Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri
«Le scimmie verdi»
Giuliano Santoro
Daniele Barbieri e Hamid Barole Abdu nello spettacolo  teatrale «Le scimmie verdi» raccontano a due voci i paradossi del razzismo e delle migrazioni. Girano l’Italia da due anni. Li abbiamo contattati per una intervista “doppia”, approfittando del fatto che hanno aderito alla nostra campagna Clandestino.

«Le scimmie verdi» si muove su uno scambio di identità dei due
raccont-attori: è una metafora delle migrazioni?

Hamid. «L’idea nasce fra due amici, esperti di immigrazione e intercultura, uno giornalista e l’altro con esperienze ventennali, oltre che… migrante. Eravamo stanchi di convegni organizzati quasi sempre sulla stessa musica e con le solite persone; a volte con il solo scopo di accaparrarsi più fondi per il prossimo progetto. Noi due pensammo di inventare un testo fra il gioco e la provocazione, fra le pseudo-scienze e “il si dice” nei bar. Lo scambio iniziale di identità aiuta a mostrare quanto il razzismo sia ridicolo».

Daniele. «Mettersi nei panni altrui è uno dei giochi teatrali più vecchi ma è anche una esperienza umana e politica decisiva: a volte gioiosa, altre drammatica. Ma le identità multiple, confuse o inventate sono uno dei nostri problemi: di tute e tutti ma in modo particolare dei cosiddetti G2, figli di quel sesto continente che è la migrazione di massa».

In che modo la peggiore tradizione dell'epoca coloniale viene ripescata
nel razzismo postmoderno?

Hamid. «Mio padre era un ascaro, cioè combatteva per i suoi nemici. Io ho il passaporto italiano ma non ne sono certo fiero, mi serve più che altro per sottrarmi alla dittatura che regna in Eritrea. Il razzismo è complesso. Vedo molti emigrati che dopo pochi anni si trasformano in razzisti proprio come certi “terroni” che dopo un po’ di anni al Nord vorrebbero essere più “lumbard” di tutti. E’ un meccanismo terribile già conosciuto nei campi di concentramento dove alcuni ebrei si prestavano a fare gli aguzzini, o nel colonialismo: come dice Fanon, il colonizzato si traveste e mette in atto gli stessi comportamenti del colonizzatore; oggi nei cantieri  o nella raccolta di pomodori i caporali cioè “la feccia” sono gli immigrati».

Daniele. «Io sono indigeno invece ma di questi tempi ben poco fiero di essere confuso nel mondo con l’Arturo Ui, il signor P2 che ci comanda. Ho sempre pensato che il nostro nuovo razzismo nasca da precise ragioni economiche ma si nutra anche di due rimossi storici: un secolo di emigrazioni e il breve ma feroce periodo del colonialismo con il suo immaginario che persiste tuttora».
Che relazione c'è tra il lavoro giornalistico e di indagine sociale e
quello teatrale?

Daniele. «A questo rispondo io per primo, visto che Hamid è soprattutto poeta. Visto il pessimo giornalismo che abbiamo [salvo rarissime eccezioni] chi ha qualche storia da raccontare o persino un’indagine sociale deve cercare altre strade: Internet va benissimo ma il teatro – lo scriverei fra virgolette - garantisce il contatto fisico con le persone e questo mi pare decisivo nei tempi dell’autismo di massa».
Hamid. «Girando l’Italia [oltre 110 repliche, in 2 anni] abbiamo due fortune: quasi sempre c’è un dibattito che ci arricchisce e a volte ci vengono raccontate storie, personali o collettive, che magari non hanno trovato ascolto e noi proviamo a divulgarle. In alcune circostanze Le scimmie verdi è stato usato invece come spunto informativo e formativo, per esempio in due master interculturali [Padova e Roma], in corsi per mediatori [Pescara e Chieti] ma, in una versione più semplice, anche in scuole medie e superiori».

Come dimostrano i fatti di Rosario, il razzismo è anche una potente arma di disciplinamento del lavoro: se sei ubbidiente e ti accontenti di 4 soldi non dai fastidio, se rivendichi i tuoi diritti vieni colpito duramente.  Non pensate che questo aspetto sfugga alla sinistra che dice "se vengono per lavorare possono restare"? Non ci vorrebbero strumenti culturali nuovi per combattere il razzismo?
Hamid. «Tutto vero. Gran parte della sinistra si muove come fosse di destra, attenta soprattutto agli interessi del padronato e dunque allo sfruttamento selvaggio dei lavoratori. Non per caso abbiamo avuto pochissime richieste per le nostre “scimmie” da amministratori del centro-sinistra mentre ci chiamano, con una sorta di tam-tam fra loro, associazioni o gruppi attivi sui territori: a volte ci siamo trovati fra persone già sensibili ed è comunque uno scambio piacevole ma qualche volta ci hanno paracadutato in territori “ostili” ed è stato interessante vedere, dopo il nostro spettacolo, il pubblico litigare anche perché capivamo che per la prima volta in quel luogo  discutevano di migranti e razzismo in libertà, fuori cioè dal teatrino politico».

Daniele. «Concordo. La sinistra istituzionale è un disastro ma è anche una questione culturale. Penso a la Repubblica che da anni usa come testata delle pagine “Noi e loro”: questo non è razzismo ma idiozia pura. Non esiste un “noi” per fortuna, figuriamoci un “loro” omogeneo. Penso al sindacato che da decenni parla di immigrati utili perché svolgono lavori che gli italiani “non vogliono fare” dimenticando di precisare che in certi posti non dovrebbe lavorare nessuno perché in quelle condizioni di insicurezza e sfruttamento si muore».

Dove si può vedere «Le scimmie verdi»?
Daniele. «Siamo a Torino, al CafèLiber, il 27 gennaio, poi in Toscana e Sardegna ma le date sono da decidere. Intanto cominciamo a portare in giro un testo nuovo che si chiama Omsizzar, una parola strana ma che diventa più comprensibile se la leggete a rovescio».

Hamid. «Comunque tutte le nostre date sono su www.hamidbarole.it e ovviamente sul sito di Carta se ci ospitate. Vale forse aggiungere che la performance dura 45-50 minuti, non richiede spazi particolari, ma noi chiediamo sempre un contesto in cui sia possibile il dibattito. Però succede una cosa buffa: i contenuti sono forti e la sorpresa finale spiazza assai… perciò a volte le persone non se la sentono di discuterne “a sipario aperto” ma preferiscono farlo quando tutto è finito, magari quando andiamo via. In questo modo abbiamo preso molto freddo ma sono nate anche grandi amicizie».
Carta n.1 2010
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