Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

10 gennaio 2014

Il primo raggio di luce sulle tende di Rosarno
Avvenire, 10-01-2014
Antonio Maria Mira
Una piccola luce nel buio della tendopoli ormai sempre più baraccopoli di San Ferdinando, dove tra degrado e primi casi di infezioni vivono ormai circa 1.200 immigrati, senza elettricità né riscaldamento, metà nelle tende della protezione civile e metà in decine di baracche di rami, teli di plastica e corde. E proprio in una di queste si è accesa la luce, è una piccola chiesa che si illumina, grazie a una batteria, ogni domenica sera per la messa e durante la settimana per momenti di preghiera. C’è un tavolino come altare, alcune panche, una croce di metallo offerta da un artigiano di Rosarno e perfino una piccola campana. La chiamano "la chiesetta dei cristiani", nata su iniziativa di don Roberto Meduri, parroco di S. Antonio al Bosco di Rosarno, insieme agli stessi immigrati sia cattolici che di altre confessioni cristiane. E infatti alcuni momenti di preghiera sono interconfessionali. Prima tutto al buio, come il resto della vita degli immigrati, ora con la luce fornita dalla batteria. Un bel segnale di speranza come la piccola moschea nata in un’altra baracca a poche decine di metri.
Convivenza e autogestione, con molta dignità, pur nel dramma degli immigrati nella Piana di Gioia Tauro. Dopo l’allarme lanciato da Avvenire un mese fa dopo la morte di un giovane liberiano, la situazione è peggiorata. I medici di Emergency, che operano nella zona grazie alla collaborazione con la parrocchia di S. Marina Vergine di Polistena, hanno segnalato alla Asp di Reggio Calabria tre casi di scabbia e un focolaio di tubercolosi. Ce lo riferisce il sindaco di San Ferdinando, Domenico Madafferi. «Sto facendo disinfestare le tende ma gli incaricati mi dicono che non possono intervenire nelle baracche. E devo fare tutto solo coi fondi del comune. Infatti malgrado le promesse non ha ancora visto un euro, né dal ministero dell’Interno né dalla Regione. Ci hanno lasciati soli». Non si sono visti i 40mila euro del Viminale annunciati sempre un mese fa dal Prefetto di Reggio Calabria che dovevano permettere di portare l’elettricità. E allora, ripete, «anche per questo dovrò usare fondi del comune che però non si può certo permettere di pagare 7mila euro al mese».
Intanto va avanti l’inchiesta della procura di Palmi. Dopo vari sopralluoghi nella tendopoli e l’acquisizione di documenti, il procuratore Giuseppe Creazzo sarebbe intenzionato a incontrare il nuovo prefetto per cercare di smuovere qualcosa, perché la situazione potrebbe precipitare. E allora il sindaco rivela: «Ho pronta l’ordinanza per lo sgombero. Vorrei non usarla per evitare tensioni ma non posso aspettare la mannaia della magistratura. Non posso tenere io in mano il cerino acceso». Ma sarebbe dramma su dramma. Dove andrebbero gli immigrati? Oltretutto ce ne sono già almeno altri duemila sparsi nelle campagne, gli "invisibili". Intanto nella tendopoli si cerca di vivere malgrado tutto. È incredibile come la baraccopoli sia sorta in modo ordinato con le baracche tutte in fila come un villaggio, con strette vie e piazzette dove gli immigrati mangiano. Ma dietro l’ultima fila di baracche cumuli di rifiuti che nessuno raccoglie (ogni tanto vengono bruciati) e un rigagnolo di acqua sporca, dove scorrazzano cani randagi e qualche pecora. E già perché poco più avanti c’è una sorta di bazar con le baracche spaccio alimentare, le baracche ristoro dove si cucinano e si vendono polli e carne di pecora. Tutto insieme, con ordine ma evidentemente con scarsissima igiene (l’unica acqua calda è quella prodotta su fuoco a lega e venduta a 50 centesimi a secchio).
Ma la vita va avanti, poco lavoro ma tante speranze come ha scritto un immigrato su una maglietta stesa tra le baracche: «For a new life», per una nuova vita. Per fortuna niente tensioni con gli abitanti locali. È domenica mattina e un gruppo di ghanesi va alla celebrazione nella parrocchia. Al termine don Roberto invita gli immigrati a intonare un loro canto in lingua "twi" e i bambini rosarnesi a ripetere il ritornello: «Maria madre di Gesù aiutaci». Già, ce n’è proprio bisogno. All’uscita dalla chiesa un immigrato prende da parte don Roberto e gli chiede sotto voce un po’ di pasta.



