Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

12 ottobre 2012

Immigrati: Lampedusa, nella notte soccorso barcone con 109 migranti a bordo
LIbero.it, 12-10-2012
Palermo, 12 ott.- (Adnkronos) - Un gommone con a bordo 109 migranti, tra cui una sola donna, e' stato soccorso la notte scorsa da due motovedette della Guardia costiera a circa 70 miglia a sud-est di Lampedusa. A dare l'allarme e' stato uno dei migranti con un telefono satellitare, come confermano dalla Capitaneria di porto. La Guardia Costiera ha localizzato il gommone di dodici metri in acque libiche.
Da Lampedusa sono partite due motovedette che hanno raggiunto il gommone in avaria in acque maltesi. Gli immigrati sono stati trasbordati all'una di notte sulle due motovedette della Guardia costiera e accompagnati a Lampedusa dove sono arrivati intorno alle cinque del mattino.
All'operazione di soccorso ha partecipato anche la nave Orione della Marina Militare. I migranti stanno tutti bene e sono stati gia' trasferiti al Centro d'accoglienza di Lampedusa.



SCANDAL0 PROFUGHI
Lo Stato ha speso un miliardo e 300 milioni per assistere le persone fugglte da Libia e Tunisia. Ogni rifugiato e costato 46 euro al giorno. Fondi senza controllo che hanno arricchito albergatori, coop spregiudicate e truffatori
l'Espresso, 12-10-2012
MICHELE SASSO E FRANCESCA SIRONI
Erano affamati e disperati, un'ondata umana in fuga dalla rivoluzione in Tunisia e dalla guerra in Libia: fra marzo e settembre dello scorso anno l'esodo ha portato sulle nostre coste 60 mila persone. Profughi, accolti come tali dall'Italia o emigrati in fretta nel resto d'Europa: solo 21 mila sono rimasti a carico della Protezione civile. Ma l'assistenza a questo popolo senza patria è stata gestita nel caos, dando vita a una serie di raggiri e truffe. Con un costo complessivo impressionante: la spesa totale entro la fine dell'anno sara di un miliardo e 300 miÜoni di euro. In pratica: 20 mila euro a testa per ogni uomo, donna o bambino approdato nel nostro Paese. Ma i soldi non sono andati a loro: questa pioggia di milioni ha alimentato un suk, arricchendo affaristi d'ogni risma, albergatori spregiudicati, cooperative senza scrupoli. Per ogni profugo lo Stato sborsa fino a 46 euro al giorno, senza verificare le condizioni in cui viene ospitato: in un appartamento di 35 metri quadrati nell'estrema periferia romana ne sono stati accatastati dieci, garantendo un reddito di oltre 12 mila euro al mese.
IN NOME DELL'EMERGENZA. Ancora una volta emergenza è diventata la parola magica per scavalcare procedure e controlli. Gli enti locali hanno latitato, tutto si è svolto per trattative privata: un mercato a chi si accaparrava più profughi. E il peggio deve ancora arrivare. I fondi finiranno a gennaio: se il governo non trovera una soluzione, i rifugiati si ritroveranno in mezzo alla strada (vedi box a pag. 40).
In Italia sono rimaste famiglie africane e asiatiche che lavoravano in Libia sotto il regime di Gheddafi. La prima ondata, composta soprattutto da giovani tunisini, ha preso la strada della Francia grazie al permesso umanitario voluto dall'allora ministro Roberto Maroni. Ma quando Parigi ha chiuso le frontiere, lo stesso Maroni ha varato una strategia federalista: ogni regione ha dovuto accogliere un numero di profughi proporzionale ai suoi abitanti (vedi grafico a pag. 39). A coordinate tutto è la Protezione civile, che da Roma ha incaricato le prefetture locali o gli assessorati regionali come responsabili del piano di accoglienza. Ma, nella fretta, non ci sono state regole per stabilire chi potesse ospitare i profughi e come dovessero essere trattati. Cosi l'assistenza si è trasformata in un affare: bastava una sola telefonara per venire accreditati come "struttura d'accoglienza" e accaparrarsi 1.200 euro al mese per ogni persona. Una manna per centinaia di alberghi vuoti, ex agriturismi, case-vacanze disabitate, residence di periferia e colonie fatiscenti.
