Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

Menù

 

"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

26 novembre 2010

Mutilazioni genitali parte la campagna Piano anti-violenza: Carfagna senza soldi
l'Unità, 26-11-2010
Bonino e Carfagna firmano per la campagna contro le mutilazioni sessuali femminili nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Piano del governo, Finocchiaro: «Azzerati i fondi per centri anti-violenza».
Una firma su un petalo rosa, simbolo del sesso femminile mutilato, una realtà per 120 milioni di donne, 500mila in Europa, 38.000 nella sola Italia. La ministra per le pari opportunità Mara Carfagna e la vicepresidente del Senato Emma Bonino scrivono il loro nome sull'appello della campagna mondiale contro le mutilazioni genitali femminili, promossa in Italia da Aidos e Amnesty International e presentata ieri a palazzo Chigi in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
L'approvazione di una risoluzione Onu è una concreta possibilità. «Questo è un momento cruciale della campagna contro le mutilazioni, vogliamo una risoluzione entro l'anno - spiega Emma Bonino -. Cambiare si può: su 29 Paesi dove si praticano, 19 hanno ottenuto una legge nazionale di interdizione». La ministra Carfagna conferma l'impegno del governo, con Frattini in prima linea, arriva anche a promettere che si farà in modo che «questa violazione dei diritti umani rientri nella richiesta del diritto d'asilo».
Giornata piena per la ministra, tornata a sorridere dopo il temporale e pronta a schivare domande che escano dal menù del giorno. «Farei un torto alle tante donne che subiscono violenza se parlassi d'altro», dice, difendendo Berlusconi che «ha dimostrato con fatti concreti la sua grande fiducia nelle donne portandone ben 5 al governo». A Napoli in mattinata la ministra aveva annunciato un piano nazionale contro la violenza sulle donne, un sistema per mettere in rete i centri anti-violenza, rafforzarli e potenziare il numero verde 1522.
Carfagna coniuga al futuro anche questo piano: sarà finanziato con 20 milioni di euro. Solo che questa cifra non c'è nella legge di stabilità, tanto che il Pd ha presentato un emendamento per chiedere la correzione del testo e il rifinanziamento del fondo per i centri anti-violenza che è stato azzerato. «Nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne chiedo al Ministro Carfagna di valutare seriamente l'accoglimento dell'emendamento... perché sono convinta sia arrivato il momento di uscire dalla retorica», ha auspicato ieri la presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro. L'emendamento - nato su iniziativa della senatrice Marilena Adamo - prevede uno stanziamento di 20 milioni annui per tre anni, a partire dal 2011. Perché le parole non bastano ad aiutare le donne.
AULA SGUARNITA
In realtà la giornata di ieri è stata povera anche di retorica di circostanza. A Montecitorio, tra i banchi sguarniti - «avrei preferito che il tema venisse affontato con l'aula gremita», non ha potuto fare a meno di notare Rosy Bindi che presiedeva la seduta - la maggioranza e il governo si sono fatti notare per il loro silenzio sulla Giornata internazionale. «Una vergogna» ha detto l'ex ministra delle pari opportunità Barbara Pollastrini, che ha presentato la mozione del gruppo Pd. «Troppe volte sentiamo invocare tolleranza zero mentre vediamo praticare tagli di risorse per la prevenzione».?



