Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

23 gennaio 2015

Così creiamo razzismo e clandestini 
Uomini e donne in fuga dalle guerre e dalla miseria. Condannati all`illegalità una volta entrati in Italia. Accoglienza  inesistente, nessuna integrazione. A causa di burocrazia, sprechi, corruzione. Radiografia di un disastro umanitario 
l'Espresso, 23-01-2015
Luigi Vicinanza
Obbligati all`illegalità, Sotto gli occhi indifferenti della legge. È la condizione di migliaia di immigrati sbarcati sul suolo italiano. Ne abbiamo accolti 170mila solo nel 2014. Di almeno centomila abbiamo perso le tracce. Forse sono ancora in Italia, probabilmente in altri stati dell`Europa. Un popolo di fantasmi, di disperati in cerca di fortuna. Con l`inquietante sospetto  che, su un numero così alto di persone, si sia infiltrato qualche fanatico che abbia in odio l`Occidente. 
Al fallimento delle politiche di assistenza e di integrazione dei migranti e dei rifugiati giunti nel nostro paese è dedicato questo numero. L`immagine di copertina è stata scattata a Bari, all`esterno di un centro di accoglienza. È la fotografia della confusione e dell`assenza di regole - non solo in quella città - con cui le istituzioni tricolori affrontano il fenomeno.  Nonostante una parvenza di vigilanza (la colpa non è sicuramente della pattuglia di militari in servizio nel momento in cui è stata scattata la foto), si entra e si esce da quelle strutture incivili e mangiasoldi che sono i Cara, centri di assistenza di cui abbiamo raccontato gli sprechi nell`inchiesta di Mafia Capitale. 
IL NOSTRO INVIATO Fabriiio Gatti ha battuto lo Stivale per oltre tremila chilometri, da Mineo in Sicilia a Gorizia, passando per Foggia, Roma, Pisa, Genova, Torino, Milano. Un quadro terrificante. Il sistema produce disadattati, disoccupati, persone potenzialmente pericolose. Facile massa di manovra per la criminalità al Sud ma anche al Nord. Lo straordinario impegno profuso dalla Marina militare nel salvar vite tra le onde del mar Mediterraneo viene annullato dalla burocrazia quando siriani,  eritrei, sub-sahariani mettono piede sulla terraferma. 
Non siamo capaci di gestirli, pur spendendo una quantità enorme di soldi pubblici: 483 milioni per vitto e alloggio solo nell`anno appena concluso. In totale oltre due miliardi dalla seconda metà del 2011 - con l`esplosione delle rivolte arabe - a oggi. Assistenza scadente e integrazione fallita per la maggior parte di coloro che avevano diritto all`asilo politico. Soldi bruciati in un`emergenza che ormai è costante; denaro girato a centri improvvisati o clientelari senza obbligo di rendicontare le spese sostenute. È così che abbiamo trasformato in merce umana donne, bambini e uomini in fuga dalle guerre e dalla miseria. Scarsi i controlli  delle prefetture e dei comuni, in un rimpallo di responsabilità; inadeguata  l`autorità nazionale cui spetta il compito di coordinare e dirigere gli interventi. 
ANZICHÉ CONCENTRARSI sullo stato delle cose e gli interventi per migliorarle, i partiti politici hanno preferito buttarla in propaganda. Innanzitutto la Lega di Salvini che ha lucrato consenso sulle paure - a volte comprensibili - di vasti strati di popolazione ma senza mai preoccuparsi di proporre soluzioni praticabili. Ciechi i governi degli ultimi anni; hanno sostenuto una straordinaria azione umanitaria salvando migliaia e migliaia di essere umani con la missione Mare nostrum, ma non sono stati conseguenti garantendo i controlli a terra. E triste e sconfortante il paragone tra le vite parallele di due siriani scampati a un naufragio del 2013. Uno è riuscito a entrare in Germania, ha studiato il tedesco perché i programmi di assistenza locali lo rendono obbligatorio, ha recuperato la sua laurea in medicina superando l`esame di Stato e ora esercita la professione. L`altro, rimasto in Italia, ha trascorso l`anno vagabondando per la Lombardia prima di essere trasferito in un ostello della gioventù  sperduto sulla Sila, in Calabria. Non ha imparato una parola d`italiano, è sprofondato nella depressione.Abbandonato a se stesso. 
E così, in questo gioco di specchi deformanti, monta il razzismo come canone di interpretazione della realtà. Ulteriore  invisibile disastro umanitario. 
Twitter@VicinanzaL 
 
 
 
La grande FUGA 
In 100 mila sono scomparsi dopo lo sbarco. Mentre bruciamo miliardi per l`accoglienza. Senza riuscire ad aiutarli, né a controllarli 
l'Espresso, 23-01-2015
FABRIZIO GATTI 
Lo Stato c`è, eccome. Il Tricolore sventola nella brezza. Il cartello giallo sulla rete avverte: «Zona militare. Divieto di accesso. Vigilanza armata». La camionetta dell`esercito con i due soldati di ronda arriva puntuale. Davanti ai loro occhi, sette tra africani e asiatici non si scompongono. Scavalcano i quattro metri e mezzo di recinzione. Scappano dal Cara dì Bari, il Centro di accoglienza per richiedenti asilo. Uno di loro è vestito da talebano: caffetano bianco, berretto afghano sulla testa, barba e capelli lunghi. Forse è per questo che per uscire non passano dalla portineria. I militari guardano e non si fermano. La camionetta tira dritto, sempre a passo d`uomo. Sono le 10.30 di mercoledì 14 gennaio. La grande fuga continuerà per tutta la mattinata. Ma era così anche dieci minuti fa, un`ora fa, stamattina presto, stanotte, ieri sera, ieri pomeriggio, ieri mattina. Decine e decine di stranieri fuggono a ogni ora del giorno e della notte dal centro che dovrebbe registrare la loro presenza in Italia. 
