO DI VICO
Corriere della Sera 2 febbraio 2011
L’ appuntamento è per il 16 febbraio e vale la pena seguirlo non solo per mere questioni di affari e occupazione. Tra due settimane a Milano si terrà il First Italy China Career Day, la prima edizione di una sorta di fiera del lavoro che vedrà come protagonisti i giovani cinesi immigrati di seconda generazione in Italia. Ad incontrarsi con loro saranno i responsabili del personale di almeno dieci grandi aziende italiane, per ora del settore automotive e dell’alimentare, alla ricerca di quadri qualificati di madrelingua cinese da inserire nei ranghi della propria azienda per sviluppare il commercio in Asia. Le imprese chiedono specifiche competenze linguistiche ma anche conoscenza dei diversi modelli di contrattazione, a cominciare ovviamente dal guanxi, quel misto di scambio e cura delle relazioni che è il perno intorno a cui gira la società cinese. L’iniziativa è organizzata dalla Fondazione Italia-Cina in collaborazione con l'Assolombarda ma soprattutto con Associna, il gruppo che si sforza di organizzare le attività della seconda generazione cinese e in qualche maniera di rappresentarne il punto di vista. Oltre a far incontrare domanda e offerta di lavoro, gli organizzatori hanno predisposto un programma che prevede approfondimenti di carattere sociologico e l’intervento del presidente di Associna, Bai Junyi, affermatosi professionalmente proprio facendo a ritroso il percorso di Marco Polo. A quindici giorni dall’evento sono già 60 i curriculum pervenuti agli organizzatori e a inviarli sono stati giovani cinesi che hanno frequentato con profitto l’università in Italia, per lo più Bocconi e Politecnico. A loro le aziende italiane chiederanno di fare la spola tra Milano e la Cina, di diventare il ponte tra l’Italia che produce e il mercato più promettente del mondo. Ma oltre a essere ambasciatori del dialogo tra due culture imprenditoriali, ai giovani cinesi è facile che finiremo, con il tempo, per chiedere qualcosa in più. Provare de facto ad aprire un vero canale di collegamento tra le comunità presenti in Italia (che per lo più provengono dalla provincia dello Zhejiang) e la nostra società civile. Chi frequenta i giovani cinesi che studiano in Italia ne parla in maniera entusiastica. In genere fino ai 18 anni tendono all’assimilazione con i loro coetanei italiani, poi però cresce in loro la voglia di reimpadronirsi del retroterra storico e culturale della terra dei propri padri e magari di andare a lavorare a Pechino o Shanghai per le multinazionali occidentali. Capita anche che qualcuno di questi giovani si armi di santa pazienza e inizi a studiare per la prima volta il cinese a Milano presso istituti come la Fondazione Italia-Cina. Cercare di stabilire quanti siano in totale i cinesi immigrati di seconda generazione è difficile, a spanne si può stimare che siano all’incirca un quarto dei 200 mila connazionali regolarmente registrati in Italia. Ma ovviamente quando si parla di numeri e immigrazione dal paese più popoloso del mondo è necessario un doppio caveat. È chiaro che i ragazzi cinesi rappresentano l’anima aperta di una comunità di immigrati gelosissima delle proprie tradizioni e dei propri recinti. Non a caso le coppie miste di fidanzati italo-cinesi, che iniziano a sbocciare nelle nostre città dove è maggiore la presenza di cittadini asiatici, sono ancora fortemente avversate dalle famiglie di provenienza. Di sicuro comunque iniziative come il Career Day di Milano contribuiscono a svelenire il clima e a far intravedere il cambiamento. È infatti più che evidente come in Italia, per effetto soprattutto del caso Prato, la presenza dell’immigrazione cinese sia un punto dolente. Non solo la querelle sul distretto tessile parallelo in provincia di Firenze non è avviata a soluzione, ma anche in altre regioni d’Italia comincia ad esserci preoccupazione per l’offensiva commerciale delle ditte cinesi e per l’incremento abnorme dei laboratori clandestini. Le segnalazioni più ricorrenti vengono dalla zona di Carpi e da quella di Padova e non sempre l’iniziativa delle autorità preposte alla repressione soddisfa le attese delle associazioni delle piccole imprese. Per cui è più che naturale guardare ai giovani cinesi con la speranza di poter scrivere, quantomeno, una pagina diversa dei rapporti italo cinesi. ddivico@rcs. it


