I "boss comunitari" spopolano grazie alla mancata integrazione

 

Osservatorio Italia-razzismo 6 ottobre 2011
Saleh Zaghloul
Sergio Romano parlando delle esperienze migratorie di molti paesi europei, ha recentemente affermato che “da alcune comunità straniere sono emerse nomenklature composte da persone ambiziose che aspiravano a fare dei loro connazionali una sorta di collegio elettorale e di servirsene per diventare gli interlocutori accreditati delle autorità locali” (Corriere della Sera, 8 settembre 2011). 
In effetti è proprio così, ma la chiusura tipica delle comunità etniche non è l’effetto delle politiche multietniche adottate dai governi locali, che punterebbero sul “superamento dell’assimilazione” e sul “consentire agli immigrati di rispettare le loro tradizioni, confessare la loro fede religiosa, conservare le loro feste comunitarie, trasmettere ai loro figli la conoscenza della lingua e della cultura dei Paese di provenienza”. Ciò che allontana le comunità dal resto della società e che ha prodotto le “nomenklature” fra gli immigrati è stata una politica di tutt’altro segno e di tutt’altro indirizzo. In Italia, per esempio, i governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni hanno fatto molto poco per facilitare la possibilità delle persone straniere di partecipare alla vita pubblica e politica e perché quelle stesse persone avviassero proficui percorsi di integrazione nella società italiana. Molto è stato fatto invece per rendere questi percorsi sempre più tortuosi. Si pensi alla difficoltà con cui si ottiene il permesso di soggiorno e quella con cui lo si rinnova. Ma non è solo questo. Mi riferisco soprattutto a quanto poco, per non dire nulla, è stato fatto per il diritto di voto agli stranieri e per una legge sulla cittadinanza basata sullo ius soli. La semplificazione di queste procedure contribuirebbe all’uscita di scena di quei “boss comunitari” che ponendosi come intermediari tra gli stranieri e le istituzioni mantengono ai margini i loro connazionali. 
 
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