Altri profughi, sbarcati addirittura nel 2011, a Bari usano il Cara per mangiare, dormire, farsi la doccia. Loro si arrampicano sulla recinzione due volte al giorno. Andata e ritorno. Hamid, 35 anni, bengalese, richiesta di asilo respinta, fa questa vita da due anni: esce la sera per andare a lavare i piatti in una pizzeria, la mattina rientra. Non importa se non è registrato. Perfino gli imam, quelli autoproclamati che nessuna moschea ufficiale riconosce, entrano a predicare il loro Islam. E, quando hanno  finito, escono indisturbati. Eccone due. Si calano dalle sbarre di ferro del perimetro, lato Sud. La camionetta dell`esercito riappare dietro di loro e, puntuale, tira dritto. Sempre a passo d`uomo. Lo Stato c`è. Ma è di burro. Non solo a Bari. 
Accoglienza all`italiana. La strage di Parigi ha fatto risuonare l`allarme terrorismo. I rifugiati non sono criminali. Ma in  tempi di massima allerta, registrare l`identità di chi entra in un Paese è il minimo indispensabile. Per avere il quadro della  situazione, prevenire i rischi. Ecco, già questo elementare calcolo è impossibile: perché nel 2014 ben centomila dei 170 mila profughi arrivati in Italia sono scomparsi da ogni forma di monitoraggio. Fantasmi di cui non si sa più nulla. Nella maggioranza dei casi, nemmeno la vera identità: soccorsi in mare e contati, una volta arrivati a terra sono stati lasciati fuggire. Proprio come a Bari. Quasi sempre prima di essere identificati. 
Sono dati ufficiali del ministero dell`Interno. Le crisi umanitarie nell`area del Mediterraneo e l`operazione «Mare nostrum» 
hanno quasi triplicato il record nazionale del 2011: 170.816 profughi arrivati nel 2014 contro i 64.261 di quattro anni fa. Nell`ultimo anno, però, soltanto 66.066 risultano registrati e ospitati nei centri. Significa cioè che 104.750 stranieri sbarcati nel 2014 sono ora al di fuori di qualunque controllo. Colpiscono anche le cifre suddivise per origine. Siria: su 51.956 sbarcati nel 2014, solo 505 hanno richiesto protezione in Italia. Eritrea: su 43.865, solo 480. Somalia: su 8.152, solo 812. Il resto? Spariti. Rimangono i profughi partiti da altri Stati africani. Nigeria: 10.138 le domande d`asilo nel 2014. Gambia: 8.556. Mali: 9.771 su 11.119 sbarcati. 
Gran parte di siriani, eritrei e somali è andata ad alimentare il record di arrivi in  Germania e Svezia. Moltissimi però vengono rimandati indietro. Oppure non escono dai nostri confini. Vanno ad aggiungersi alle migliaia di loro connazionali, in Italia dal 2011 o anche da prima, che non hanno mai ottenuto un permesso di soggiorno, o se l`hanno ricevuto non hanno più un lavoro regolare. Tremila di loro vivono a Roma: per strada, sotto i portici della stazione Termini o in case e uffici abbandonati. Nessun mezzo di sostentamento se non le mense di beneficenza. E, per qualche centinaio di africani, lo spaccio al Pigneto, il quartiere di Pier Paolo Pasolini. Altri cinquemila si stimano nelle province di Napoli e Caserta. Settecentocinquanta all`ex villaggio olimpico dì Torino. Cinquecento al Ghetto di Rignano Garganico: la baraccopoli di braccianti e caporali nella campagna foggiana per la prima volta non si è svuotata, anche se è pieno inverno e in giro non c`è niente da fare. Centinaia dormono in ripari di cartone e container intorno ai centri statali per richiedenti asilo. Come Borgo Mezzanone, vicino a Foggia, o Pian del Lago, a Caltanissetta: una volta usciti dai Cara, con il permesso di soggiorno o il respingimento in tasca, le persone si spostavano a cercare lavoro. Adesso no: è più sicuro rimanere nelle vicinanze e attraverso la recinzione elemosinare un pasto a chi ha ancora diritto all`accoglienza di Stato. Insicurezza alimentare, la chiamano. Ci sì aiuta così. L`Italia in recessione crea mille disoccupati ogni giorno. Nel frattempo avrebbe dovuto assimilare 291.247 nuovi cittadini: tanti quanti ne  sono sbarcati dal 2011 al 2014. Il sogno infranto dalla crisi. Per noi. Per loro. "L`Espresso" è andato a cercarli. Dal Piemonte alla Sicilia. Dalla Calabria al Friuli. Ritorna una parola da decenni scomparsa dal vocabolario delle nostre strade: fame. L`alimentazione tipo la descrive Isaac Kumih, 32 anni, partito dal Ghana e incagliato nei prefabbricati di lamiera sulla pista della vecchia base militare di Borgo Mezzanone, quattro materassi in una stanza: «Una fetta di pane secco e una tazza di tè la mattina, un piatto di semolino la sera. Ho raccolto pomodori in agosto: 550 euro. Mi devono ancora pagare. Non posso permettermi il pranzo». 
SOLO LAUREATI 
Un alto funzionario della polizia italiana si lamenta perché alla frontiera del Brennero i colleghi austriaci rimandano indietro gli eritrei: «Sono spesso ragazzi cresciuti nei campi profughi». Ma si tengono i siriani diplomati e laureati. Non è solo cinismo. Quei titoli di studio in Italia andrebbero probabilmente sprecati. Mohanad Jarnmo, 42 anni, medico di Aleppo fuggito dalla guerra in Siria e poi dalla Libia in fiamme, è sopravvissuto con la moglie e la figlia di 5 anni al naufragio dell`11 ottobre 2013.IL più grande e il più piccolo dei loro bambini sono scomparsi in mare. Da Malta, la famiglia Jammo è stata accolta in Germania. Destinazione, un appartamento affittato dal sistema federale a due ore da Francoforte e un contributo mensile di 350 euro a persona per la spesa e il vestiario. Nel 2014 il dottor Jammo ha potuto frequentare un corso di tedesco. Nemmeno la sua laurea siriana è stata cestinata. A fine autunno ha superato l`esame per convertire la qualifica ed esercitare in Germania: da inizio gennaio Mohanad Jammo lavora in un ospedale. Dopo appena quattordici mesi e una tragedia immensa, la sua famiglia non è più a carico del governo tedesco. 
