Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

07 febbraio 2014

Accoglienza Se la società è più avanti dei politici
l'Unità, 07-02-2014
Italia-razzismo
Qualche giorno fa è stata resa nota una ricerca condotta da Daniele Marini dell'Università di Padova che, a proposito dell'accoglienza di persone immigrate in Italia, dimostra come "la società sia più avanti del dibattito politico". Ciò significa che gli italiani sono più accoglienti, almeno nelle intenzioni, di quanto lo siano le leggi che regolano i flussi migratori. Queste, infatti, vanno sempre più nella direzione di tentare di arrestare il flusso in ingresso di persone provenienti da altri paesi e di ostacolare la permanenza regolare di chi è già presente. I dati raccolti nel corso dell'indagine dimostrano che, in realtà, gli italiani sarebbero ben disposti a riconoscere i diritti che spettano agli stranieri e che, ancora oggi, non sono riconosciuti loro (o lo sono solo parzialmente). Si pensi a chi è nato in Italia da genitori stranieri e che, stando all'attuale normativa (91/'92), può chiedere di diventare cittadino solo al compimento del diciottesimo anno di età e solo per un anno. Dopo il diciannovesimo compleanno, questo diritto scade.
Il 45,6% degli italiani crede che, a certe condizioni (regolarità di residenza da alcuni anni, conoscenza della storia e della lingua) il diritto di cittadinanza debba essere accordato al richiedente. Tra i sostenitori più convinti di questa posizione ci sono le persone comprese in una fascia di età tra i 25 e i 34 anni che svolgono per lo più lavori autonomi. Volendo interpretare si tratta di quanti vengono in contatto più facilmente con coloro i quali, spesso loro coetanei, vivono la precarietà del permesso di soggiorno e sono in possesso dei requisiti per richiedere la cittadinanza.  Gli stessi sostengono, comunque, che la richiesta di cittadinanza debba essere supportata da una forte motivazione che non si limiterebbe al possesso dei requisiti di residenza. Proprio per questo, solo il 12,3% ritiene che chi nasce in Italia debba ottenere automaticamente la cittadinanza. Una posizione in linea con gli attuali disegni di legge presentati in questa legislatura, che prevedono che la cittadinanza venga data a chi è nato e cresciuto (o ha trascorso anche solo qualche anno) in Italia. La composizione della popolazione straniera in Italia è molto variegata, con persone che provengono da ben 167 paesi diversi. Nel 2008 i residenti regolarmente presenti erano il 4,5% degli italiani e nel 2013, hanno superato la soglia dei 4 milioni (7,4%). Facendo una previsione delle variazioni future, l’Istat stima che tali presenze saranno 7 milioni (11,4%) nel 2020. E il nostro paese è già, evidentemente, un luogo in cui convivono persone portatrici di culture e saperi diversi. È la distanza della politica da questa realtà - attraverso leggi che introducono nuovi reati o istituiscono luoghi di segregazione come gli inutili Cie - a impressionare. E quando studi come quello dell'Università di Padova dimostrano come il sentire dei cittadini sia lontano da quello che vorrebbero farci credere, certi decisori politici non hanno neanche più un alibi. Sempre che l'abbiano mai avuto.