L’ex Stalingrado d’Italia vieta il burqa nei luoghi pubblici

Ferdinando Baron
Corriere della Sera 2 febbraio 2011
SESTO SAN GIOVANNI (Milano) — C’era una volta la «Stalingrado d’Italia» . Sesto San Giovanni, terra di fabbriche e operai. Dove il Pci, da solo e col sistema proporzionale, arrivava quasi a percentuali da Bulgaria. Poi tutto è cambiato. Le fabbriche sono aree dismesse o sostituite da uffici e centri commerciali. Gli operai un ricordo quasi in bianco e nero. E l’altra sera, l’ultima tappa di una trasformazione: il Consiglio comunale ha approvato a larghissima maggioranza (di centrosinistra) una mozione contro l’utilizzo del burqa nei luoghi pubblici o aperti al pubblico, su proposta della Lega Nord. È il segnale della fine di un’epoca? La Lega Nord ha depositato la stessa mozione anche in Comune a Milano. «E adesso, dopo il voto di Sesto San Giovanni, vediamo come voterà la sinistra a Milano» , commenta il capogruppo in Consiglio comunale milanese, il leghista Matteo Salvini. La mozione è stata presentata dalla capogruppo della Lega Alessandra Tabacco: «Il burqa è estraneo alla nostra cultura, non possiamo tollerare questa forma di discriminazione verso le donne» . Un’idea che ha trovato un favore trasversale tra i banchi. «Il burqa e altre forme simili di vestiario, che coprono integralmente il viso delle persone — si legge nella mozione approvata — costituiscono, secondo la nostra cultura, una forma di integralismo oppressivo della figura femminile e di costrizione della libertà individuale» . Il Consiglio comunale, quindi, «impegna il sindaco ad adottare urgentemente i provvedimenti necessari al fine di far rispettare, a qualsiasi persona presente sul territorio comunale che circoli in luoghi pubblici o aperti al pubblico a viso coperto, le leggi vigenti in tema di sicurezza e dignità della donna» . L’intendimento non sembra di facile applicazione: se i vigili dovessero incontrare una donna col burqa come dovrebbero comportarsi? Multarla? Invitarla a scoprirsi il capo? Per il momento il dibattito è tutto teorico. «Nessuna multa — spiega il pd Giorgio Oldrini, sindaco di Sesto — ma dialogo con la comunità musulmana. Condivido la decisione presa dal Consiglio. Esistono usanze che contrastano con la storia, le leggi e il comune sentire del nostro Paese» . Plauso alla decisione — non senza una punta di ironia — dal centrodestra. «Un segnale forte e importante, soprattutto perché arriva da una delle roccaforti della sinistra — afferma Romano La Russa, coordinatore provinciale del Pdl, assessore regionale ed ex consigliere comunale a Sesto —. Anche nell’ex Stalingrado d’Italia i principi che il centrodestra predica da tempo in materia di immigrazione e sicurezza sono sempre più assorbiti e fatti propri dalla sinistra» . In realtà i distinguo non mancano. Per esempio dall’unico consigliere che ha votato contro, Andrea Scacchi, Pdci: «Una scelta controproducente. Temi così seri, quali la dignità delle donne ed insieme l’integrazione dei cittadini e delle cittadine migranti, non vanno affrontati per fare solo propaganda politica» .