IL MERCATO DEI RIFUGIATI. Dalle Aipi a Gioia Tauro, gli imprenditori del turismo hanno puntato sui rifugiati. A spese dello Stato. Le con venzioni non sono mai un problema: vengono firmate direitamente con i privati, nella più assoluta opacità. Grazie a questo piano, ad esem- pio, 116 profughi sono stati spediti, in pantaloncini e ciabatte, dalla Sicilia alla Val Camonica, a 1.800 metri di altezza. I proprietari dei residence Le Baite di Montecampione non sono stati i soli a fiutare l'affare. Anche nella vicina Val Palot un politico locale dell'Idv, Antonio Colosimo, ne ha ospitati 14 nella sua casa-vacanze, immersa in un bosco: completamente isolati per mesi, non potevano far altro che cercare funghi. I piu furbi hanno trattato anche sul prezzo. La direttiva ufficiale,che stabilisce un rimborso di 40 euro al giorno per il vitto e l'alloggio (gli altri 6 euro dovrebbero essere destinati all'assistenza), è arrivata solo a maggio. Nel frattempo, la maggior parte dei privati aveva già ottenuto di più.
Gli albergatori napoletani sono riusciti a strappare una diaria di 43 euro a testa. Non male,se si considera che in 22 alberghi sono ospitate, ancora oggi, piu di mille persone.« La domanda turistica al momento degli sbarchi era piuttosto bassa», ammette Salvatore Naldi, presidente della Federalberghi locale. La Protezione civile prometteva che sarebbero state strutture temporanee. Non è andata cosi: solo alPHotel Cavour, in piazza Garibaldi, di fronte alia Stazione centrale, dormono tutfora 88 nordafricani. Le stanze, tanto, erano vuote: i viaggiatori si tengono alla larga, a causa dell'enorme cantiere che occupa tutta la piazza. Ma grazie ai rifugiati i proprietari sono riusciti lo stesso a chiudere la stagione: hanno incassato quasi 2 milioni di euro.
I richiedenti asilo però non sono turisti, ma persone che hanno bisogno di integrarsi. La legge prevede che ci siano servizi di mediazione culturale, che sono rimasti spesso un miraggio o sono stati appaltati a casaccio: «A Napoli sono spuntate in pochi mesi decine di associa- zioni mai sentite nominare», denuncia Jamal Qadorrah, responsabile immigrazione della Cgil Campania: «Ogni albergatore poteva affidare i servizi a chi voleva, nonostante ci sia un albo regionale degli enti competenti. Tutti, puntualmente, ignorati». Non solo. «A luglio di quest'anno abbiamo organizzato un incontro fra il Comune e gli albergatori», racconta Mohamed Saady, sindacalista della Cisl: «Diverse strutture non avevano ancora un mediatore». Ed era passato più di un anno dall'inizio dell'emergenza.
I FURBETTI DEL MONASTERO. Il business dei nuovi arrivati non ha lasciato indifferenti nemmeno i professionisti
della solidarietà. Cooperative come Domus Caritatis,che gestisce otto comunità solo a Roma. Anche i suoi centri sono finiti nel mirino di Save The Children e del garante dell'infanzia e dell'adolescenza del Lazio. Dopo numerose segnalazioni l'ong è andata a controllare 14 strutture della capitale che si fanno rimborsare 80 euro al giorno per l'accoglienza di minori stranieri non accompagnati. Il risultato è un rapporto inquietante, presentato a maggio alla Protezione civile e al Viminale, che "l'Espresso" ha esaminato. Si parla di sovraffollamento, ma soprattutto di senzatetto quarantenni fatti passare per ragazzini scappati dalla Libia. Durante l'indagine sono stati intervistati 145 profughi. «Più di cento erano palesemente maggiorenni», denuncia l'autrice del rapporto, Viviana Valastro: «Quelli che avevo di fronte a me erano adulti.Altrochediciassettenni. Non posso sbagliarmi». Non solo. «Molti di loro erano in Italia da tempo, non da pochi me si. Alcuni arrivavano dagli scontri di Rosarno».
Doppia truffa insomma: sull'età e sulla provenienza, per avere un rimborso più che maggiorato e intascare milioni di euro.Tutto questo da parte di una cooperativa strettamente legata all'Arciconfraternita del Santíssimo Sacramento e di San Trifone e a La Cascina, la grande
Save The Children non è stata la sola a denunciare la situazione romana. Anche il presidente della commissione capitolina per la sicurezza, Fabrizio Santori, esponente del Pdl, ha dovuto occuparsi di Domus Caritatis. La cooperativa infatti gestiva una comunità che dava grossi problemi al vicinato, da cui arrivavano continue proteste. Santori l'ha visitata e si è trovato davanti ad alloggi di 35 metri quadri abitati da 10 persone. Peggio che in un carcere. Eppure gli appartamentini di via Arzana, a metà Strada fra Roma e Fiumicino, più vicini all'aeroporto che alla città, permettevano di incassare più di 12 mila euro al mese.