Rabbia e bocche cucite: viaggio tra gli immigrati rinchiusi a Ponte Galeria
Venerdì della Repubblica, 07-02-2014
Diego Bianchi
«Una motosega dovevi portare», mi dice Lassad, tunisino detto «il filosofo», 40 anni di cui 22 passati in Italia a cercare un modo per campare, da solo, senza nulla che gli impedisse di perdersi. Lassad parla italiano meglio di me, cita Dante e la Costituzione italiana, ha scontato una pena in carcere, ma questa nel Cie sembra non avere fine. Mi fa da guida, da Virgilio nell'inferno di Ponte Galeria, Centro di Identificazione ed Espulsione alle porte di Roma. Poco meno di un centinaio di «ospiti» (cosi sono chiamati i migranti rinchiusi in attesa di conoscere il proprio destino), ci guardano attraverso le alte sbarre che ne delimitano la vita.
Polizia, carabinieri e unità cinofile sorvegliano, dispiegando forze esagerate; il rumore dei cancelli che si aprono e si chiudono, delle chiavi che girano, delle porte che sbattono è continuo, inquietante, avvilente. Entro nel gabbione, lo spazio piü largo a disposizione, un rettilineo di poche centinaia di metri lungo il quäle i dannati camminano avanti e indietro, vasche su vasche di ore d'aria che sanno di beffa, per poi sedersi in terra e guardare il sole. Quindici marocchini mi aspettano davanti alla loro stanza. Hanno poco piü di vent'anni, sono arrivati a Lampedusa a poche ore di distanza dai morti del 3 ottobre.
Da allora sono reclusi qui dentro, senza aver commesso reati, senza sapere quando usciranno. La permanenza a Ponte Galeria viene prorogata di due mesi in due mesi, anche a prescindere da documenti prodotti e parenti che li aspettano per farli lavorare e metterli in regola.
La decisione viene presa spesso superficialmente, in un paio di minuti o poco più. Due minuti per due mesi di vita. Mesi fa si cucirono le bocche. Arrivarono media e politici, poi il Natale e l'anno nuovo, e quel che sembrava smuoversi si fermò. Stasera, delusi e determinati, lo rifaranno. Sciopero della fame e bocche cucite, gesti estremi per estremi destini, violenza su se stessi per provare a far perdere il sonno a chi finge di ignorare l'esistenza di questi posti. Mi mostrano le camerate, le coperte risicate, i mobili fatti di pezzi di materasso, lo sciacquone del bagno che non funziona, l'acqua calda centellinata, l'assenza di armadietti, libri, carte o qualcosa di diverso dalla tv per passare il tempo, in qualche modo. «In carcere si sta meglio», mi dice chi ci è stato. «Li ci entri per un motivo, ma soprattutto sai quando ne esci».
Li saluto, faccio il percorso dei cancelli a ritroso, mi lascio polizia e carabinieri alle spalle. La sera mi chiama Lassad. I ra- gazzi si sono cuciti le bocche. Che qualcuno parli per loro.    



Spagna. Migranti tentano di entrare a Ceuta, sette morti in mare
Le vittime facevano parte di un gruppo di circa 200 immigrati clandestini
stranieriinitalia.it, 07-02-2014
Roma, 7 febbraio 2014 - Almeno sette immigrati, fra cui una donna, sono morti nel tentativo di arrivare a nuoto nell'enclave spagnola di Ceuta, che si trova nel nord del Marocco.
Secondo le autorità locali, le vittime facevano parte di un gruppo di circa 200 immigrati clandestini.
Tredici di loro sono stati soccorsi e tratti in salvo, ma le operazioni sono ancora in corso.