Lampedusa a Sant Pauli
Storie. Dal Canale di Sicilia al Sant'Anna di Crotone, per approdare nel quartiere «rosso» di Amburgo. Dove la polizia ha appena sgomberato un centro sociale e istituito una «zona ad alto pericolo». Ecco dove sono finiti 350 rifugiati africani
il manifesto, 10-01-2014
Susi Meret
Alla manifestazione «Lampedusa ad Amburgo», il 2 novembre scorso, c'erano oltre 10 mila persone, a dimostrare come la questione dei diritti fondamentali violati sia in grado di mobilitare ampi settori della società civile. Un'altra grande manifestazione è pro­grammata ad Amburgo ai primi di marzo 2014.
La storia del gruppo «Lampedusa ad Amburgo» è solo il pezzo più recente dell'Emergenza Nord Africa. All'inizio della primavera 2013, essa si è materializzata a migliaia di chilometri da Lampedusa e dall'Italia: qui, nella metropoli portuale di Amburgo, città tra le più grandi del Nord Europa, che con l'hinterland arriva a 5 milioni di abitanti, quanto l'intera popolazione della vicina Danimarca. Ad Amburgo gli africani dell'Emergenza sono circa 350, a testimonianza dei percorsi di vita negata di migliaia di uomini e donne arrivati in Italia durante la guerra in Libia nel 2011. Da oltre tre anni vivono in prima persona le conseguenze di politiche migratorie e di asilo nazionali ed europee basate su controllo, marginalizzazione e rifiuto.
Storie di vita negate che si somigliano, come quella di Amadou, originario di Bamako, e portavoce del gruppo francofono che incon­triamo nella Chiesa del quartiere St. Pauli. Nove mesi al centro Sant'Anna di Crotone e un mese da senzatetto a Roma prima di arrivare qui. Parliamo mentre intorno finiscono colazione e fanno le pulizie nella Chiesa di St. Pauli, che fino ad un mese fa ospitava oltre 80 rifugiati.
La municipalità di Amburgo ha inizialmente offerto loro un breve servizio temporaneo di accoglienza invernale, chiuso già all'inizio di maggio, quando le temperature qui nel nord Europa vanno ancora sottozero. È stato uno dei primi tentativi della municipalità, a guida socialdemocratica, di allontanare i rifugiati «volontariamente», negando servizi di accoglienza di base e richiamandosi alle regole di Dublino: i rifugiati devono rientrare in Italia, loro primo paese d'ingresso, che deve occuparsi dell'asilo. La risposta è stata un'azione di protesta organizzata davanti al Municipio, dove è comparso lo striscione «Non siamo sopravvissuti alla guerra della Nato in Libia per venire a morire sulle strade di Amburgo».
La mancanza di ascolto ha contribuito alla nascita del gruppo «Lampedusa ad Amburgo», che nel tempo si è fatto compatto, organiz­zato e lucido nella rivendicazione dei propri diritti. Come altri movimenti di migranti, il gruppo chiede accoglienza, diritto alla casa, al lavoro, la possibilità di entrare a far parte integrante della società locale. Scrive uno dei portavoce, Asuquo Udo, in una lettera aperta ai cittadini di Amburgo: «Vogliamo diventare parte della società di Amburgo, non possiamo e non vogliamo tor­nare alla miseria, né in Italia, né nei paesi africani». Molti dei rifugiati dell'Emergenza prima di lasciare la Libia lavoravano come operai edili, carpentieri, meccanici, giornalisti, esperti informatici. Sono qui per vivere, lavorare, inserirsi nella società.
Ralf Lourenco, attivista del movimento Karawane (http://?the?ca?ra?van?.org/), nella sede di St. Pauli spiega: «Quando i rifugiati si sono rivolti a noi erano già organizzati e avevano quattro portavoce. (...) Li abbiamo aiutati a rendere pubbliche le loro riven­dicazioni, organizzando dimostrazioni, incontri pubblici e con la stampa, aiutandoli nelle traduzioni in tedesco. Ma i contenuti erano già chiari in partenza». A differenza di altre realtà che si occupano di diritti di rifugiati e migranti, il gruppo di Kara­wane incoraggia e sostiene forme di self-empowerment ed auto-organizzazione dei migranti e rifugiati. Perché non sono «vittime da aiutare», ma soggetti autonomi, pensanti, in grado di autorappresentarsi, formulare e reclamare i propri diritti. Il supporto di Karawane si traduce spesso in forme di sostegno pratiche, ma non ci sono intermediari. Sono i rifugiati che vanno agli incontri con le autorità, la stampa, i sindacati, gli studenti, i movimenti di cittadini. Questo è uno dei punti di forza di Lampedusa ad Amburgo, che è innanzitutto un movimento dei migranti, rispetto ad altre realtà spesso «per i migranti».