Save The Children ha calcolato che in strutture di questo tipo, nella capitale, vivono quasi 950 persone. Dati incerti, perché solo cinque cooperative hanno accettato di fornirli. Domus Caritatis, dalla sua sede all'abbazia trappista delle Tre Fontane, non ha voluto dare alcuna informazione. Il dossier dell'ong internazionale descrive un caos assoluto: mancanza di responsabili, nessun servizio di orientamento e accompagnamento legale, strutture inadeguate.
ACCOGLIENZA ALLA MILANESE. Al Nord la situazione non cambia. A Milano si registrano casi come quello della ex scuola di via Saponaro, gestito dalla Fondazione Fratelli di San Francesco d'Assisi, che ha accolto 150 rifugiati. Ospitati in una comunità per la cura dei senzatetto, l'accoglienza dei minori e degli ex carcerati: 400 persone, con esigenze diverse, costrette a vivere sotto lo stesso tetto in una vecchia scuola. «Le condizioni sono orribili: 10-12 letti per ogni camerata. E pieni di pidocchi e pulcï», racconta un ragazzo ancora ospite. Le stanze sono inadatte perché costruite per ospitare alunni, non profughi, né tantomeno clochard che vivono in strada. «Un contenitore della marginalità sociale dove sono frequenti le risse: nigeriani contro kosovari, ghanesi contro marocchini e la lista dei ricoverati in ospedale si allunga ogni giorno», racconta chi è entrato tra quelle mura. Anche il personale è ridotto al minimo con pochi mediatori culturali (che spesso sono ex ospiti che non disdegnano le maniere forti per mantenere l'ordine), un solo assistente sociale e una psicologa per dieci ore alla settimana. Troppo poche per chi ha conosciuto gli orrori della guerra, le botte della polizia libica e porta sulla propria pelle i segni delle violenze. Anche i disturbi psichici abbondano, insieme all'alcolismo dilagante.
A sette chilometri dai frati, 440 profughi hanno trovato alloggio a Pieve Emanuele, estrema periferia Sud di Milano. Qui sono stati ospitati nel residence Ripamonti,di proprietà del gruppo Fondiaria Sai, appena passata sotto il controllo di Unipol ma all'epoca saldamente in mano a Salvatore Ligresti. I clienti abituali dell'albergo sono poliziotti, guardie del vicino carcere di Opera o postini, che non bastano a riempire i 4 mila posti letto dell'albergo. Grazie all'emergenza però nelle settimane di massimo afflusso sono entrati nelle casse di Fonsai oltre 600 mila euro al mese. Vacanze forzate in alloggi confortevoli (le camere sono dotate anche di tivii satellitare) ma dove sono mancati completamente i corsi per imparare l'italiano o l'assistenza legale e psicologica. «Si poteva trovare una sistemazione più modesta e investire in altri sussidi» dice, banalmente, un ragazzo del Ghana. Oggi a Pieve Emanuele sono rimasti in 80. Ma nel frattempo al residence sono andati quasi sette milioni di euro.
PER UN PIATTO Dl RISO. Lo Stato ha speso per l'emergenza 797 milioni di euro nel 2011 e altri 495 milioni nel 2012. Solo una parte è servita per lìaccoglienza: centinaia di milioni di euro sono finiti in tendopoli, spostamenti, trasferte, rimborsi agli uffici di coordinamento. Fondi di cui si è persa la traccia. E si che proprio per il buon uso dei soldi pubblici era stato istituito un "Gruppo di monitoraggio e assistenza", con il compito di visitare le strutture e segnalare i casi critici. Ma della task force degli ispettori dopo pochi mesi non si è saputo più nulla. «Noi facevamo parte del progetto ma da ottobre 2011 non siamo più stati convocati. Considerando che è partito ad agosto, il gruppo è durato meno di tre mesi», spiega a "lEspresso" Laura Boldrini, portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: «E mancato completamente il controllo da parte delle regioni e delle prefetture». La Corte dei conti della Calabria è andara oltre: ha messo nero su bianco che le convenzioni sottoscritte nella regione sono illegittime, perche non sono state sottoposte al controllo preventivo della Corte, obbligatorio anche nell'emergenza. Non solo. I giudici contabili di Catanzaro definiscono "immotivata" la diaria: 46 euro al giorno sono troppi. E pensare che in provincia di Latina sono riusciti a intascarseli quasi tutti spendendo solo 5 euro al giorno, per garantire a 75 profughi un misero piatto di riso. I cinque avidi gestori della cooperativa Fantasie sono stati arrestati dai carabinieri di Roccagorna. Insospettiti dall'aumento di stranieri in paese, i militari sono arrivati ad un casolare dove hanno trovato 46 persone alloggiate in 70 metri quadri. Nonostante il blitz la cooperativa ha continuato a ricevere i contributi della Regione Lazio per altri sei mesi: una truffa da 400 mila euro. Con le stesse risorse Aurelio Livraghi, volontario della Caritas di Magenta, in provincia di Milano, è riuscito a fare tutt'altro. «Milioni di italiani vivono con 1.200 euro al mese, perche loro no?». Osservazione semplice. Di un pensionato, che ha dedicato ai 35 profughi arrivati in paese le sue giornate. Persone oggi indipen- denti: pagano un affitto, fanno la spesa, quattro di loro hanno già un lavoro. Recitano anche in teatro. Una vita normale: altro che emergenza. E quando finiranno i fondi? «Potranno andare avanti almeno un po' perché sono riuscito a fargli mettere da parte dei risparmi». Non era difficile, sarebhe bastato un minimo di organizzazione. E di umanità. ?