La strage delle nigeriane portate in Italia da schiave

l'Unità, 26-11-2010
CRISTIANA CELLA

Isoke Aikpitanyi ha scelto la Giornata Internazionale contro la Violenza sulle Donne per presentare l'indagine sulla tratta delle nigeriane. È una delle fondatrici dell'Associazione Vittime ed Ex Vittime della tratta.
La città, in Italia, nasconde, tortura, uccide, seppellisce. Città grandi e piccoli paesi, campagne, ovunque, in tutte le regioni, si può vivere all'inferno. Proprio lì, accanto, nella strada di tutti i giorni. Un mondo sommerso, un passo più in là del nostro. E' qui che abitano le giovani nigeriane, vittime della tratta, le schiave della porta accanto o del marciapiede di fronte. Un traffico che coinvolge da vent'anni decine di migliaia di giovani donne. Hanno nomi leggeri, Joy. Gladys, Rose e una vita di piombo. E continuano ad arrivare, sempre più giovani adesso, bambine, adolescenti.
LA LISTA NERA
Oltre 500 sono state uccise, 200 in poco più di due anni. I cadaveri, devastati, abbandonati nei campi, nelle discariche, nei luoghi oscuri delle nostre civilissime città. Altre, stuprate, picchiate, massacrate, riescono a restare in vita. Se vita si può chiamare. Poche riescono a salvarsi. Sono centinaia le storie agghiaccianti raccolte da Isoke Aikpitanyi, nella indagine che viene presentata in questi giorni, portata avanti insieme ad altre due donne, come lei ex vittime della tratta, e con il sostegno del Ministero delle Pari Opportunità. I campioni della ricerca sono 500 ragazze ma le storie si allargano alle amiche e coprono circa 20.000 donne. Solo una fetta del traffico più esteso che fa capo alla potente e violentissima mafia nigeriana, in collusione con quelle di casa nostra. Un esercito fragile, "con il corpo leggero come una foglia di mais". Vite diverse, ma il percorso è sempre lo stesso. Comincia in Nigeria, dalle famiglie: le spingono a partire, hanno bisogno dei loro soldi, le costringono, le vendono. Anche i padri, i mariti, i fratelli. 476 su 500 donne del campione, sono il sostegno della famiglia. Passano in mano agli "italos", i trafficanti. Sanno o non sanno. Il futuro è nebuloso, fa paura. Alcune sono convinte con le lusinghe di una bella vita, di un lavoro, altre devono cedere, anche se non vogliono. Il viaggio può durare mesi, attraverso il deserto e il mare, merce usata, trasportata, rivenduta, spartita.«
In Italia, comincia la nuova vita, all'ombra della «maman», inflessibile carceriera e maestra del mestiere. La gerarchia para-familiare della tratta, che imita quella del villaggio. Accanto alle «maman», i brothers, le sisters e le baby, cioè le minorenni. Obbedire è la legge. Tornare indietro non si può più. Devono ripagare il debito, enorme, infinito. Può arriva¬re anche a 80.000 euro. Chi si ribella, chi non vuole, chi parla, chi denuncia, chi incontra giornalisti, viene punita duramente, la famiglia al paese, minacciata. La «maman» pensa a tutto, anche ai permessi di soggiorno, legali, ottenuti illegalmente, il cui costo si aggiunge al debito. Ma non per tutte. La paura di essere arrestate e rimandate indietro serve. Tiene al guinzaglio. Serve sempre la paura. In patria le aspetta il rifiuto dei parenti, la prigione, luoghi di violenze terribili, un nuovo viaggio, la morte. Peggio di qui, perché allora muore anche quel filo di speranza.