Un esempio: il primo maggio 2013 il gruppo di Karawane e una cinquantina di africani di quella che ormai è la «Lampedusa ad Amburgo» vanno tutti al Kirchentag, il convegno internazionale delle chiese protestanti. Tremila tra fedeli, rappresentanti della comunità protestante, intellettuali, politici. Si discute anche di diritti degli immigrati e di accoglienza. I rifugiati repli­cano: «Wir sind her!» («Siamo qui!). Un'azione che ottiene un risultato: il vescovo protestante della città, Kirsten Ferhs, deve riconosce che serve fare qualcosa. In seguito, la chiesa di St. Pauli apre le porte a più di 80 rifugiati e altri luoghi di culto seguono l'iniziativa: dalla moschea a St Georg alla chiesa Erlöserkirche. A questa forma di accoglienza se ne aggiungono altre, presso associazioni e privati, soprattutto e non a caso nel quartiere di St. Pauli.
La rivendicazioni politiche di «Lampedusa ad Amburgo» fanno anche appello al §23 della legge di soggiorno tedesca, in cui lo stato federale decide, in accordo con il ministero degli Interni. Il paragrafo agevola istanze di residenza nel caso specifico di gruppi omogenei e numerosi, come nel caso di Lampedusa ad Amburgo. Il Senato federale di Amburgo replica con la proposta di accettare la pratica, che in tedesco si chiama Duldung, per cui la domanda di asilo viene fatta su base esclusivamente individuale. Ciò com­porterebbe per i rifugiati la perdita di tutto l'iter precedente, incluso il riconoscimento di asilo già avvenuto in Italia, dopo attese lunghissime. Il rifiuto della domanda di asilo, inoltre, avvierebbe automaticamente procedure di detenzione nei centri di espulsione della Germania e deportazione. In sostanza, nessun riconoscimento collettivo al gruppo, ma solo una scelta su base individuale. Più che una soluzione, i portavoce di «Lampedusa ad Amburgo» la interpretano come un nuovo tentativo di dividere il gruppo, diluirne le rivendicazioni collettive, l'organizzazione e compattezza. La proposta del Senato è considerata inaccettabile dalla maggioranza del gruppo, che ha replicato con una lettera aperta (http://?www?.the?voi?ce?fo?rum?.org/?n?o?d?e?/?3?396).
Su questo punto si sono create alcune difficoltà tra le molte e diverse realtà impegnate nella difesa dei diritti di «Lampedusa ad Amburgo». Secondo Ralf, «la chiesa si preoccupa principalmente dell'aspetto umanitario della questione, concentrandosi sui casi individuali. Per la chiesa la soluzione di gruppo non è possibile. La chiesa di St. Pauli vuol essere depoliticizzata, e questo influisce negativamente sul gruppo, che ha avuto alcune esperienze negative con rappresentati della comunità della Chiesa coin­volti in negoziati politici senza il sostegno collegiale della Lampedusa».
La chiesa è un fattore importante nel mobilitare la comunità protestante, ma indubbiamente le relazioni si complicano quando dalla questione prevalentemente umanitaria e legata al singolo si passa a dover prendere posizioni politiche, che comportano inevita­bilmente una critica dei poteri costituiti e delle norme vigenti. Qui il ruolo della Chiesa è indebolito anche dalle pressioni fatte dalle autorità locali. All'incontro settimanale degli attivisti nella chiesa di St Pauli, Philippe sostiene si tratta anche una questione pragmatica: «Una cosa è intervenire quando la situazione fa vedere che certe politiche non funzionano, un'altra pre­tendere di voler cambiare radicalmente le politiche di asilo e immigrazione». Per Philippe «l'atto umanitario è anch'esso un atto politico», ma riconosce che esistono vincoli e limiti dettati dal ruolo e dalla natura stessa dei rapporti della Chiesa con le istituzioni, si pensi all'aspetto economico.Tuttavia,seduti tra gli attivisti è difficile non notare che nessun portavoce di «Lam­pedusa ad Amburgo» è tra noi durante la riunione. Alcuni ascoltano seduti in disparte, altri dalla navata superiore, ma nessuno traduce e pochi di loro parlano già il tedesco.