Un altro sopravvissuto allo stesso naufragio del 2013, un ragazzo che non vuole che il suo nome sia rivelato, ha chiesto protezione all`Italia. Dopo quasi un anno trascorso in un centro temporaneo in provincia di Varese, viene trasferito all`improvviso con una trentina di profughi a Carfizzi, milleduecento chilometri a Sud, 700 abitanti in mezzo alla Sila. Il paese in provincia di Crotone e il progetto di una cooperativa locale sono entrati nella rete Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati: è l`ultima tappa, da sei mesi a un anno di accoglienza che dovrebbe fornire all`ospite conoscenze linguistiche e capacità professionali per vivere e lavorare in Italia. «A Carfizzi ci sono 33 profughi», spiegano il 6 gennaio Yasmine Accardo, dell`associazione LasciateCientrare, e l`avvocato Alessandra Ballerini: «Oggi un ragazzo con mal d`orecchie non è riuscito a contattare nessuno. Abbiamo provato a chiamare mediatrice e gestore: niente. La guardia medica non risponde». Dopo una visita al centro, parte la segnalazione al servizio centrale Sprar: «La struttura, un ostello della gioventù, è posta al di fuori del paese... Gli ospiti ci chiedono aiuto sotto diversi aspetti: cibo scarso, ritardo dei documenti, isolamento sociale, scarsa assi stenza medica, assenza di riscaldamento... Moltissimi ospiti hanno radicato i loro documenti a Varese e tanti ci hanno fatto vedere la documentazione con appuntamenti già scaduti. Veniamo a sapere che il gestore dichiara che non ha soldi per acquistare il biglietto per il Nord. Nelle comunicazioni della questura, lo spazio riservato all`interprete è sempre vuoto. Sono tutte in lingua italiana. È evidente che la mediazione multiculturale non sia il forte di questo soggetto gestore che in alcuni documenti addirittura scrive: englesh ». 
Dopo quattordici mesi,ilragazzo sopravvissuto come il dottor Jammo non parla italiano, non parla inglese, è in profonda depressione. Ed è ancora a carico dello Stato italiano. Come tutti gli altri 32 ospiti a Carfizzi: cioè, la loro presenza in Italia permette all`ente gestore di incassare circa 35 euro al giorno per persona, 1.050 euro al mese. Fanno tre volte il contante versato dalla Germania a ciascun profugo perché possa mantenersi e, con le sue spese, contribuire all`economia locale. Degli oltre mille euro pagati dal sistema Sprar alla cooperativa di Carfizzi, però, il ragazzo siriano riceve soltanto 75 euro al mese. Per le piccole necessità: le telefonate alla famiglia, l`integrazione del cibo quando è scarso, le marche da bollo per i documenti. 
SAGRE E FICHIDINDIA 
Dal 2011, con i primi decreti sull`emergenza Nord Africa, questo sistema ci è costato due miliardi 287 milioni 851 mila euro: 483 
milioni soltanto nel 2014 per vitto e alloggio, più 117 milioni e mezzo per l`operazione «Mare nostrum ». 
Trenta-trentacinque euro al giorno per persona non sono affatto pochi. Un esempio è l`albergatore napoletano Pasquale Cirella, 49 
 anni: grazie ai 614 profughi che le prefetture campane gli hanno affidato, incassa 19 mila euro al giorno. Così la sua società Family srl è passata dai 44 mila euro di fatturato del 2009 al milione 853 mila euro del 2012. Con utili annuali cresciuti da 676 euro a 170 mila euro. Un altro imprenditore a Monteforte, in provincia di Avellino, ha messo a dormire 107 rifugiati in tre appartamenti: tagliando sulle spese di assistenza, come interpreti e tutela legale, se le prefetture non control] ano il guadagno aumenta. "L`Espresso" ha scoperto che nel 2006 il Comune di Roma riusciva a garantire ospitalità a cifre bassissime, tra i 4,70 e ì 8,30 euro al giorno per persona. Se ne occupava Luca Odevaine, futuro consulente del Cara di Mineo, provincia di Catania,  arrestato nell`operazione «Mafia capitale». L`aumento da allora ha raggiunto il  421 per cento. Oggi il consorzio dei Comuni, che a Mineo controlla il più grande centro di accoglienza profughi, incassa dallo Stato decine di milioni. Il direttore generale, Giovanni Ferrera, tre mesi fa ha stanziato diecimila euro del bilancio al Comune di San Cono per organizzare la "XXIII Sagra del ficodindia". Un comunicato ci assicura che «l`integrazione è passata attraverso la partecipazione e la condivisione di iniziative popolari come la Festa del grano di Raddusa e la Sagra del ficodindia di San Cono...»: 648 parole pagate all`autore locale 720 euro, organizzazione della conferenza stampa inclusa nel prezzo. Sempre il direttore generale nel 2013 ha pagato un`altra conferenza stampa 4.514 euro: 855 parole di comunicato alla cifra di 5,27 euro a parola e incontro con i giornalisti locali compresi nella fattura. C`è anche la "Partita del Cuore" attori contro Cara: tredicimila euro di noleggio dei pullman per lo stadio e altri cinquemila per i biglietti. E l`educazione stradale ai profughi? Ventimila euro. I volontari della protezione civile? Quattordicimila 900 euro. La festa dell`uva a Licodia? Fuori altri diecimila euro. L`Estate ramacchese? Diecimila euro. Tradizioni e sapori a Raddusa? Diecimila euro. Cara estate a Mineo? Diecimila euro. L`agosto mirabellese? Diecimila euro. Il Natale dell`amicizia a Castel di ludica? Diecimila euro. Il presepe vivente a Mineo? Diecimila euro.Tutto regolare, ovviamente. Pagano gli italiani. Nessuna obiezione dal sindaco-presidente del consorzio, Anna Aloisi. Né dal rappresentante legale delle cooperative locali che lavorano nel centro, Paolo Ragusa. Né dall`ex commissario delegato per il Cara di Mineo, Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all`Agricoltura nel governo Renzi. Sono tutti e tre sostenitori del Nuovo centrodestra, il partito del ministro dell`Interno, Angelino Alfano, di cui Castiglione è coordinatore in Sicilia. 