Fitti fuorilegge
Napoli capitale

Per gli immigrati canoni da capogiro, immobili fatiscenti e mutui inaccessibili. "Si sono registrati casi anche di aggressione fisica da parte dei coinquilini"
TIZIANA COZZI
laRepubblicaNapoli.it 2 febbraio 2011
Vivono in case fatiscenti, pagano canoni da capogiro e sono costretti a subire discriminazioni da proprietari sempre meno disponibili ad affittare agli immigrati. Per gli stranieri che lavorano, regolari e inseriti nel tessuto sociale del nostro territorio, abitare in Campania ha un prezzo altissimo. Lo testimonia l´indagine Ital-Uil, "Le condizioni abitative dei cittadini stranieri assistiti dal patronato Ital". Uno studio che ha interessato gli immigrati assistiti dagli uffici del sindacato, età media 39 anni, residenti in Italia da oltre 6 anni, livello di istruzione medio, lavoratori dipendenti.
Un campione privilegiato che avrebbe dovuto testimoniare condizioni di vita sostenibili. E invece si scopre che anche gli immigrati più integrati soffrono, in quanto a vivibilità, soprattutto per la questione casa. Difficoltà che emergono chiare dalle pagine della ricerca, a partire dagli affitti alti, che portano via più della metà del mensile di un lavoratore regolare. Per una casa un migrante spende dai 200 ai 400 euro al mese (nel 43 per cento dei casi), costi altissimi se si considera il reddito familiare mensile netto medio di 600 euro (53,2 per cento). Ma i costi dei fitti possono essere anche più alti. Si può arrivare a spendere tra 401 e 600 euro (12 per cento), nel peggiore dei casi tra 601 e 800 euro anche se sono in pochissimi a permetterselo (5 per cento). Accedere a un immobile con un mutuo, è sempre più un miraggio: nessuno tra Napoli e provincia risulta proprietario di immobili. In cima alla lista delle difficoltà segnalate dagli intervistati, c´è il costo troppo elevato (52 per cento), seguono le condizioni fatiscenti degli edifici (29 per cento), la reticenza dei proprietari a concedere gli appartamenti agli stranieri (27 per cento) e le case giudicate troppo piccole (12,5 per cento). «Si sono registrati casi di persone affrontate fisicamente dai coinquilini napoletani - dice Luciana Del Fico, segretaria regionale Uil per l´immigrazione - c´è stato un episodio di violenza a Fuorigrotta: una famiglia ucraina è dovuta scappare via dal palazzo in cui abitava perché aggredita dai vicini che si lamentavano degli odori troppo forti della cucina. Non ci sono le condizioni favorevoli per abitare nella nostra città, d´altra parte neppure per gli stessi napoletani. Gli stranieri, in più, sono costretti a pagare fitti troppo alti, con contratti irregolari e una buona dose di intolleranza».
La situazione è complessa anche sul fronte dei contratti: regolari per la maggioranza degli intervistati (37,5 per cento), con importi di fitto dichiarati a metà (16,1 per cento), in tanti invece (35,7 per cento) si rifiutano di rispondere. Dati che valgono un record negativo. È Napoli infatti la provincia italiana con il più alto tasso di illegalità del mercato dei fitti agli immigrati. Qui il 14,7 per cento degli intervistati dichiara di non avere un contratto registrato. Si tratta di case in periferia (21 per cento) poche le abitazioni nel centro città (6,7 per cento) composte da due stanze (23 per cento), condivise con una persona (15,5 per cento dei casi). Il sessanta per cento del campione della ricerca alloggia in affitto, il 28 per cento vive come ospite pagante da parenti o conoscenti mentre solo l´1,4 per cento vive in strutture di accoglienza.