Al di là dei problemi, il diffuso sostegno della comunità ai rifugiati e il continuo moltiplicarsi ed esprimersi di iniziative di solidarietà rimangono i fattori positivi. «Una solidarietà così forte non ce l'aspettavamo» affermano a Karawane, e questa è tra le ragioni dei risultati fino ad ora ottenuti, anche rispetto ad altri movimenti. A questo hanno anche contribuito la popolare squa­dra di calcio del St. Pauli, il centro sociale Rote Flora sgomberato con la forza dalla polizia nei giorni scorsi, gli studenti delle scuole locali e dell'Università, il teatro, sindacati come Ver.di e IG Metall. Camminando per St Pauli, ovunque ci sono manifesti col motto «We are here to stay», graffiti, banners alle finestre, scritte ai muri e marciapiedi, depliants nei bar e nei negozi di quartiere. Gli africani ad Amburgo sono i primi a riconoscerlo, ricambiando. Perché «Wir sind mehr/ Siamo di più». Una solidarietà che la «zona ad alto pericolo» (gefahrengebiet) dichiarata dalla polizia a St. Pauli e in aree adiacenti a seguito della manifestazione del 21 dicembre contro la chiusura del centro sociale Rote Flora non possono circoscrivere.
Queste anche le ragioni di speranza. «Rimaniamo fiduciosi», afferma Ralf, «e continueremo a lottare per ottenere una soluzione che riconosca i diritti del gruppo di Lampedusa». Perché la lotta a fianco di «Lampedusa ad Amburgo» è in realtà un modo per discutere e riflettere più in generale sulle attuali questioni in materia di asilo, immigrazione ed accoglienza, a livello nazionale ed europeo. «Lampedusa ad Amburgo» è un esempio in grado di influenzarne positivamente altri, di moltiplicarsi. Molti stanno guar­dando a quello che sta succedendo qui ad Amburgo, perché qui c'è stata e continua ad esserci una risposta concreta da parte della comunità alle vuote promesse fatte dai politici sull'isola di Lampedusa.



Lampedusa - Continua la detenzione illegittima dei superstiti
Presentato un espsto-denuncia al comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d’Europa
Melting Pot Europa, 10-01-2014
Prof. Fulvio Vassallo Paleologo
Continua nel Centro di Primo soccorso ed accoglienza (CPSA) di Lampedusa il trattenimento illegittimo di 17 migranti siriani ed eritrei, tra i quali una giovane donna con gravi problemi psichici. Si tratta dei superstiti delle stragi di ottobre che rimangono rinchiusi nel centro, sembra che alcuni non abbiano ancora consentito al prelievo delle impronte digitali, perché la polizia e la magistratura stanno indagando per i reati di agevolazione dell’ingresso di irregolari e di tratta.
Negli scorsi giorni è stato preparato un esposto-denuncia su questo trattenimento irregolare che si protrae ben oltre i termini massimi di permanenza in quello che dovrebbe rimanere solo un centro di prima accoglienza e soccorso, ma che di fatto è utilizzato come un vero e proprio centro di detenzione, senza neppure quelle modeste garanzie procedurali che nei CIE impongono la presenza di avvocati, la notifica dei provvedimenti tradotti nella lingua degli interessati, e la convalida della misura limitativa della libertà personale da parte di un magistrato.
Secondo notizie di stampa, i migranti illegittimamente trattenuti dovrebbero restare rinchiusi fino all’esperimento degli incidenti probatori, necessari ai magistrati per concludere le prime fasi del procedimento penale a carico dei presunti scafisti o trafficanti, previsti per la metà del mese di gennaio.
Quanto sta avvenendo a Lampedusa non è un episodio isolato, anche se ha acquistato particolare visibilità per la provenienza dei migranti, superstiti ad alcune delle più grandi tragedie dell’immigrazione che si sono verificate in Mediterraneo con centinaia di morti, e per la protesta del deputato Khalid Chouaky che si era rinchiuso nel centro per restarvi fino alla liberazione di tutti i migranti che vi erano irregolarmente trattenuti da mesi.
Sono mesi, per non dire anni, che nei centri di accoglienza in Sicilia ed alle frontiere dei porti dell’Adriatico, i migranti che cercano di entrare irregolarmente, ormai quasi esclusivamente potenziali richiedenti asilo ( eritrei, somali, siriani, ma anche afghani e di altre nazionalità) sono destinatari di provvedimenti di trattenimenti “de facto” contro i quali non è possibile presentare ricorso, e in diversi casi sono stati respinti o sottoposti a procedimenti penali senza neppure avere la possibilità di esercitare i più elementari diritti di difesa.