OLIMPIADI DELLA POVERTA' 
Clifford Emeanua, 35 anni, moglie e due figli in Nigeria, faceva il muratore in Libia. Scoppiata la guerra, è scappato: sbarco a 
Lampedusa il 4 agosto 2011. Poi l`hanno portato al campo di Mineo: «Sono rimasto lì un anno e mezzo». Cosa ha fatto in quell`anno e mezzo? «Non c`è lavoro a Mineo. Chiedevo l`elemosina ai bianchi per strada per qualche soldo da mandare alla mia famiglia. Dentro il campo non potevamo fare niente. Solo mangiare e dormire» Ha frequentato un corso d`italiano? «Non  c`era nessuna scuola quando io ero a Mineo. Se c`era, avrei imparato un po` di italiano. Questo è il problema che ho oggi. Nessun lavoro. Niente. Sono un essere frustrato. Non so dove sto andando. Non so cosa fare. Perfino mangiare è un grande problema. Se chiedo l`elemosina per strada, mangio. Se non raccolgo soldi, non mangio». Conclusa per decreto l`emergenza Nord  Africa, nell`inverno 2013, Clifford è stato messo fuori dal Cara con un permesso umanitario. E come migliaia di profughi cancellati da un giorno all`altro dal governo, 
si è ritrovato sulla strada. È salito a Torino e ora dorme in una stanza dell`ex villaggio olimpico al Lingotto. Quattro palazzine 
occupate nel 2013. Dal 2006, anno dei Giochi invernali, erano ancora abbandonate. Lui quasi si scusa: «Dormivo in un giardino. Faceva freddo. Gli amici mi hanno detto che qui c`erano appartamenti vuoti da sette anni». Un meccanico nello scantinato  costruisce carri da trainare con le biciclette. Li usano per raccogliere e rivendere vestiti, elettrodomestici, metalli recuperati tra i rifiuti. Dieci ore fuori, da 50 centesimi a tre euro l`incasso. Soltanto alcuni centri sociali si occupano di loro. Mentre Lega e neofascisti chiedono lo sgombero. 
Stesso clima all`ex Ferrhotel: settanta  profughi somali, uomini e donne, vivono nell`albergo abbandonato accanto alla stazione di Bari. Per la realizzazione di un centro per rifugiati qui dentro sono stati già stanziati due milioni, di cui quasi un milione e mezzo dall`Unione Europea. Fine lavori: 30 dicembre 2012. Proprio così: non sono mai cominciati. A Pescopagano, frazione africana di Castelvolturno,gli ultimi abitanti sono arrivati dopo il 2011.All`alba li vedi alle rotonde alla ricerca di un ingaggio. Il  caporalato è ormai l`unica forma di welfare: il vero jobs act per migliaia di lavoratori. Ma la manodopera è in eccesso. Amou  Otoube, 31 anni, la moglie in Ghana che non vede da 9 anni, nel 2014 ha lavorato soltanto due giorni: un guadagno annuo di 70 euro. Isaac Onasisi, 48 anni, come molti italiani disoccupati è alle prese con le bollette. Il Comune gli ha mandato la tassa sui rifiuti: 239 euro, anche se da anni non passa nessun servizio di nettezza urbana. Sul prato all`ingresso di via Parco Fabbri crescono più sacchi dell`immondizia che erba. 
ANGELI DEL FANGO 
Centri che funzionano bene esistono. Come lo Sprar dell`Ex-canapificio a Caserta: 40 ospiti in appartamenti diffusi, corsi  professionali e di italiano. Fabio Ballerini, dell`associazione Africa Insieme, racconta nvece che a Pisa la prefettura ha messo 
rifugiati perfino nell`ex tenuta presidenziale di San Rossore. Undici richiedenti asilo, erano 40 fino a qualche mese fa, li stanno ospitando a 4,6 chilometri dall`uscita del parco. Altri dieci a quattro chilometri. Con relativi appalti per le cooperative digestione. Gli unici collegamenti con il mondo sono due o tre biciclette da condividere. L`integrazione in mezzo al nulla. Forse c`è una logica nel nascondere i profughi. Ricordate a Genova gli angeli del fango? Sono i venti ragazzi africani armati di badili che con i genovesi hanno ripulito la città dopo l`alluvione. In quei giorni erano ospitati nell`ex ospedale a Busalla. Lega e  Forza nuova hanno protestato con i manifesti: « Ospedale per ita liani, non ostello per africani». Anche se riaprire l`ospedale a Busalla sarebbe un oltraggio alla spesa pubblica, la prefettura ha deciso il trasferimento. Evviva la gratitudine. Gli angeli del fango sono finiti a Belpiano, in mezzo ai boschi dell`Appennino ligure: quattro ore e mezzo di pullman e treno da Genova, quasi tre ore da Chiavari, sette chilometri a piedi da Borzonasca, il paese più vicino dove trovi soltanto una tabaccheria e cinque  frane che si sono mangiate pezzi di strada. Non appena hanno visto il posto, due ragazzi sono usciti dal programma di accoglienza. Questa è l`Oasi di don Mario Pieracci. Lui sale raramente. Vive a Roma ed è più facile incontrarlo in tv, ospite della Rai. L`Oasi è un villaggio vacanze della chiesa. Un tempo era aperto solo d`estate. Dagli sbarchi del 2011, funziona tutto l`anno. Centoventi profughi, asiatici e africani, conferma Caterina, la cuoca che da sola gestisce il centro e la cucina. Il corso di italiano è affidato a uno studente di ingegneria che parla inglese. Nessun aiuto linguistico per chi conosce appena arabo, pashtun o francese. Anche per questo soltanto otto ragazzi su 120 frequentano oggi la lezione. Per scendere in paese, si va a piedi. Una volta al mese. Il vecchio pulImino è rotto. Non c`è Internet. Non ci sono film in lingua straniera. La tv riceve solo i programmi della Rai. «Poveri cristi», ammette Caterina, «ci sono ragazzi che sono arrivati il 5 gennaio 2014 e sono qui ancora in attesa dei documenti». Mangiano, dormono. Si scaldano le infradito e i piedi scalzi, seduti intorno alla stufa a legna. 