Lo stupro multiplo iniziale è parte della formazione. Sciamano per la città, si disperdono, conquistano altri territori, in piccoli gruppi, per non dare nell'occhio, lavorano al chiuso, ovunque. Il mondo sommerso si approfondisce, scompare. Le organizzazioni di assistenza adesso fanno fatica a trovarle. Alcune cambiano continuamente città, o vivono all'estero e diventano pendolari di frontiera. Una migrazione perenne. Irraggiungibili, tranne che per i clienti e per le ex
vittime, come Isoke e le sue compagne.
Il lavoro quotidiano dura 10/12 ore. Scendono in strada seminude, con i tacchi a spillo, pronte a essere usate. Esposte. Al freddo, alla violenza, qualunque, bersagli in attesa. Prima di iniziare, ogni giorno, per tutte, la stessa preghiera: «Fa che oggi non mi succeda niente». Di tutto, infatti, può succedere.
Ci sono clienti tranquilli, gentili perfino, ci sono anche i «polli» da spennare, ma ci vuole molta fortuna. Spesso quello che cercano non è solo sesso. Le ragazze li chiamano « stupratori a pagamento». Vogliono fare di tutto perché hanno pagato. Comprano la possibilità di realizzare l'orrore che hanno dentro, impuniti. Gesti e parole che dormivano, di cui forse non pensavano di essere capaci. Bestie italiane, uomini del nostro paese. Sfogare la rabbia, la frustrazione, le fantasie da film porno e sadomaso, tutto quello che non hanno il coraggio di fare con la moglie. Tanto nessuno lo verrà mai a sapere.
Dice Isoke: «Ogni nigeriana stuprata è un'italiana salvata». Spesso ci si mettono in tanti ad accanirsi. Il disprezzo aiuta. Donna, giovanissima, immigrata, nera e prostituta. Assorbe qualsiasi sfogo, tutto è lecito. Quando hanno finito, le abbandonano nei posti deserti, ferite, distrutte, lontano chilometri dall'abitazione, dopo averle derubate. In ospedale ci vanno solo se stanno per morire, si può essere denunciate. La paura. Sempre, di nuovo. Si curano in qualche modo e poi di nuovo si trascinano sulla strada. Il corpo diventa estraneo, ostile, abbandonato al suo destino. Se fanno pena tanto meglio, a volte i clienti fanno l'elemosina. E la «maman» le accoglie con un sorriso: «Vedi, di che ti lamenti? Lavori lo stesso e senza fare niente».
Per fortuna i clienti non sono tut-ti carnefici. Possono diventare «risorsa», fondamentale, per sottrarre le ragazze al traffico. Molti di loro, avvicinati dai collaboratori di Isoke, hanno deciso di aiutare la sua Associazione, diventare veicoli del riscatto. Si difendono, con risposte scontate, «perché no?», «Come lo so che è minorenne?». Ma poi ci pensano su e cambiano strada. «Abbandonano l'egoismo» così dicono. Alcuni informano, convincono, altri usano la «disobbedienza civile»: matrimoni di comodo, assunzioni fittizie, per far ottenere alle ragazze il permesso di soggiorno.
LA SPERANZA
Missioni che hanno spesso successo con l'uscita definitiva delle ragazze dalla schiavitù della tratta. Alcune trovano lavoro, si sposano, mettano su famiglia. E spesso, aiutano le altre che sono rimaste all'inferno. Così trasformano il dolore.