Il ruolo di testimoni è stato generalmente ritenuto sufficiente per giustificare misure restrittive della libertà personale, quando invece si trattava solo di garantire la reperibilità del teste da parte delle autorità che svolgevano indagini, e non sono mancati casi di testimoni che, dopo essere scomparsi, sono stati smentiti dal successivo svolgimento dei procedimenti penali che avevano innescato con le loro dichiarazioni, con la conseguente liberazione di presunti “scafisti” e con il sostanziale fallimento delle indagini.
L’utilizzo degli strumenti repressivi, previsti dall’attuale legislazione in materia di immigrazione e di contrasto di quella che si continua a ritenere “immigrazione illegale”, anche nei confronti di persone che comunque non potevano essere rimpatriate per evidenti ragioni umanitarie, non permette a nostro avviso quel livello di collaborazione che sarebbe necessario per affrontare con risultanze probatorie efficaci quelle organizzazioni criminali che continuano a lucrare sul disperato bisogno di fuga che continua ad essere espresso soprattutto dai siriani, dagli eritrei, dai somali, dai sudanesi, dai maliani e da tanti altri migranti bloccati nell’inferno libico. Collaborazione che diventa ancora più difficile, e dalla utilizzabilità in giudizio assolutamente incerta, quando il trattenimento, meglio la detenzione amministrativa dei potenziali testimoni si protrae nel tempo senza una valida base legale, come sta ancora succedendo nel CPSA di Contrada Imbriacola a Lampedusa.
In questi giorni alcune associazioni italiane che difendono i diritti dei migranti hanno inviato al Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, ed a diverse agenzie dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite, come l’ACNUR ( Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), un esposto-denuncia predisposto dall’avvocato Alessandra Ballerini di Genova e dall’avvocato Michele Passione di Firenze sul trattenimento dei 17 profughi ancora rinchiusi da ottobre nel Centro di primo soccorso ed accoglienza di Lampedusa.
Come abbiamo detto questo trattenimento non è altro che la “punta di un iceberg” perché sono mesi, anzi anni, che le autorità amministrative trattengono senza provvedimento i migranti appena sbarcati, soprattutto quando sono coinvolti nella qualità di indagati o di testimoni, in indagini penali. Migranti che poi spariscono nella disperazione più totale, costretti alla clandestinità, o “trattenuti” in centri di detenzione , oppure ancora, se ritenuti “scafisti” ,rinchiusi in carcere. E nessuno forse ricorda, a distanza di qualche mese, la tragica vicenda di un giovane egiziano che, ritenuto scafista dopo una prima fase di indagini avviate dalla polizia nel Centro di primo soccorso ed accoglienza di Pozzallo, e poi trasferito nel Centro di Identificazione ed espulsione di Pian del Lago a Caltanissetta, si è impiccato pochi giorni dopo il suo successivo internamento in carcere. Una vicenda sulla quale era stata aperta una indagine di cui non si sa più nulla.
Il trattenimento amministrativo prolungato in quelli che dovrebbero essere centri di prima accoglienza può avere conseguenze tragiche come è confermato dalle condizioni psicologiche che anche il deputato Khalid Chouaky ha verificato durante la sua ultima visita nell’isola di Lampedusa. Non crediamo che a fronte della disperazione che si è lasciato alle spalle l’invio di un nucleo di psicologi specializzati ed della Croce Rossa possa migliorare significativamente la condizione dei profughi ancora rinchiusi da mesi nel centro di Primo soccorso ed accoglienza ( ricordiamo) di Contrada Imbriacola.
Occorre dunque che le ragioni alla base dell’esposto denuncia inviato al Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa per i migranti ancora trattenuti a Lampedusa, siano diffuse ed utilizzate per porre fine, anche sulla base di ricorsi individuali alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, o di singoli ricorsi davanti ai giudici nazionali, a tutte le diverse forme di trattenimento in assenza di provvedimenti individuali che rispettino le garanzie previste dalla legislazione italiana e dalle normative internazionali e dell’Unione Europea.