Si riparte. Qualche ora di autostrada ed ecco Gorizia, la Lampedusa dell`Est: ogni mese la rotta balcanica scarica dai camion  decine di richiedenti asilo afghani e pakistani. Gli amministratori della cooperativa siciliana Connecting People e una vice prefetto sono sotto processo con l`accusa di avere gonfiato numeri e fatture del Cara di Gradisca d`Isonzo. I dipendenti della cooperativa non ricevono lo stipendio da mesi. Molti di loro sono allo stremo, come gli africani di Pescopagano. Nonostante lo scandalo, secondo i sindacati il prefetto potrebbe presto arrivare a una risoluzione consensuale del contratto. Una conclusione amichevole: la Connecting People non perderebbe così la cauzione da 791 mila euro. Mentre i lavoratori perderebbero gli arretrati. Nell`industria dei rifugiati, tutto è possibile. All`inizio dell`inverno sempre a Gorizia, provincia con decine di caserme da anni deserte, la prefettura ha pagato come dormitorio un`officina: umidità, materassi per terra, riscaldamento scarso, 25 euro per persona e 70 profughi che al fortunato proprietario hanno reso 1.750 euro al giorno. Una velocità di 73 euro l`ora. Proprio quell`officina era il garage di una  concessionaria Lancia. Curiosa parodia che riassume il destino dell`economia italiana: perse le auto, si spremono i profughi. 
ha collaborato Francesca Sironi 
 
 
 
La fabbrica dei FANTASMI 
Fino a un anno di attesa per chi chiede asilo. E spesso la richiesta di avere una casa. Ecco come la nostra burocrazia abbandona nel caos migliaia di profughi 
l'Espresso, 23-01-2015
FRANCESCA SIRONI 
L'Italia è un pomerriggio vuoto. Un'attesa forzata fra il “sono vivo” dello sbarco e il "chi sono" di un documento. Nel 2014 63mila migranti hanno fatto richiesta di protezione internazionale nel nostro Paese. Raccontano di essere fuggiti da guerre, dittature, persecuzioni; hanno affrontato viaggi tremendi. In tutta Italia le loro foto, insieme a un nome e un modulo che riassume i ricordi della loro sofferenza, sono nelle mani di venti "commissioni territoriali", venti squadre di funzionari che hanno il compito di valutare le loro storie. Di decidere chi è una vittima e chi un impostore. Una missione che richiede tempo, certo. Ma troppo. Oggi gli stranieri arrivati sulle coste nel Sud che presentano domanda d`asilo si sentono rispondere: «Le faremo sapere a gennaio. Del 2016». Dovranno aspettare dodici mesi prima di capire se lo Stato italiano li considera dei profughi in fuga dall`orrore, protetti quindi da convenzioni internazionali con un permesso di soggiorno che va da uno a cinque anni. Oppure dei clandestini, irregolari da espellere. 
A ottobre l`Europa fotografava nel nostro Paese oltre 37mila persone sospese in questo limbo. Le commissioni sono ingolfate  dall`esplosione di richieste, aumentate del 144 per cento rispetto al 2013 sull`onda di Mare Nostrum. Il ministro dell`Interno 
Angelino Alfano ha promesso che avrebbe aumentato gli uffici per dare risposte in tempi certi. Ma finora nulla è cambiato. E  mentre la macchina della burocrazia s`inceppa, quella dell`accoglienza produce fantasmi. Da una parte rifugiati a cui viene  procrastinato il riconoscimento di un diritto fondamentale; dall`altra disperati che si aggrappano ai mesi d`attesa come unica  strada per provare comunque a raggiungere un permesso. Ai richiedenti asilo infatti va garantita assistenza, chiunque essi siano,  da ovunque arrivino, almeno fino al verdetto della commissione. Vanno ascoltati. Possibilmente integrati. Anche se raramente  accade. «Le lungaggini burocratiche li disorientano profondamente», commenta Livio Neri, un avvocato che segue molti stranieri a Milano: «Li fanno sentire in trappola». Un processo kafkiano di cui i migranti non comprendono tempi, procedure, priorità. 
Così chi può, chi sa, chi ha la fortuna di non essere identificato dalla polizia allo sbarco, scappa prima di entrare in queste  sabbie mobili. Scompare come hanno fatto oltre 100mila siriani, eritrei e somali solo lo scorso anno. Fuggiti verso Paesi dove avranno risposte rapide e maggiori chance di costruire un futuro: nel 2014 la Germania ha ricevuto 202mila domande d`asilo, tre  volte tanto noi. «La fuga di siriani ed eritrei è avvenuta sotto gli occhi di tutte le istituzioni. Un accordo informale passato sotto silenzio» ,commenta Olivier° Forti, immigrazione della Caritas: «Questo ha sicuramente alleggerito il sistema d`accoglienza italiano. Ma ha anche lasciato arricchire, alla luce del sole, una rete di mafiosi e trafficanti. Ha costretto i profughi di uerra a pagare gli strozzini. Mentre noi guardavamo dall`altra parte». Un sistema criminogeno, che si è ingrandito senza ostacoli finché i Paesi della Ue non hanno alzato la voce: Austria, Germania, Francia, hanno contestato "decine di migliaia di irregolari".
E in autunno una circolare del ministero ha ribadito alle prefetture che bisogna rispettare le regole: identificare, controllare, accogliere. 