Immigrati, come pagare le tasse senza avere in cambio nulla
Pagano, eccome se le pagano: lo scorso anno i "nuovi italiani" hanno dichiarato al fisco ben 41,6 miliardi di euro e pagato 6,2 miliardi di Irpef. Eppure il 42,2% delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà. È quanto emerge dal Rapporto Annuale sull'Economia dell'Immigrazione 2012, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa 1
la Repubblica.it, 12-10-2012
VLADIMIRO POLCHI
ROMA - "No taxation without representation". "Nessuna tassa senza rappresentanza". Se il vecchio slogan dei coloni americani valesse ancora oggi, gli immigrati in Italia non dovrebbero pagare un euro d'imposte. Invece, nonostante siano cittadini di serie B e senza diritto di voto, pagano le tasse, eccome se le pagano: lo scorso anno i "nuovi italiani" hanno dichiarato al fisco ben 41,6 miliardi di euro e pagato 6,2 miliardi di Irpef. È quanto emerge dal Rapporto Annuale sull'Economia dell'Immigrazione 2012, realizzato dalla Fondazione Leone Moressa 2. Non solo. I lavoratori stranieri subiscono maggiormente gli effetti della crisi (il loro tasso di disoccupazione è passato dall'8,5% del 2008 all'12,1% del 2011), mostrano livelli di povertà più elevati (il 42,2% delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà) e le loro retribuzioni sono inferiori di oltre 300 euro a quelle degli italiani.
Bassi stipendi. Per quanto riguarda gli occupati stranieri (che sono oltre 2 milioni), per la maggior parte si tratta di lavoratori dipendenti (86,7%), giovani, inquadrati come operai (87,1%), dalla bassa qualifica professionale, nel settore del terziario (51,5%) e in aziende di piccola dimensione (il 54,6% lavora in imprese con meno di 10 persone). Un dipendente straniero guadagna al mese (dato quarto trimestre 2011) una cifra netta di 973 euro, oltre 300 in meno rispetto a un collega italiano. E ancora: ha più possibilità di portare a casa una retribuzione elevata l'immigrato che lavora nel settore dei trasporti (1.257 euro al mese) rispetto a chi lavora nel settore dei servizi alle persone (717 euro), dove sono occupate maggiormente le donne.
I redditi dei migranti. In Italia si contano complessivamente 3,4 milioni di contribuenti nati all'estero (dati riferiti ai redditi del 2010) che dichiarano quasi 42 miliardi di euro. Gli stranieri dichiarano mediamente 12.481 euro (7mila in meno rispetto agli italiani). Nel 2010 i nati all'estero hanno pagato di Irpef 6,2 miliardi (pari al 4,1% dell'intero Irpef nazionale), che si traduce in 2.956 euro a testa. Gli immigrati beneficiano, più degli italiani, di detrazioni fiscali a causa del basso importo dei loro redditi: infatti solo il 63,9% dei nati all'estero che dichiara redditi paga effettivamente l'Irpef, contro il 75,5% dei nati in Italia.
Alti livelli di povertà. Il 42,2% delle famiglie straniere vive al di sotto della soglia di povertà, contro il 12,6% delle famiglie italiane. Il reddito percepito permette loro di risparmiare appena 600 euro all'anno, dal momento che i consumi pareggiano quasi le entrate. Le famiglie immigrate dichiarano maggiori difficoltà economiche rispetto a quelle italiane (dati 2009): il 21,6% dice di arrivare a fine mese con molta difficoltà (contro il 14,5% delle italiane), il 23,4% è stata in arretrato con il pagamento delle bollette, il 60,1% non è in grado di sostenere una spesa imprevista di 750 euro e il 53,6% non può permettersi una settimana di ferie.