Donne oppresse
Blasfemia e infibulazione L'islam troppo lontano da noi

Libero, 26-11-2010
ANTONIO MAZZOCCHI

Il massacro che sta avvenendo in Medio Oriente, oltre a porci di fronte alla crudeltà di una vera a propria guerra di intolleranza, ci fa anche riflettere sui tanti singoli casi, come quello di Asia Bibi, che quotidianamente coinvolgono con metodi e cause diverse, circa 200 milioni di cristiani nel mondo.
A fronte di un Occidente che si pone ancora tanti interrogativi e che vede negli orrori dell'ultimo conflitto mondiale, un momento di profonde offese alla dignità umana, c'è un Medio Oriente che, grazie alla crescita economica dell'ultimo mezzo secolo si è affermato sempre di più anche come modello culturale.
Nell'Europa sempre più unita sotto il profilo economico politico, ma ancora non sotto il profilo culturale, stanno sorgendo però delle vere e proprie scintille che sfociano in mani-festazioni pacifiche ma dai toni pericolosi. Quando ad esempio assistiamo ad una manifestazione islamica di fronte ad una cattedrale della cristianità, sui luoghi dove per secoli si son tenute le processioni, di fatto c'è il messaggio di una nuova occupazione, della volontà di prendere spazio e una nuova posizione nella nostra società.
Quando nelle nostre scuole si contestano i crocifissi nelle aule, o addirittura si arriva al punto di vietare i presepi in al-
cuni istituti, vuol dire che esistono, di fatto, dei conflitti di convivenza.
Il caso di Asia Bibi oggi qualche giorno fa di Sakineh, hanno riportato sulle pagine della nostra cronaca, la condizione della donna nel mondo islamico.
In Italia siamo abituati a fare le battaglie più varie ed eterogenee, a batterci per le quote latte o per l'alta velocità, ma penso che nessuno di noi si sarebbe mai messo in testa di dover scendere in piazza contro la lapidazione, termine che appartiene per noi al dizionario biblico dell'Antico Testamento. Eppure dal sito della Regione Lazio a tante pagine di questa o quella istituzione, c'è una pioggia di appelli contro la lapidazione di questa donna iraniana. Così come le piazze dei capoluoghi sono letteralmente incartate di appelli contro l'uccisione di Asia Bibi. Ma mentre il singolo caso riesce ad emergere grazie a qualche giornalista coraggioso che mette a repentaglio la sua vita pur di lanciare la notizia, quanti sono i casi, le violenze, le lapidazioni che non si trovano sui giornali e che dipingono l'intero mondo islamico come una terra di barbari incivili, sempre pronti a impiccare, lapidare, infibulare.
C'è anche un islam moderato, forse troppo moderato, che non riesce ad affermare il valore e la dignità della donna, non
riesce a sconfiggere le forme più dure e cieche di integralismo così come non riesce a ribadire i diritti fondamentali dell'uomo come base di una società multiculturale.
Ci troviamo di fronte alla sfida del multiculturalismo con un Occidente che in qualche modo sta mettendo in discussione molte sue vecchie posizioni pur di ottenere una convivenza civile con tutte le nuove popolazioni straniere, ed un mondo islamico, che al contrario, è sempre chiuso su sé stesso ed anzi, con una certa arroganza cerca di imporre i suoi costumi anche dove vi sono altre tradizioni religiose. Infatti anche in Italia viene praticata illegalmente l'infibulazione, quella pratica barbarica che "Organizzazione Mondiale della Sanità" definisce come: asportazione del clitoride, cucitura della vulva, lasciando aperto solo un foro per la fuoriuscita dell'urina e del sangue mestruale. E questo avviene per circa 2 milioni di bambine nel mondo tra i 4 e i 12 anni. E secondo un allarme lanciato qualche mese fa dal Ministero delle Pari Opportunità, sareb-bero un migliaio ogni anno, le bambine italiane figlie di immigrate che a loro volta hanno subito questa pratica, ad essere sottoposte a queste barbarie.
Magari sono bambine nate in Italia, che crescono all'asilo con i nostri nipoti e che dentro nascondono il dolore di una violenza così profonda.
La vera gravità delle cose è che questi interventi, non essendo ovviamente consentiti nelle strutture autorizzate, avvengono nella clandestinità più totale con le conseguenze che si possono immaginare. Da una semplice infezione a una più grave setticemia, per non parlare poi delle possibili complicazioni nel parto.
Per questo sostengo che dobbiamo intervenire, da cristiani e prima ancora da uomini su tutta quella che io amo definire questione islamica.
Subito e in maniera efficace, usando la stampa come cassa di risonanza e mettendo delle condizioni agli aiuti economici che si danno ai paesi in via di sviluppo. Solo portando scuole, ospedali e un po' di sviluppo economico possiamo fare in modo che le generazioni future prendano le distanze dal fondamentalismo. In tutto questo continueremo questa battaglia sui diritti umani affinché gli italiani si indignino e si arrabbino.
Perché l'Occidente, libero e democratico non ha nessuna voglia di girare la testa dell'altro lato di fronte a queste mostruo -sita degne di un contesto medievale e non certo di un mondo alle porte del terzo millennio pronto ad accettare le sfide della modernità.