Sul campo però continuano forme «di tacita dissuasione» per ostacolare chi deve presentare richiesta d`asilo,come denunciano i volontari di un`associazione milanese, Naga: ostacoli «che passano attraverso una burocrazia artatamente contorta». Per  "verbalizzare" le domande, ad esempio, la questura di Milano chiede di presentare una "dichiarazione di ospitalità". Ovvero obbliga a trovare qualcuno che dica «questa persona vive a casa mia»: una pretesa sorprendente nei confronti di chi è appena rrivato dall`altra parte del Mediterraneo. «È una prassi consolidata. Ma illegittima», sostiene l`avvocato Neri: «Alcune associazioni, come la Casa della Carità, offrono aiuto gratis per superare queste barriere. Molti non lo sanno però e si rivolgono a persone che si fanno pagare per siglare dichiarazioni fittizie». Sono gli stessi funzionari a riconoscere che il "certificato casa" serve per allontanare dagli sportelli i "meno motivati" a domandare asilo. Nel 2011 Giuseppe De Angelis, allora direttore dell`ufficio immigrazione della questura di Milano, l`ha messo nero su bianco: l`obiettivo è «evitare l`uso strumentale del diritto d`asilo e la permanenza sul territorio in assenza dei requisiti necessari». Una procedura che poi è stata adottata anche a Bergamo e a Roma, dove i gesuiti del Centro Astalli, pur di dare una mano agli stranieri, sono arrivati a firmare 10mila di queste dichiarazioni d`ospitalità, imposte dalla questura. 
La lentezza della burocrazia non contribuisce nemmeno a colmare l`altra falla del sistema: l`integrazione. Ossia lezioni di italiano, corsi professionali, consulenze nelle pratiche legali e altre iniziative che contribuiscano a introdurre gli stranieri nella nostra società. Spesso non è così: i centri temporanei raramente garantiscono sostegni efficaci, isolando gli ospiti nel vuoto. E anche gli operatori più motivati, le strutture più serie (che sono tante e svolgono un lavoro straordinario) da sole non riescono a far tutto e bene. «Bisognerebbe attivare servizi per l`integrazione adeguati, che vadano oltre l`accoglienza immediata e diffusi in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale», spiega Forti della Caritas. Oggi non esistono. Lo sa bene chi un permesso l`ha ricevuto - magari da anni - ma vive lo stesso arrangiandosi, dormendo per strada o dentro case occupate. Rifugiati, profughi, vittime di tortura, scappati dai bombardamenti per finire nella fame in Italia. Sono tremila solo a Roma, settemila in Puglia. Hanno le carte in regola, sono stati ospitati per mesi a carico dello Stato, senza l`opportunità di un futuro diverso. Anche loro sono rimasti fantasmi. 
 
 
 
Il Made in Italy tra sfruttamento e ricatti
Così nella filiera si abusa dei lavoratori
Paghe da fame, orari di lavoro impossibili, diritti negati, straordinari non pagati e continuo ricorso al nero. Il dossier “Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia?” mette in fila tutti i mali dei distretti del Veneto, Toscana e Campania. Un far west di contraffazione e illegalità che potrebbe essere corretto
l'Espresso, 23-01-2015
DI MICHELE SASSO
Il 1 dicembre di un anno fa, ore 7 del mattino, i lavoratori di Teresa Moda si preparavano ad una nuova giornata di lavoro. Chini sulle macchine da cucire fino a diciassette ore, per una paga tra i due-tre euro all’ora. Quaranta euro totali, senza fronzoli di buste paghe né contributi. Per mangiare e dormire il problema era stato risolto costruendo nel capannone nella periferia di Prato dei loculi-alloggi in cartongesso.
Loro erano cinesi e la maggior parte è morta per l’incendio che si è scatenato. Zero norme di sicurezza, nessun regolamento rispettato per produrre e vendere alle case di moda al maggior ribasso possibile.
L’indignazione, i titoli dei giornali e poi il ritorno alla normalità.
Questo c'è dietro il mondo scintillante della moda: un far west di non regole e sfruttamento, precarietà e un lavoro che quando non ammazza non dà garanzie di vivere sopra il limite della povertà.
Per capire e contrastare questo mondo è stata lanciata la campagna Abiti Puliti – sezione italiana della Clean Clothes Campaign – che opera per il miglioramento delle condizioni di lavoro e il rafforzamento dei diritti dei lavoratori nell’industria tessile globale attraverso la sensibilizzazione e la mobilitazione dei consumatori, la pressione verso le imprese e i governi.
Nel dossier “Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia?” si mettono in fila fatti e racconti dai principali distretti del made in Italy, dove si dovrebbe produrre qualità dei manufatti e della vita per chi è impiegato e invece si scoprono tutti i mali.
LA VERGOGNA IN CASA NOSTRA
Non è un solo un problema lontano, esotico, che tocca figli, lavoratori e minorenni stranieri impegnati a cucire palloni, scarpe e borse per il mercato globale.
Nei distretti italiani (l’abbigliamento a Prato, la pelletteria a Firenze, le calzature della Riviera del Brenta e il sistema moda della provincia di Napoli) le storture sono note: contraffazione che va a braccetto con il lavoro nero e la produzione totalmente sommersa.
E poi l’apartheid professionale: donne e migranti svolgono le mansioni più ripetitive e semplici, mentre gli uomini sono collocati nei servizi, nella progettazione, nel taglio delle pelli e nel montaggio della calzatura. Solo il modellista che fabbrica il prototipo a partire dai disegni dello stilista si salva, con qualifica e stipendio maggiore.
Per tutti, italiani e non, le condizioni di partenza sono le stesse: provengono dalle classi meno abbienti e con scarsi livelli di istruzione. Tra gli assunti nel periodo 2008-2013 un decimo era senza titolo di studio, la metà disponeva della licenza media, un quinto aveva conseguito un diploma di scuola superiore e solo il 5 per cento la laurea.
Ancora più drammatico il caso della provincia di Napoli, dove la stragrande maggioranza dei lavoratori appartiene al ceto popolare con bassi livelli di istruzione.
Metterli in scacco con nessun diritto riconosciuto, la normalità, come racconta questo operaio: «Di solito facciamo un’ora di straordinario al giorno quando c’è tanto lavoro, però non pagano. Fanno "flessibilità". Se tu superi le 120 ore all’anno, dalla successiva ti pagano un’ora di straordinario. Però noi siamo fortunati, perché se lavoriamo il sabato loro pagano subito, sempre».
Per anni con il ricatto del posto assicurato si rimane a livelli contrattuali particolarmente bassi, come raccontano queste due modelliste: «Ho fatto uno stage di prova per un mese e poi mi hanno assunto come apprendista a tempo determinato. Cinque anni, il massimo che potevano fare. Logicamente pagano meno contributi. All’inizio sono partita da 900 euro. Poi piano piano ho maturato il resto».