Corriere del Mezzogiorno
Alessandro Leogrande
Giuseppe Di Vittorio prestò sempre molta attenzione al nesso tra lavoro e flussi migratori. È stata innanzitutto la sua vita – gli anni del bracciantato pugliese, quelli del lungo esilio all'estero, quelli dei primi passi della Cgil dopo la Liberazione – a porre al centro della sua riflessione, oltre che della sua azione sindacale, tale questione. Eppure, benché centrale, essa era stata sinora poco indagata: un recente libro edito da Donzelli, “Le strade del lavoro”, a cura di Michele Colucci, raccoglie finalmente i suoi scritti sulle migrazioni. Come scrive lo stesso Colucci nell'introduzione, i tre distinti momenti biografici sopra indicati sono all'origine di un nutrito numero di interventi estremamente interessanti, dal momento che alcuni problemi difficili da risolvere sembrano ripresentarsi in modo sorprendentemente identico nell'Italia odierna.
Partiamo dal primo scritto raccolto nel volume, una lettera indirizzata al direttore del “Corriere delle Puglie” nell'aprile del 1914 a proposito dei fatti di Colapatella. Cosa era accaduto? Nella masseria di Colapatella, a pochi chilometri da Cerignola, c'era stato un sanguinoso scontro tra lavoratori locali e lavoratori “forestieri” provenienti dalla provincia di Bari, che aveva lasciato in mezzo ai campi un morto e diversi feriti. Alle spalle di tanta violenza tra gli stessi lavoratori, vi era la particolare struttura del lavoro agricolo nella Puglia di primo Novecento. In genere si pensa che il “lavoro migrante” sia approdato in agricoltura solo negli ultimi quindici-vent'anni con l'arrivo nelle nostre campagne dei braccianti stranieri, africani o est-europei, che hanno rimpiazzato i vecchi braccianti pugliesi, siciliani, calabresi; e si deduce che l'intreccio tra vulnerabilità dei nuovi arrivati, scarsa sindacalizzazione, paghe da fame e casi di grave sfruttamento lavorativo sia una fatto relativamente recente. Come se prima, un secolo fa, a lavorare la terra e a raccogliere i suoi frutti, fossero unicamente braccianti stanziali, residenti a pochi chilometri dai fondi agricoli, “etnicamente” compatti.
Al contrario, il Tavoliere era una complessa area d'immigrazione anche un secolo fa. Solo che allora gli “stranieri” che approdavano nell'agro di Cerignola perché a casa loro soffrivano la fame provenivano dalle altre province pugliesi, seguendo massicce migrazioni stagionali molto simili a quelle attuali. Da dove nasceva il dissidio? Mentre i braccianti cerignolani erano da tempo organizzati in una Lega combattiva, che aveva ottenuto (almeno in parte) il rispetto dei propri diritti e un sostanziale aumento delle retribuzioni, i “forestieri” provenienti dalla provincia di Bari – scarsamente organizzati – accettavano di lavorare anche per 40-50 centesimi in meno al giorno, all'epoca una cifra enorme. Ovviamente i proprietari terrieri, e i loro “suprastanti”, avevano tutto l'interesse a ingaggiare questi ultimi per indebolire la Lega. Da qui gli scontri sanguinosi.
L'intelligenza di Di Vittorio fu nell'intuire che il lavoro migrante è connaturato all'essenza stessa dell'agricoltura, e che ogni forma di organizzazione sindacale – nata per unire tutti i lavoratori – ne avrebbe dovuto tenere conto. Era inutile accusare i nuovi arrivati di crumiraggio: il problema era semmai trovare il modo di ricostituire un'alleanza plurale tra diversi lavoratori, informandoli sui loro diritti soprattutto nelle province di partenza, interpretando lo stesso sindacato come una struttura “migrante” dal momento che deve avere a che fare con dei lavoratori “migranti”. Ma di quale Puglia stiamo parlando, di quella di un secolo fa o di quella dei giorni nostri? Stiamo parlando di entrambe, e risiede proprio in questo il grande interesse degli scritti di Di Vittorio.
Nei lunghi anni dell'esilio in Francia, Di Vittorio si occupò molto di lavoratori immigrati al di là delle Alpi, fu anche direttore del giornale “La voce degli italiani” a loro rivolto. E, da tale posizione, si trovò ad affrontare altre questioni estremamente moderne: le tensioni cicliche contro gli “indesiderabili”, il problema del diritto d'asilo, la fragilità dei “sans papier”, l'infamia dei respingimenti – soprattutto quando ciò voleva dire riconsegnare lavoratori italiani alla polizia fascista.