In un momento nel quale le forze di governo annunciano l’avvio di processi legislativi per riformare aspetti della normativa interna che hanno evidenziato in pieno la loro totale inutilità, i costi disumani che comportano, la violazione manifesta e reiterata di principi costituzionali e di normative europee ed internazionali, occorre evitare, anche con la proposizione di ricorsi ed esposti, che le prassi amministrative e giudiziarie continuino ad applicare ferocemente quelle norme che in Parlamento si dice di volere modificare, magari nella convinzione che in questa fase politica non potrà trattarsi che di modifiche di facciata.



15 gennaio 2014 - Assemblea on line per la Carta di Lampedusa: per scegliere da che parte stare
In preparazione dell’incontro sull’isola dal 31 gennaio al 2 febbraio
Melting Pot Europa, 10-01-2014
Quando dopo la tragedia del 3 ottobre, dalle pagine di questo sito, abbiamo lanciato l’idea di ritrovarci a Lampedusa per un incontro tra tanti e diversi, le nostre giornate erano cariche di indignazione. Non solo per le immagini di quei corpi allineati sul molo del porto, ma perché le tante lacrime versate dalla politica in quei giorni, insieme al carico di retorica che le accompagnava, sembravano voler cancellare decenni di scelte scellerate: le vere cause di quel naufragio e delle migliaia di morti degli anni precedenti.
Dopo quella notte molte cose sono successe e le nostre giornate sono state scandite dai tempi delle rivolte scoppiate nei CIE, da manifestazioni e presidii, da occupazioni e vertenze, da blocchi e picchetti contro gli sfruttatori che in Italia in Europa ed oltre sono stati all’ordine del giorno. Un processo che più di ogni altra cosa rappresenta la scrittura concreta di ciò che abbiamo chiamato Carta di Lampedusa.
Ciò che sembrava un orizzonte lontano, si è insomma materializzato come possibilità sotto i nostri occhi. La questione del confine, della crisi della sua legittimità, è diventata oggi un tema inaggirabile per tutti e con questa realtà devono fare i conti, volenti o nolenti, i governi degli stati e l’Unione stessa.
Si tratta, crediamo, di un’occasione imperdibile. Se infatti la politica sta facendo un uso umanitaristico del dibattito intorno al confine, ai suoi morti, alle sue leggi, relegando la discussione alla sfera dell’umanitarismo ed alla retorica dell’accoglienza, è vero che l’attualità di questa discussione può offrire a noi tutti la possibilità di andare molto oltre la questione della "gestione delle frontiere". In ballo oggi c’è una più ampia sfera dei diritti legata all’Europa ed al suo assetto, in cui la questione del confine, del suo intreccio con l’austerità, si candida ad essere uno tra i punti chiave.
Per questo crediamo che ciò che sta avvenendo intorno alla Carta di Lampedusa, a questo tentativo di costruire un patto euromediterraneo per dar vita ad un nuovo orizzonte sul terreno delle migrazioni, sia assolutamente eccezionale.
Oggi più che mai, poter sancire in forma collettiva alcuni principi condivisi, fuori dalle ambiguità che in passato hanno dominato la discussione, poter costruire intorno ad alcuni punti un’azione europea e mediterranea, facendo tesoro di un dibattito decennale che rappresenta su questo terreno un vera ricchezza, ci pare altrettanto importante. Non è un fatto per niete scontato.
A Lampedusa lavoreremo insieme per far si che questo "manifesto collettivo" sia il migliore possibile, ed affronteremo un’ulteriore sfida, quella di trovare, a partire dalle differenti esperienze e dai diversi linguaggi che appartengono ad ognuno, alcuni modi condivisi per trasformare in conquiste le nostre rivendicazioni. Vale la pena di giocarla senza remore.
Di certo sappiamo che non esiste possibilità di affermare la libertà di movimento, quella di scegliere dove vivere e di farlo digniosamente, senza affrontare il problema della destrutturazione delle regole esistenti, senza un processo che le metta radicalmente in discussione, senza la diffusione di pratiche capaci di metterlo in crisi producendo conquiste materiali dei diritti. C’è però un secondo punto oggi inaggirabile che crediamo sia opportuno ed importante affrontare insieme. Si tratta della possibilità di affermare le conquiste fino ad oggi ottenute e quelle che ambiamo ad ottenere, della capacità di codificarle negli ordinamenti, vincendo la partita della trasformazione delle regole esistenti. E’ insomma possibile costruire una enorme vertenza collettiva intorno all’impianto che regola le migrazioni?
A questa domanda, non esistono, crediamo, facili risposte. Nè assumendo questa questione come distante, esclusivo terreno di lavoro della politica istituzionale, né trattandolo come mero esercizio tecnico.