Donne immigrate. La storia di Selwa (scappata di casa) e delle sorelle molestate in casa
«La violenza subita? Colpa nostra»
il Sole, 26-11-2010
Karima Moual
Io a casa non ci torno, ma  vi ricordate che cosa ci fa papà?». «Salwa (nome di fantasia, ndr), in fondo ce la siamo un po' cercata anche noi. Non dovevamo stare troppo da sole con lui, non dovevamo girare a casa un po' svestite. Il pigiama lo dobbiamo mettere che ci copre di più. In fondo è anche questo che prevede la nostra cultura e la mamma ci ha sempre educate a coprirci di più. Non lo abbiamo fatto e allora ne abbiamo pagato le conseguenze. Insomma Salwa, dai lo abbiamo provocato noi, ma in fondo è sempre nostro padre, lui ci vuole bene».
E solo uno dei passaggi dello scambio raccapricciante, attraverso la chat di facebook tra Salwa e le sue sorelle. Salwa è una ragazza di origine marocchine che oggi ha 20 anni, ma a sentirla parlare sembra che ne abbia 14. Una bambina mai cresciuta che due settimane fa ha deciso però che era giunta l'ora di crescere e che l'unica soluzione è scappare. Scappare dalla violenza sessuale, fisica e psicologica che ha segnato la sua adolescenza come quella delle sorelle: violenza subita prima dal cugino più grande, poi dal padre. Salwa avrebbe voluto far scappare anche le altre sorelle ma non ce l'ha fatta. Loro pensano che se la sono cercata, non riescono a ribellarsi, sono state educate alla sottomissione all'uomo, al padre. A pensare di essere una proprietà. E sono troppo piccole per vedere che tutta quella violenza non è certo la dimostrazione dell'affetto verso una figlia.
«Quando io e mia sorella siamo andate dalla mamma a denunciare le violenze che subivamo da nostro cugino - racconta Salwa - lo sai cosa ci ha risposto la mamma? "Quante volte?". E poi: "Mi raccomando, non ditelo a nessuno. Deve rimanere un segreto perché ne va dell'onore della nostra famiglia nella nostra comunità"». A cosa servirebbe allora dirle del padre? Anche la madre ormai pensava "da uomo". «Io mi sono ribellata e sono scappata, ma non posso non pensare alle mie sorelle e soprattutto a quella più debole».
Sì, perché quando Salwa parla, il suo pensiero va "a quella più debole" che piuttosto che scappare di casa per fuggire dalla violenza sessuale del padre ha preferito cucirsi: si è infibulata da sola ed è finita al pronto soccorso. E lì, anziché denunciare il padre, lo ha abbracciato. E stata medicata, le hanno dato qualche tranquillante (al suo arrivo in ospedale era stata presa per pazza) e poi via. A casa. «Mi aveva detto - ricorda Salwa -che solo così papà avrebbe smesso. E infatti ha smesso».
Da quando Salwa è scappata di casa, la sorella ha deciso di mettersi il velo. Dice che è una sua scelta, di sentirsi più protetta, può tenere a distanza il padre e tutti quegli uomini a cui potrebbe venire in mente qualche pensiero strano. Può andare all'università e fare anche un po' più tardi, tanto il papà ora si fida di più di lei.
Nella giornata internazionale contro la violenza alle donne, che ha visto il ministro alle Pari opportunità Mara Carfagna e Emma Bonino firmare a palazzo Chigi il Petalo rosa -simbolo della campagna mondiale contro le Mgf (mutilazioni genitali femminili) promossa in Italia da Aidos e Amnesty international - è ancor più doloroso sentire la storia della sorella di Salwa che ha deciso di infibularsi con le sue stesse mani. Una ragazza nata in Italia, appartenente a una seconda generazione di immigrati, che se la incontri per strada pensi che sia solo una ragazza un po' timida.
La violenza alle donne è multiforme ed è onesto ricordare che non ha né colore né religione. Ma il problema è quando la violenza prende la forma della normalità e viene accettata, come regola alla quale è difficile sottrarsi. E questo succede quando c'è una scala che prevede gli uomini (per forza fisica, per cultura o per religione che si voglia) superiori alle donne. Per mettertelo bene in testa si procede con la violenza psicologica fin da piccole, che ti educa a sentirti e ad accettarti come inferiore. Inferiore a tuo padre, tuo fratello, tuo cugino, tuo marito. A sentirti sempre una bambina bisognosa di protezione. Di un uomo, padre, fratello cugino o marito che ti protegga. È a quel punto che diventa più che mai difficile denunciare la violenza e l'ingiustizia che subisci. È quel che non permette ancora oggi a molte donne e ragazze che si trovano a vivere sotto le regole patriarcali - giustificate con "la nostra cultura ci dice" "la nostra religione ci dice" - a ribellarsi. Non ci si meravigli, dunque, quando ci si trova di fronte a una bambina che dice che in fondo quello che le è capitato se lo è meritato 0 quando una madre davanti a un'ingiustizia subita dalla propria figlia cerca di difendere più l'onore della famiglia che la figlia stessa. Donne che parlano con la voce degli uomini.



Alla Santanchè: "Lei che difende le donne, cosa pensa di Ruby?"