Rivoluzioni & barconi Lampedusa ora trema

Riprendono gli sbarchi: senza il pugno dei raiss, chi li fermerà?
LAURA ANELLO
La Stampa 2 febbraio 2011
Tira vento di maestrale qui, dopo due giorni di bonaccia. Raffiche tese, nervose, che increspano l'orizzonte, che sanno di allarme. Che rompono la quiete dell'ultimo anno a Lampedusa. Nelle ultime due settimane, da quando è deflagrata la rivolta a Tunisi, sono arrivati dal mare centonovanta uomini al rit¬mo di uno, due, anche tre sbarchi al giorno. L'ultimo ieri mattina, quando sessantadue tra giovani e bambini hanno gremito il molo degli arrivi che dal marzo dell'anno scorso - ultimo grosso carico dalla Libia - era quasi deserto, riaprendo un fronte che il governo nazionale e le autorità locali avevano chiuso precipitosamente, dichiarando chiusa l'emergenza Lampedusa.
«Tunisino, tunisino, tunisino», ripetono adesso i cinquantatré adulti e 1 nove ragazzini - tutti maschi - arrivati qui infreddoliti, malconci, i vestiti bagnati. Domenica ne erano sbarcati trentadue. Sabato ventisei in tre diverse barche. Dieci giorni prima era approdato uno yacht di lusso in avaria. «Siamo del seguito di Ben Ali, ci hanno detto di portare la barca al sicuro. Non possiamo tornare indie-tro, chiediamo asilo politico», hanno detto i due marinai prima di essere rispediti indietro. «Non vogliamo parlare ancora di allarme, ma non possiamo nascondere la nostra preoccupazione», ammette il sindaco Dino De Rubeis. E sì, la parola d'ordine qui è minimizzare, ma tutti sanno che queste potrebbero essere le prime crepe di un fronte tunisino che si riteneva sigillato e che adesso, caduto Ben Ali, rischia di riaprirsi. Difficile tenere in piedi gli accordi bilaterali in questo caos.
Per capirlo bisogna andare davanti all'ex base Loran, a Capo Ponente, sede del Centro di identificazione ed espulsione che adesso è chiuso e in malora. E osservare il peschereccio arrivato ieri mattina e ormeggiato qui, sotto sequestro. «Non è la barchetta rubata di notte con qualche fuggiasco a bordo, questo ha tutta l'aria di uno sbarco organizzato», dice uno che ne ha visti tanti. Il primo segnale di riorganizzazione di trafficanti d'uomini dalla Tunisia. Non a caso, arrivano da ogni parte del Paese: il Sud, il Nord, le città, le periferie.
Tutti qui, a raccontare la loro delusione per una rivoluzione che ri-tengono solo di facciata. «Ben Ali è scappato, ma ci sono sempre i suoi uomini al potere», sussurrano prima di essere avviati al volo che li porta al centro di permanenza di Brindisi, tappa intermedia prima del rimpatrio. Nei giorni della rivolta nel carcere di Monastir e della successiva scarcerazione dei dete¬nuti politici, qui sul molo si racconta che gli sbarcati avevano le cicatrici tipiche di chi è stato recluso laggiù, una per ogni anno di cella. Lealisti, oppositori delusi, disperati, tutto arriva quaggiù. E tutto torna a casa.
L'Air Mistral per Brindisi decolla alle cinque meno un quarto con il suo carico di dolore, stessa rotta degli immigrati arrivati nei giorni scorsi e tenuti sull'isola il tempo necessario a metterli su un aereo o una nave.
Guai a tenerli qui, guai ad ammettere che a Lampedusa funziona ancora - seppure a ranghi ridotti - il Centro di accoglienza che nell'agosto del 2008 visse i giorni drammatici della rivolta, «giorni in cui c'erano 1.200 immigrati ammassati in condizioni estreme - racconta Enza Malatino, da psicoterapeuta  del Poliambulatorio con  gente  che   si iniettava la propria urina in vena per provocare infezioni, che si mutilava per trovare una strada di uscita».
Lei, che ha ascoltato le storie di madri costrette a gettare i cadaveri dei loro figli in mare, di ragazzi costretti al rispondere al richiamo come cani, conosce quelle cartoline dall'inferno, un incubo che l'isola non vuole più vivere. A costo di pagare l'albergo agli immigrati costretti a pas-sare la notte qui, pur non riaprire neanche per un giorno il centro di accoglienza che ha 760 letti.
«Capisco la politica del governo nazionale - dice il sindaco - se si riapre quel posto anche per un'ora è co-me invitarli a nozze. Con la nuova crisi politica nel Maghreb, Lampedusa rischia di essere di nuovo la meta su cui puntare». A seguire la situazione da Roma c'è il vicesindaco Angela Maraventano, la pasio-naria di Lampedusa che adesso siede al Senato tra i banchi della Lega. Il Comune, in quel centro, conta di trasferirei le scuole dell'isola. E l'assessore al Turismo, l'economista dell'Ateneo di Palermo Pietro Busetta, lavora per realizzare qui un museo dei migranti in stile Ellis Island, «per onorare la memoria di chi da qui è passato, per rendere visibile la grande tradizione di accoglienza che l'isola ha sempre avuto». Ma mentre si pensa a voltare pagina, la storia bussa di nuovo alle porte.







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SOS diritti.
Sportello legale a cura dell'Arci.

Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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