Nessuna mobilità: «Non ho cambiato livello in quindici anni di lavoro, per avanzare e? necessario dare molto, ad esempio le prestazioni straordinarie possono farti avvicinare le simpatie del capo, io ho sempre chiesto l’aumento, ma non me l’hanno mai dato».
DIRITTI? NO, GRAZIE
Dalle interviste realizzate è emerso che in Toscana come in Campania convivono in molte piccole aziende (in quelle superiore a 50 addetti è più difficile) occupazioni regolari e irregolari.
Come? Grazie ai contratti part-time che però valgono per l’intera giornata, o di dipendenti che una volta messi in cassa integrazione (grazie ai fondi pubblici destinati alle aziende in crisi) sono in realtà richiamati per continuare a svolgere lo stesso compito nello stesso reparto.
Una truffa, tutta in nero, con nessuno che reclama per non perdere lo stipendio e l’orario che si allarga a dismisura. Forzatamente si rimane oltre la fine del turno o nel fine settimana, senza nessuna paga extra per lo straordinario.
E poi in Toscana, nel settore pellettiero-calzaturiero e in quello dell’abbigliamento (abiti da sposa) e degli accessori (guanti, cappelli) sono ancora diffuse forme di lavoro a domicilio pagate a cottimo in base ai modelli e al numero di prodotti realizzati.
Si tratta in parte di modalita? di lavoro regolari e in parte irregolari, come racconta una lavorante a domicilio che cuciva in nero: «Io cucivo le tomaie a mano, con ago e filo: un lavoro duro. Infatti ora mi fanno male tutte le braccia. Io e mio figlio facevamo 20-30 paia. Mi pagavano al paio, tutto in nero. Ti svegliavi alle 6 del mattino, eri a casa quindi potevi guardare anche la televisione mentre lavoravi e fino alla sera tiravi tutto il giorno il filo. Per prendere poi alla fine del mese 500, 600 euro. Poi ho avuto questi dolori e ho smesso».
Il contrasto è evidente se si paragonano i prezzi finali esposti nelle vetrine con le condizioni di lavoro di chi porta a casa questi stipendi da fame.
Tra le varie griffe sembra che la maison Prada sia quella in cui i rapporti sindacali siano più complicati e le condizioni di lavoro più critiche.
«Prada è l’unica delle grandi case del lusso nella Riviera del Brenta che applica il contratto di lavoro del cuoio sebbene la produzione sia calzaturiera, perché in sostanza produce scarpe. Il contratto per il cuoio è leggermente più basso come livello economico e come avanzamento normativo rispetto al contratto tessile o al contratto calzaturiero. Quindi è una scelta un po’ furbesca», spiega un funzionario sindacale ascoltato nel dossier.
Per invertire la rotta la campagna abiti puliti chiede poche semplici mosse.
A partire da tutte le misure necessarie per richiamare le imprese italiane alla responsabilita? di rispettare i diritti umani (incluso il pagamento del salario dignitoso), rafforzare l’attivita? dell’Ispettorato del lavoro per aumentare la capacita? di controllo e favorire l’emersione del lavoro illegale e proteggere l’attivita? sindacale sui luoghi di lavoro.
 
 
 
Rosarno, la giovane sindacalista che sfida i caporali
In una delle stagioni più difficili per la raccolta degli agrumi in Calabria, centinaia di migranti vivono in capannoni abbandonati. Ma qualcosa si muove. Una giovane donna va nei campi all’alba e spiega ai raccoglitori i propri diritti. Sotto l’occhio dei caporali
l'espresso, 19-01-2015
ANTONELLO MANGANO
Ha guidato una manifestazione dei braccianti africani. Ha invitato in Calabria i sindacalisti senegalesi. Col furgone va nei campi alle cinque di mattina e spiega ai raccoglitori i propri diritti. Celeste Logiacco ha 32 anni ed è nata in un paese della zona. Da meno di un anno è segretaria della Flai Cgil della Piana di Gioia Tauro. Prova a fare una rivoluzione nella stagione agrumicola più difficile di sempre. “Prima o poi le cose cambieranno anche qui”, dice all’Espresso.
Lo scorso 11 dicembre ha organizzato un corteo aperto dallo striscione «lavoratori italiani e immigrati insieme per chiedere diritti». Un percorso breve per unire due luoghi simbolo: la tendopoli e il capannone. Il primo è l’insediamento del ministero dell’Interno. E' ormai al collasso, ci vivono circa mille africani, dieci per tenda. Il secondo è un capannone abbandonato nella zona industriale fantasma. Senza elettricità e bagni, è occupato dai braccianti da qualche settimana. Un edificio senza infissi. Teli neri di plastica impediscono al freddo di entrare. La scala interna non ha ringhiera.
Ma una caduta non è il pericolo più grande. C'è il rischio di incendi, dentro ci sono decine di bombole a gas. Basta una fiammella e cento tende possono diventare torce. Insieme a coperte, cartoni, stivali e valigie.
Da una fontanella i lavoratori prendono l’acqua, ma probabilmente non è potabile. Il rischio sanitario è alto, commentano gli operatori di Emergency. «Ici c’est boutique», hanno scritto gli africani all’ingresso del negozietto che vende di tutto. C’è chi sopravvive con la fede, chi con l’ironia.
Sindacato di strada
Celeste ci introduce nel suo ufficio. Ha ridipinto da sola le pareti della stanza. “Preferisco il giallo vivace, mette allegria”, spiega. Il 12 dicembre circa 150 migranti hanno partecipato a Reggio Calabria allo sciopero generale. «Per la prima volta decine di braccianti non sono andati al lavoro ma a una manifestazione per chiedere i loro diritti». Con lo stesso spirito, fa sindacato di strada. Da queste parti significa prendere un furgone e andare nei campi alle cinque di mattina. In un territorio storicamente dominato dai clan. Poi spiegare ai raccoglitori i propri diritti, sotto l’occhio dei caporali. E dei commercianti che usano i loro servizi, come dimostrano almeno quattro inchieste della magistratura. Il 18 dicembre, per la giornata del migrante, ha inviato Elisabeth Ndaye e Coumba Ndong, sindacalisti senegalesi. Anche questo un modo di globalizzare i diritti. La prossima sfida sarà quella delle vertenze. Far recuperare i soldi dai furbi delle campagne. “Aspetto quello che mi spetta da giorni e ogni volta mi dicono: richiama domani”, ci dice Steven, gambiano, che vive con altri sette compagni in una stanza del capannone.