C'è un articolo commovente del 1938, “L'atroce dramma di Basilea”. Narra di Giovanni Cadorin, un settantenne che dopo aver lavorato per 47 anni come operaio in Svizzera si vede recapitare un decreto di espulsione allorquando – non riuscendo più a trovare lavoro – è lui stesso a rivolgersi a un istituto di beneficenza. La burocrazia è inflessibile: benché abbia passato tutta la sua vita in Svizzera, l'anziano è irregolare, deve essere accompagnato alla frontiera e riconsegnato alla polizia italiana. Durante il tragitto verso il rimpatrio Cadorin si ammazza...
Anche qui, di quale Europa stiamo parlando? Di quella del '38 o di quella dei nostri anni? In questo come in altri articoli, Di Vittorio pone l'attenzione su un aspetto cruciale della questione migratoria, per averlo esperito in prima persona: quasi sempre espellere un irregolare non vuol dire espellere un delinquente, un “agente provocatore”, ma un lavoratore in nero o un rifugiato politico che per un motivo o per un altro non si è visto riconosciuto l'asilo politico. E soprattutto, in molti casi, espellerlo vuol dire riconsegnarlo alla polizia di uno stato totalitario. È accaduto con la Libia negli ultimi anni, accadeva con l'Italia fascista settanta anni fa.



L’atroce dramma di Basilea
di Giuseppe Di Vittorio
«La Voce degli Italiani», 26 gennaio 1938
La voce d’ieri ha pubblicato una corrispondenza da Basilea che getta nel lutto l’emigrazione italiana, tutte le emigrazioni, e susciterà
dei fremiti di pietà e di sdegno in tutti gli uomini di buon cuore.
Questa corrispondenza, nella sua fredda semplicità, denuncia un dramma atroce, destinato a gettare una luce cruda sul calvario doloroso,
e quasi sempre ignorato, dell’emigrazione, specialmente dell’emigrazione italiana.
Un vecchio italiano di circa 70 anni Giovanni Cadorin, essendo solo, povero e senza lavoro, era stato costretto a chiedere aiuto e assistenza a una istituzione svizzera di beneficenza.
La polizia elvetica intervenne e gli comunicò il decreto di espulsione dalla Svizzera e l’ordine di consegnarlo alle autorità italiane
della frontiera. Dei buoni amici italiani intervennero, raccolsero 50 franchi per il povero vecchio, fecero intervenire un avvocato in suo
favore.
Inflessibile, spietata, inumana, la polizia svizzera non volle intendere ragione. Il giorno prima che spirasse il termine ultimo della breve proroga che gli era stata accordata, due agenti s’impossessarono del vecchio italiano, per condurlo di forza alla frontiera.
Durante il tragitto, il povero Cadorin, riuscito a distrarre per un istante l’attenzione dei due agenti, si uccise ai loro piedi, a colpi di rivoltella.
La morte, piuttosto che la frontiera italiana! Questo è il fatto brutale, che ci fa fremere d’indignazione e di collera.
Vi è un particolare che mostra questo dramma in tutto il suo orrore: Giovanni Cadorin era emigrato in Svizzera da ben 47 anni.
47 anni di lavoro: tutta la vita attiva, una lunga vita di lavoratore! Egli era giovane, sano, vigoroso, rendeva; rendeva un ottimo
profitto. Egli fu tollerato, quantunque sempre con la spada di Damocle dell’espulsione sospesa sul suo capo. Egli era tollerato!
Poi, vecchio, debole, stanco, ridotto a non poter rendere più lo stesso profitto, è lasciato senza lavoro, senza pane. Crede alla filantropia,
il povero Cadorin, si reca a un istituto di «beneficenza»… E arriva la polizia, che lo espelle, lo ricaccia, povero resto d’umanità
che non è più capace di produrre un profitto! Pingue moralista e molto «cristiana» borghesia svizzera: nel
dramma di Giovanni Cadorin è scritta la tua «morale», la tua essenza, la tua condanna.
Il dramma di Giovanni Cadorin è più eloquente di tutti i discorsi per illustrare le affinità e le simpatie del signor Motta col regime
dgli assassini di Matteotti, di Gramsci e dei Rosselli; è più tremendo d’un atto d’accusa per illustrare l’obbedienza del governo svizzero
verso quello diMussolini; è più terribile d’una condanna, per far vedere in tutta la sua luce sinistra i motivi veri di certi attacchi contro la Sdn e di certi referendum indetti, in nome della «morale», dal governo filo-fascista elvetico!