la Repubblica, 25-11-2010
Uno scambio di battute sul caso Ruby, sul tema dell'immigrazione e su quello dei rapporti tra donne e l'Islam in Italia fra il sottosegretario Daniela Santanchè e una studentessa dei Giovani democratici, 24 anni, albanese, intervenuta all'incontro sul trattato di Lisbona in università a Firenze.
"Lei da tempo conduce una battaglia sulle donne islamiche e contro il burqa, ma dove era ad agosto quando il premier libico Gheddafi è venuto nel nostro Paese scortato da amazzoni e circondato da hostess, che ne pensa di quelle 500 ragazze italiane con il Corano in mano?", ha chiesto la studentessa alla Santanchè. E subito dopo: "Cosa ne pensa del caso della minorenne Ruby. Mi chiamo Diana Capo, sono una ragazza albanese, vivo e studio in Italia da 18 anni, ho ottenuto la cittadinanza solo un mese fa, questi sono i risultati della legge Bossi-Fini, pensa che questa sia la soluzione ai problemi dell'immigrazione?" Alla ragazza, che è responsabile del settore immigrazione dei Giovani Democratici fiorentini, Santanchè ha così replicato: "Quando arriva un Capo di Stato credo sia necessario avere quel rispetto che a noi a volte manca un pò: io non so se in quell'occasione c'erano saltimbanchi, nani e ballerine, perchè io non c'ero".
Quanto al caso Ruby, il sottosegretario ha reagito chiedendo: "Ma lei sa che, in un dibattito importante come questo sui temi dell'immigrazione farmi una domanda su Ruby mi ha già fatto capire il suo prezzo?". "Questa è la solita strumentalizzazione" ha aggiunto più tardi mentre lasciava la sala: "Ho un impegno" ha precisato e per questo non ha ascoltato nemmeno la replica del senatore Massimo Livi Bacci (Pd) molto critico sulle politiche dell'immigrazione del governo.



QUANDO RUBAVAMO IL LAVORO

l'Unità, 26-11-2010
Carlo Lucarelli
C'è un bel libro di Gerard Noiriel edito da Tropea («Il Massacro degli italiani», sottotitolo: «Aigues-Mortes 1893, quando il lavoro lo rubavamo noi») che parla di un episodio quasi dimenticato, una strage feroce che ebbe come vittime un numero imprecisato di italiani.
Nella Francia di fine ottocento scoppia una rissa tra lavoratori francesi e stagionali italiani nelle saline di Aigues-Mortes. Cattivi rapporti internazionali, nazionalismo esasperato fino al razzismo, condizioni di lavoro degradanti per tutti, ignoranza e violenza fanno scoppiare un vero e proprio pogrom che si traduce in un eccidio e nella caccia all'italiano, visto come il nemico, un essere alieno sporco e criminale, ladro e assassino, da cacciare con la forza. E con l'impunità offerta dalla legge e dalla politica, dal momento che per l'omicidio di almeno otto italiani accertati - ma chissà quanti altri tra i dispersi - non venne condannato nessuno. Gli stranieri così indigesti da poter essere uccisi a badilate e colpi di fucile in quel caso erano operai stagionali emigrati dalle montagne del Piemonte e della Toscana, italiani poveri che andavano a cercare il pane in un altro paese, come tante volte è successo.
È interessante studiare il massacro di Aigues-Mortes. Non è improprio trovarci affinità con altri episodi più recenti, con diverse modalità e diversi attori, come i fatti di Castel Volturno e di Rosarno. Quello che si comprende è che non importa l'etnia o la nazionalità dei protagonisti, e neppure se ci scappa o no il morto: i meccanismi sono sempre gli stessi, allora come adesso. Sfruttamento, degrado, povertà, ignoranza, intolleranza e violenza. Anche quando dall'altra parte, tra quelli che dovevano scappare sulla punta dei forconi, c'eravamo noi, noi italiani.?



IMMIGRATI, PROTESTA SULLA TORRE PROSEGUE NONOSTANTE NEVE

la Repubblica, 26-11-2010
Notte al gelo per i tre operai immigrati che da ventidue giorni protestano sulla torre ex Carlo Erba di via Imbonati. Come riferito dal Comitato Immigrati, i tre irriducibili, un argentino, un egiziano e un marocchino, hanno trascorso le ore più fredde della stagione avvolti nei sacchi a pelo e coperti dai teli sistemati gia' da molti giorni sopra le loro teste. Freddo e neve non li hanno dunque scoraggiati. I loro telefoni sono scarichi, ma non hanno segnalato particolari disagi nella notte a causa del gelo. Il comitato ha nel frattempo incominciato a preparare le pratiche sulla "sanatoria truffa", caso per caso, da consegnare in Prefettura fra una ventina di giorni all'apertura del prossimo tavolo.
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Ospiteremo qui, ogni settimana, casi, vertenze, questioni ancora aperte o che hanno trovato una soluzione. Chiunque volesse porre quesiti su singole situazioni o tematiche generali, relative alle norme e alle politiche in materia di immigrazione, asilo e cittadinanza nonché all'accesso al sistema di welfare locale da parte di stranieri, può farlo scrivendo a: immigrazione@arci.it o telefonando al numero verde 800905570
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