Veniamo allora a noi, a chi ha l’ambizione di trasformare radicalmente la realtà di questo pezzo di mondo.
Abbiamo una grande occasione, è quella di rimetterci in cammino dando una spinta propulsiva alle tante battaglie che ad ogni latitudine stiamo conducendo, di costruire uno spazio comune in cui possano essere condivise e rielaborate, di tracciare un orizzonte ed insieme la strada per raggiungerlo, di trovare punti di convergenza che diventino immediatamente dirompenti e trasformativi.
Non esistono scorciatoie. Non lo sono gli ipotetici tavoli per elargire consigli a chi fino ad oggi non ha voluto ascoltare, così come non è possibile stare fermi a guardare da spettatori ciò che accade, forti delle nostre ragioni ma incapaci di tradurle in pensieri collettivi e diffusi.
No. Abbiamo troppo a cuore la trasformazione dell’esistente.
Non esiteremo a metterci in discussione con chi avrà la stessa tensione. Non esiteremo ad ascoltare le ragioni di tutti quelli che vorranno condividerle, non esiteremo a battagliare perché questo magma di punti di vista non lasci spazio ad alcuna ambiguità.
Abbiamo insieme una grande occasione per farlo: la Carta di Lampedusa. Un’occasione vera per scegliere da che parte stare.
15 gennaio 2014 - ore 18 - Seconda assemblea per la Carta di Lampedusa
Per partecipare all’assemblea on line scrivi a Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. , ti verranno inviate le istruzioni per accedere alla web conference.
E’ ovviamente data priorità per la partecipazione a realtà collettive che desiderano mettersi al lavoro per costruire l’evento del 31.01-02.02



“Sognando Beckham”: al posto del pallone, la mazza da cricket
Corriere.it, 10-01-2014
Giacomo Fasola
Tasniea parla sei lingue: «A scuola studio inglese, francese e spagnolo. Il bangla l’ho imparato da piccola, l’italiano alle elementari, l’hindi guardando i film di Bollywood». Frequenta il liceo linguistico di Mestre e ha i desideri di tutte le 16enni, come uscire la sera o trovarsi un ragazzo. Da grande sogna di girare il mondo. Per ora, si accontenterebbe di giocare a cricket. Ma a Venezia, la seconda città più bengalese d’Italia dopo Roma, non c’è una squadra femminile, né le è permesso allenarsi con i maschi.
In Laguna gli immigrati dal Bangladesh sono la maggioranza, quasi 5.000 secondo i dati del 2010. Lavorano nei bar, nei ristoranti e nei cantieri navali. Il signor Mollik, operaio originario di Khulna, a sud della capitale Dacca, vive a Marghera dagli anni novanta e nel 2005 ha portato qui anche la famiglia: la moglie, il figlio maggiore Anam e la figlia minore, Tasniea. «Alle elementari i compagni di scuola non volevano giocare con me perché non parlavo italiano» ricorda lei.
    «Alle medie, invece, mi prendevano in giro perché ero diversa, e quindi sfigata. Per qualche anno mi sono vergognata di uscire coi miei genitori, poi ho capito che nascere in un altro Paese non è sbagliato, né sfigato».
L’economia del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri al mondo, si regge sulla produzione a basso costo di abbigliamento e sulla demolizione delle navi. Lo sport più seguito è il cricket. «Guardo in tv tutte le partite della Nazionale» dice Tasniea «e mi piacerebbe giocare. Però…». Però a Marghera, come racconta il libro Italian Cricket Club, non c’è una squadra femminile. Così nel 2011 lei ha chiesto al fratello Anam, allenatore del Venezia Cricket Club, se poteva esercitarsi con loro. «Ho partecipato a qualche allenamento. Poi ai miei genitori sono arrivate strane voci, e hanno deciso che non sarei più andata».
Nella comunità bengalese di Marghera, a maggioranza musulmana, un’adolescente che gioca con i maschi non è ben vista. «Io mi ritengo fortunata» dice Tasniea, «perché i miei sono abbastanza aperti e non sono costretta a indossare gli abiti tradizionali come alcune amiche. Però è ingiusto che non possa praticare il mio sport solo perché sono una femmina». Sembra la storia di Jess, la ragazzina indiana di Sognando Beckham che, pur di diventare una calciatrice, disubbidisce alla famiglia. È anche la storia di tante altre giovani pachistane e bengalesi, cresciute in Italia, che vorrebbero giocare a cricket ma non possono. Alla fine del film, Jess avvera il suo sogno e va a giocare a calcio negli Stati Uniti. Sul lieto fine di Tasniea, lei e il fratello ci stanno ancora lavorando. «Per ora non abbiamo abbastanza ragazze per fare una squadra» dice Anam, «ma insegno cricket nelle scuole elementari e alle bambine piace molto: chissà che fra qualche anno…». Aggiunge lei:
    «Ho provato a coinvolgere le mie amiche. Ma alle italiane non interessa, e le bengalesi non riescono a convincere i genitori».