Strage del 3 ottobre - La testimonianza video che accusa il ritardo nei soccorsi
La Guardia Costiera circonda il barcone, poi se ne va. Una barca lancia l’allarme ma i soccorsi arrivano solo dopo cinquanta minuti
Melting Pot Europa, 06-02-2014
Alessandra Sciurba, Nicola Grigion
Nessuno riporterà in vita le 368 vittime inghiottite dal mare a poco più di un miglio dall’Isola dei Conigli, a Lampedusa. Così come nessuno riuscirà ai rimuovere dagli occhi dei superstiti le immagini dei loro compagni di viaggio che affogano e quelle degli stupri e delle violenze subite dai trafficanti di uomini. Ma mentre su questi ultimi è in corso un processo, sui fatti di quella notte, sulla dinamica dei soccorsi, sui possibili ritardi, nessuno indaga.
Eppure i ritardi nei salvataggi, per l’Italia, non sono una novità. Anche dalle testimonianze dei sopravvissuti del naufragio dell’11 ottobre, quello che ha coinvolto centinaia di cittadini siriani, emerge il rimpallo di responsabilità tra Italia e Malta.
Che vi fosse una colpa dei governi europei è fuor da ogni dubbio. E’ il funzionamento stesso del confine ad affidare ai trafficanti di uomini la vita di chi fugge per salvarsi dalla guerra. Ma sulla dinamica di quella notte, sulle operazioni di salvataggio, non si è ancora fatto luce. Anzi, le tante testimonianze emerse, che mettono in discussione le versioni fornite dalle autorità, sono state liquidate come frutto della coincitazione del momento.
Ma i superstiti del naufragio non smettono di confermare che quell’incendio è scoppiato proprio dopo che un’imbarcazione che gli aveva intimato di fermarsi se n’era andata. Negli atti del processo aperto contro i trafficanti, le testimonianze raccontano che quella coperta è stata data alle fiamme dopo che il motore era andato in avaria, proprio nel tentativo di attirare l’attenzione di quella che, successivamente, sarebbe stata riconosciuta come una motovedetta della Guardia Costiera, poi dileguatasi.
Molti testimoni intervistati dai giornalisti nei gironi seguenti hanno denunciato le omissioni di quella tragica notte. Mentre loro erano impegnati a salvare vite, sulle imbarcazioni dei soccorritori si scattavano foto e si giravano video, nel rispetto, dicono, di un protocollo assurdo, che prevede la necessità del via libera da parte di una non meglio precisata autorità prima di iniziare le operazioni di salvataggio. Una follia per le leggi del mare.
Abbiamo raccolto la testimonianza di Grazia, abitante di Lampedusa, che quella notte si trovava in barca con il suo compagno ed alcuni amici nei pressi di Cala della Tabaccara.
Melting Pot vi propone il video che contiene la sua verità. Quella di chi, dopo aver lanciato l’allarme, ha fatto in tempo a salvare quarantasette vite umane prima che i soccorsi arrivassero sul posto. Una verità che le ha provocato così tanti guai da farle decidere di non denunciare.
Intervista a cura di Alessandra Sciurba
Immagini e montaggio di Carlo Vitelloni
Testo di Nicola Grigion