Rifugiati, operai e napoletani
Boubakar viene invece da Dakar. O, meglio, da Livorno. Faceva l’ambulante e viveva in un normale appartamento. Lo aspettano gli amici alla fine dell’inverno. È vittima di una truffa, quella della sanatoria come colf fittizio. Ma era l’unico modo di avere un permesso di soggiorno. Lo Stato gli sottrae cento euro al mese per un pezzo di carta. Anche lui vive al capannone.
I migranti che arrivano in Calabria possono essere divisi in tre categorie. I “rifugiati”, gli “operai” e i “napoletani”. I primi provengono dall’“emergenza Nord Africa” del 2011. Da anni vivono tra centri d’accoglienza, pratiche burocratiche per l’asilo e lavoro in campagna. Gli operai lavoravano nelle fabbriche del Nord e vivevano in normali appartamenti. Sono stati i primi a pagare la crisi e a cercare nuove opportunità in agricoltura. Infine tutti gli africani che vivono nell’area di Castel Volturno (che chiamano genericamente “Napoli”) e si spostano stagionalmente per le raccolte, ma anche per organizzare negozietti e servizi ai margini dei ghetti. Nel complesso, secondo i dati di Emergency, due migranti su tre hanno il permesso di soggiorno e dunque sono perfettamente regolari.
Effetto domino
Appena arrivati, Rosarno sembra un paese come tanti. Invece è uno dei luoghi dell’economia globale. Collegato con il Brasile, la Russia e l’Africa. Braccia migranti, multinazionali del succo, grandi commercianti sono gli attori di un gioco che rischia di saltare.
La prima questione è l’embargo russo seguito alla guerra in Ucraina. A Rosarno si producono due tipi di agrumi. Clementine per i supermercati e arancia bionda da spremitura, quella che va a finire nelle aranciate industriali.
I mercati dell’Est, da qualche anno, sono uno sbocco importante per il prodotto locale da banco. La chiusura del mercato russo è stato un primo colpo. A questo si sono aggiunte le particolare condizioni climatiche. Un inverno stranamente caldo. I produttori sono esasperati, il Comune ha chiesto lo stato di calamità. Nel frattempo sono più di duemila i braccianti africani arrivati per la raccolta, molti dei quali qui per la prima volta. A loro si sommano bulgari e rumeni, in genere residenti sul territorio.
La catena
“Coca Cola è partner di Expo”, dice Coldiretti. “Usi le arance di Rosarno e le paghi a prezzi equi”. “Quattro anni fa l’amministratore delegato della multinazionale aveva incontrato l’allora ministro dell’Agricoltura Mario Catania”, dice all’Espresso Pietro Molinaro di Coldiretti. “Si era impegnato a potenziare l’attività in Calabria e a remunerare la filiera. Non ha fatto né l’uno né l’altro”.
Come funziona la catena in tutta Italia? Il produttore agricolo raccoglie le arance e le conferisce agli spremitori che, a loro volta, vendono il succo concentrato alle tre multinazionali monopoliste. I segretari della Cgil locale Celeste Logiacco e Nino Costantino evidenziano che il calcolo economico non può ignorare i diritti di chi lavora. Coldiretti si è detta d’accordo e ha coniato lo slogan “Coltiviamo gli stessi interessi”, che unisce italiani e migranti. “Con meno di 15 centesimi la filiera non è remunerativa”, evidenziano i produttori. E chiedono alle grandi aziende il rispetto della legge. Che prevede un minimo di frutta nelle bibite del 20%. Come se non bastasse, nel porto di Gioia Tauro, spesso arriva illegalmente succo brasiliano. Lo usano per “tagliare” quello locale.
 
 
 
Gentiloni: "Non confondere l'immigrazione col terrorismo"
Il ministro degli Esteri: "Sarebbe un errore culturale, sui barconi ci sono persone disperate. Infiltrazioni? Il rischio c'è e vigiliamo"
stranieriinitalia.it, 22-01-2015
Londra - 22 gennaio 2014 - "Ci sono di rischi di infiltrazione, anche notevoli, di terroristi dall'immigrazione. Per fortuna i nostri apparati di sicurezza sono allertati e funzionano, ma questo non ci consente di abbassare minimamente il grado di preoccupazione”.
Lo ha detto oggi il ministro degi Esteri italiano Paolo Gentiloni, che ha partecipato a Londra alla riunione della coalizione internazionale anti Is.
“Nessun Paese democratico – ha però precisato Gentiloni - può avallare alcuna confusione fra fenomeni migratori e terroristici e diffondere l'idea che dietro i barconi di disperati che approdano sulle nostre coste si annidi il terrorista col kalashnikov. Sarebbe un errore culturale, oltreché improbabile, dal punto di vista tecnico".
Il ministro ha parlato anche di immigrazione illegale, sottolinando l'importanza della collaborazione con i Paesi d'origine e di transito.
“I flussi migratori dai Paesi dell'Adriatico e dall'Albania ha ricordato Gentiloni - non sono stati risolti schierando le truppe, ma con strategie, accordi e cooperazione. E dalla Tunisia “nel 2014 abbiamo avuto pochissimi arrivi. Lì c'è stata una ripresa dello Stato e accordi di cooperazione con l'Italia". Il problema ora è la Libia, “da dove nel 2014 sono transitate e poi arrivate in Italia circa 140mila persone in 826 sbarchi".
 
 
 
la Repubblica, 22-01-2015
GIULIA CARRARINI, TOMASO CLAVARINO e ALBERTO CUSTODERO 
video di GIULIA CARRARINI e TOMASO CLAVARINO 
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