Nell’attesa, Tasniea continua a studiare. Da grande vorrebbe viaggiare, e dare una mano al suo Paese d’origine: «Il Bangladesh potrà davvero crescere» dice «quando i giovani e le donne riusciranno a far sentire la loro voce». La sua, di voce, arriva forte e chiara.



Razzisti fin da bambini: addio al mito britannico
In aumento le denunce su abusi verbali tra i compagni di classe
Presi di mira sopratutto gli islamici
l'Unità, 10-01-2014
Caterina Soffici
Londra Qualcosa sta cambiando nella società multietnica e interraziale britannica? O gli allarmi sulla xenofobia crescente sono solo uno specchietto per le allodole in vista delle elezioni, per contenere l’offensiva lanciata dal partito euroscettico e razzista dell’Ukip di Nigel Farage? Forse è ancora presto per dirlo, ma di certo nell’aria c’è molta tensione. E a farne le spese sono principalmente le fasce più deboli (al solito), gli immigrati e le comunità etniche di minoranza. Il caso di Mark Duggan ha rinfocolato gli animi. Il ragazzo nero di Totthenham era stato ucciso dalla polizia durante un inseguimento e la sua morte era stata la miccia dalla quale erano scoppiate le rivolte che avevano infiammato Londra nell’agosto 2011. Proprio l’altro ieri il tribunale ha riconosciuto la legittimità dell’azione degli agenti, anche se è stato provato che il ragazzo, membro di una gang di North London, nel momento in cui è stato colpito non stava impugnando una pistola. Ci sono state proteste, si è temuto un nuovo focoloaio e il dilagare di scontri, che per fortuna non ci sono stati.
Ma la rabbia cova sotto la cenere e lo stesso capo di Scotland Yard ha dovuto ammettere che dal fatidico episodio nel 2011 i rapporti con la comunità nera non sono più gli stessi. La sentenza di assoluzione per i poliziotti ha solo peggiorato la situazione. Tanto per far capire il clima, dopo la sentenza la madre del ragazzo ucciso ha rifiutato l’invito a incontrare le forze dell’ordine.
Ma questo è solo un episodio dei tanti. L’area più critica è quella dei rapporti con la comunità musulmana, in continua crescita e fonte di tensioni costanti. Sul velo, sull’educazione, sulle tradizioni: lo scontro è latente e continuo. Al netto degli episodi di estremismo, tipo l’uccisione del soldato inglese sgozzato a colpi di machete, gli islamici sono visti come una minaccia. Tanto che un razzismo strisciante sta dilagando anche nelle scuole del Regno Unito e i bersagli preferiti sono i musulamni. Il servizio di assistenza ChildLine (una sorta di telefono azzurro locale) dice che le richieste di aiuto da parte di ragazzi per motivi razziali nel 2013 sono aumentate del 69 per cento rispetto al 2012. Sono state 1400 le telefonate di bambini e ragaxxi che hanno denunciato abusi verbali da coetanei per motivi etnici o religiosi. Agli islamici dicono “terroristi” e “bombaroli”. I nuovi arrivati, che non parlano ancora bene l’inglese, vengono scherniti con il nomignolo di “freshy”. In certi casi i compagni di scuola dicono ai bambini di fare le valigie e tornare a casa con le proprie famiglie. Il tema dell’immigrazione e della chiusura delle frontiere è parte dell’agenda politica ed è un po’ il gatto che si mangia la coda. Più se ne parla e più i ragazzi lo recepiscono come problema. E ultimamente se n’è parlato molto. La campagna contro l’aperture delle frontiere a romeni e bulgari ha tenuto banco per mesi. Le sparate dell’Ukip hanno raggiunto livelli parossistici: Farage si è spinto adirittura a dire che preferisce un paese più povero ma con meno immigrati. Cameron arranca e dice che taglierà i sussidi per gli stranieri. Mentre la Bbc ha presentato un sondaggio scioccante, secondo cui più del 75% degli inglesi è favorevole a una riduzione del numero di stranieri che decidono di stabilirsi nel Paese.



 

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