Ma il dramma di Giovanni Cadorin sorpassa i limiti della persona e della Svizzera e assurge a simbolo del triste calvario cui è condannata
l’emigrazione italiana in tutti i paesi.
Il dramma di Giovanni Cadorin simboleggia innanzi tutto gli effetti della politica antitaliana e bestiale che segue il governo fascista
verso l’emigrazione; del governo d’un paese che ha milioni dei suoi cittadini emigrati nel mondo e che, invece di assisterli, di difenderli, di proteggerli, li perseguita, li denuncia, ne richiede l’espulsione, l’imprigionamento e peggio.
È triste, molto triste, la vita di tutti gli emigrati. E più triste ancora è la vita degli emigrati italiani, i quali non solamente non possono illudersi di ottenere aiuto e protezione dalle autorità del proprio paese, nei momenti più tragici della loro grama esistenza, ma
sanno di non poter neppure ottenere un atto della più elementare giustizia: sanno che se in tali momenti un rappresentante del governo
fascista interviene, non lo fa che per dare il colpo di grazia! Nel caso di Giovanni Cadorin, sarebbe bastato che il console italiano
fosse intervenuto per soccorrere il povero vecchio e per accordargli la protezione del proprio paese, perché il dramma fosse evita-
to. Ma il console italiano di Basilea non è intervenuto. E se ha avuto occasione di occuparsene, sarà stato per chiedere alle autorità svizzere di non accontentarsi di espellere Cadorin, ma di accompagnarlo alla frontiera, di consegnarlo agli sbirri del regime. Le polizie di tutti i paesi sanno ormai che, per quanto riguarda gli emigrati italiani, il massimo piacere che si possa fare al governo fascista, è quello di consegnarli alla polizia italiana. Il governo svizzero, amico servile e ubbidiente del governo fascista italiano, ha agito come ha agito, sapendo di compiacere al regime che delizia il nostro infelice paese.
Il dramma di Basilea è il dramma dell’emigrazione italiana, specialmente nei suoi rapporti col regime antitaliano che governa il proprio
paese.
La situazione dell’emigrazione italiana, quale risulta così tragicamente illustrata dal dramma di Basilea, impone dei doveri particolari
agli emigrati italiani, per cercare in se stessi e nella solidarietà fraterna dei lavoratori del paese d’immigrazione, la protezione di cui
essi hanno bisogno e che non può venire loro dalle autorità del proprio paese, fin tanto che l’Italia sarà retta da un governo antitaliano
e nemico di tutto il popolo italiano. Anzi, dobbiamo trovare in noi stessi e nella solidarietà con i nostri fratelli locali la protezione di cui abbiamo bisogno contro le persecuzioni ed i crimini del governo antitaliano del nostro paese.
Questa protezione noi dobbiamo cercarla innanzi tutto nella nostra unione, nella nostra organizzazione.
Noi siamo sicuri che se gli italiani liberi ed onesti di Basilea fossero stati uniti e fortemente organizzati avrebbero potuto intervenire
più prontamente, più largamente, in favore del povero Cadorin e prevenire l’atroce dramma.
L’adozione dello Statuto giuridico, che tutti gli immigrati attendono con impazienza in Francia, impedirà fra l’altro le ingiustizie
che spesso culminano in drammi come quello di Basilea. Ma, anche per questo, il dovere primo che s’impone a tutti gli italiani emigrati
è quello dell’unione, dello sviluppo del sentimento di solidarietà e di fraternità fra gli italiani, dell’unione e della fraternità degli italiani col popolo del paese d’immigrazione.
Con la nostra unione, con la nostra forza, con la nostra solidarietà, possiamo assicurare la difesa e la protezione comune e dei singoli,
possiamo impedire tanti drammi, possiamo portare un contributo efficace per la conquista della libertà in Italia.



Denuncia di The Children’s Society: i bambini rifugiati in cerca di asilo nel Regno Unito si scontrano con una dura “cultura del dubbio”.
I minori non accompagnati che si recano nel Regno Unito per chiedere asilo vengono trattati con sospetto e sfiducia, il che li lascia spaventati e confusi, denuncia un nuovo rapporto.