Lampedusa ora è candidata al Nobel Successo per la campagna dell'Espresso
L’isola della solidarietà ufficialmente in lizza per il riconoscimento per la Pace grazie alle firme e all'appello lanciati dalla nostra testata. Il premier Enrico Letta: "Un messaggio di speranza"
L'Espresso, 07-02-2014
Fabrizio Gatti
Lampedusa è ufficialmente candidata al Premio Nobel per la pace 2014. Un traguardo che riconosce la solidarietà dimostrata negli anni dagli abitanti dell’isola, ma anche le sofferenze che i profughi sopravvissuti devono affrontare e il sacrificio delle migliaia di persone morte annegate: 20 mila in vent’anni, 640 tra il 30 settembre e l’11 ottobre 2013, di cui almeno un centinaio i bambini. Arriva così a Oslo la petizione lanciata da “l’Espresso” subito dopo il naufragio di giovedì 3 ottobre e condivisa in Italia e nel mondo via Internet da 55.650 lettori e non, tanti quante le firme raccolte: cittadini comuni, esponenti della società civile e rappresentanti della cultura internazionale, tra i quali i registi belgi Jean-Pierre e Luc Dardenne e il filosofo tedesco Jürgen Habermas.
«Lampedusa non è una periferia dell’Europa: è il cuore del nostro continente», commenta il presidente del Consiglio, Enrico Letta: «La candidatura al premio Nobel di Lampedusa è un messaggio di speranza per i diritti umani e per la legalità nel Mediterraneo e per questo deve mobilitare tutta l’Italia e tutti i Paesi dell’Unione europea. Il premio sarebbe il riconoscimento a una comunità che insegna a tutto il mondo la “globalizzazione della solidarietà”». «È giusto rendere questo omaggio simbolico ai cittadini di Lampedusa che, con grandi sforzi, ci mostrano la strada dell’accoglienza», sottolinea il presidente del Senato Piero Grasso: «Sono convinto sia necessario porre l’attenzione sulla drammatica condizione di chi sfida il mare, tra mille difficoltà, per sfuggire alla povertà e alle guerre e, allo stesso tempo, di una comunità che è stata sconvolta dagli sbarchi ma che non ha mai perso la propria umanità».
La candidatura è stata formalizzata pochi giorni fa , il 31 gennaio, dalla scrittrice Elisabeth Eide, professore di Scienze sociali all’Università di Oslo e Akershus, tra i norvegesi titolati a presentare le proposte al Comitato per il Nobel per la Pace.
Poiché il premio non può essere assegnato genericamente agli abitanti di un paese o ai profughi che lo raggiungono, è stato suggerito il Comune di Lampedusa come l’istituzione che meglio rappresenta nel tempo sia i residenti, sia i nuovi arrivati, indipendentemente dallo schieramento dell’amministrazione in carica. Il Comitato per il Nobel, composto da cinque personalità norvegesi nominate dal Parlamento, esaminerà nei prossimi mesi le candidature. E in ottobre rivelerà il nome del vincitore che il 10 dicembre, ricorrenza della morte di Alfred Nobel, riceverà il premio durante la prestigiosa cerimonia a Oslo.
La candidatura di Lampedusa non è ovviamente la soluzione per evitare altre stragi. Ma può essere un monito e un’occasione per richiamare l’attenzione del mondo sulle norme che impediscono ai profughi di seguire percorsi legali e sicuri. Gli Stati membri dell’Unione europea garantiscono infatti la protezione dei rifugiati, ma solo se si trovano già sul loro territorio. Paradossalmente la legge europea vieta l’ingresso ai profughi: anche se si tratta di donne e bambini, anche se sono in fuga da regimi come quello al potere in Eritrea, o da massacri come quello in corso in Siria. L’unica via di salvezza resta così la rotta clandestina: il passaggio che arricchisce la criminalità davanti alle lacrime di circostanza della politica. Le vittime eritree e siriane dei naufragi del 30 settembre, del 3 e dell’11 ottobre avevano pagato 1.600 dollari a testa: cinque volte di più di un volo Tripoli-Roma.
Sono trascorsi 4 mesi da allora e soltanto il governo italiano è intervenuto con l’operazione di soccorso “Mare nostrum”, che però non potrà durare in eterno. Poco o nulla hanno fatto i parlamenti europei e tanto meno Bruxelles per scongiurare che altri bambini, altre donne, altri uomini siano costretti a morire per salvarsi. Lungo questa rotta di indifferenza, Lampedusa non è soltanto la porta dell’Europa. È un approdo sicuro, è il salvagente reale e simbolico al quale aggrapparsi: i suoi abitanti in tutti questi anni non si sono mai sottratti al dovere di ciascun essere umano al soccorso e all’assistenza, diventando loro stessi testimoni di un modello di solidarietà necessario e possibile.
A Lampedusa, aggiunge la scrittrice Elisabeth Eide nella lettera di candidatura, i profughi «hanno trovato soccorritori, medici, volontari e comuni cittadini che li hanno accolti in nome della pace... che più e più volte hanno mostrato la propria ospitalità e il proprio coraggio. In diversi casi gli abitanti dell’isola hanno contribuito a salvare profughi che stavano annegando, mettendo a rischio la propria vita... In seguito diversi di loro hanno accusato problemi psicologici per aver visto così tante persone annegare mentre, con risorse limitate, mettevano in salvo quanti potevano. Nel 2011, durante la rivolta in Tunisia e la guerra in Libia... 11.000 nuovi arrivati sono stati assistiti nelle case degli abitanti, ricevendo cibo e altri aiuti da parte dei 6.300 residenti, poiché il centro di accoglienza dello Stato per i richiedenti asilo ha solo 800 posti».
Il Premio Nobel per la pace alle istituzioni e alla popolazione dell’isola, conclude la lettera di candidatura, «costituirebbe anche un riconoscimento per una piccola comunità la cui umana compassione è stata messa grandemente alla prova negli ultimi venti anni e che ha superato tale prova perché rispetta la dignità umana, dimostrando che gli esseri umani possono praticare la convivenza pacifica».

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