Immigrazioneoggi, 12-10-2012
Il 21 settembre scorso, The Children’s Society (associazione inglese di difesa dei bambini) ha pubblicato un rapporto dal titolo Nell’ignoto: i viaggi dei bambini attraverso il processo di asilo, in cui denuncia che il processo di valutazione delle richieste di asilo dei minori non considera a sufficienza il loro background e che non gli permette di comprendere quanto gli succeda: l’assenza di un approccio consono ai bambini, una molto diffusa cultura di sfiducia e dispute riguardo la loro età, sono fattori che accrescono il senso di confusione e insicurezza. Sono stati intervistati 33 giovani richiedenti asilo di età compresa tra i 13 e i 20 anni, giunti da soli nel Regno Unito in cerca di protezione da guerre e violazioni di diritti umani, da Paesi come Afghanistan, Iran, Somalia, Sudan, Siria e altri. Una piccola frazione dei 1.277 bambini non accompagnati arrivati lo scorso anno, spesso sopravvissuti a stragi, testimoni della morte dei loro cari o fuggiti dal reclutamento come bambini soldato. Esposti, durante il viaggio, a ulteriori abusi, violenze e sfruttamenti.
Dalle interviste emerge che questi bambini si sentono “impotenti”: molti riportano che lo staff della UKBA (l’agenzia britannica del controllo immigrazione) è maleducato e aggressivo nel tentativo di “incastrarli”. Non c’è un adulto responsabile ad assisterli e a rappresentarli e in alcuni casi l’interprete non parla correttamente la lingua. Questo fa percepire il rifiuto di protezione come ingiustificato e li convince che i funzionari partano dal presupposto che stessero mentendo, nel conseguente tentativo di farglielo ammettere. Ciò ha causato grande ansia in bambini già traumatizzati, con forti ripercussioni sul loro benessere.
L’amministratore delegato di The Children’s Society, Matthew Reed, afferma: “Il livello di ansia e confusione registrato in questi bambini è davvero preoccupante [..] è necessario un radicale mutamento nell’approccio usato con i minori che vengono qui in cerca di aiuto. Invece di ricevere le attenzioni e il sostegno che necessitano, vengono trattati con sospetto. I bambini devono capire cosa succede loro e avere il controllo della situazione”. Occorre, dunque, formare interpreti specializzati, riformare il sistema di comunicazione e feedback e debellare la “cultura di sfiducia” che tratta ingiustamente i bambini.
La UKBA, dal canto suo, ha già dichiarato, per mezzo di un suo rappresentante: “Prendiamo la nostra responsabilità verso questi bambini molto seriamente. Il nostro personale è specializzato e il miglior interesse del bambino è il cuore del processo decisionale. Stiamo già lavorando nelle molte aree identificate dal rapporto, ma lo valuteremo comunque molto attentamente”.
(Samantha Falciatori)



Bambine in trincea
la Repubblica, 11-10-2012
Laura Boldrini
Non c’è dubbio che le bambine e le adolescenti si trovino spesso in trincea. Nella quotidianità delle mura domestiche così come nei contesti di conflitto. Sono le cifre a parlare e spesso non la dicono tutta. Per paura, per vergogna.
In guerra e durante la fuga verso un posto sicuro le persone più esposte a rischi e abusi sono le bambine e le adolescenti. Su di loro in questi contesti si esercitano le peggiori crudeltà, gli abusi più riprovevoli. Una condizione che emerge a Lampedusa come in Tailandia, in Uganda come in Colombia e Finlandia. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite dal 2010 sta portando avanti in questi luoghi una serie di incontri con donne e bambine rifugiate e le problematiche emerse sono molto simili, nonostante la diversità dei contesti.
La violenza sessuale purtroppo è la piaga più diffusa, seguita dall’induzione alla prostituzione per sopravvivere, il cosiddetto “survival sex “. L’impunità di chi commette gli stupri è tra le preoccupazioni delle bambine così come delle donne che vorrebbero denunciare le violenze. Offrire istruzione alle bambine è una delle richieste più diffuse come strumento di  loro emancipazione e di tutela.
Infine, il dramma delle spose bambine che è anche il tema della prima Giornata Mondiale delle Bambine voluta dalle Nazioni Unite e celebrata oggi in tutto il mondo. Le cifre sono agghiaccianti: un terzo delle giovani donne è stata data in sposa prima dei diciotto anni ed un terzo di queste si è sposata prima dei quindici.
Il matrimonio forzato delle bambine nega loro l’infanzia, le espone a violenze e abusi e è causa di gravidanze non volute che spesso mettono a rischio la loro stessa vita. Le patologie legate alla gravidanza sono infatti la causa principale di morte in questa fascia di età nei Paesi in via di sviluppo.
Per questo il matrimonio forzato delle bambine è considerato dalle Nazioni Unite una violazione dei diritti umani fondamentali. Una violazione che dovrebbe essere duramente perseguita ovunque, senza eccezioni.

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