Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

La Primavera araba e noi. Sentieri lunghi, scontri e incontri

 

Peppe Provenzano
Il Sessantotto non fu solo il ‘68, si sa, ma già un po’ il ’67 e il ’69 soprattutto. E se il ’48 fu proprio un Quarantotto, il ’49 non lo sarebbe stato meno. E come poteva allora il 2011 arabo compiersi nell’anno appena scorso? L’esercito siriano spara ancora sulla folla e continuano le violenze nello Yemen, le milizie gheddafiste resistono al governo transitorio della Libia e in Egitto il travagliato processo democratico dei militari, pure in questo tempo di elezioni, si macchia nelle galere o nelle piazze del sangue del popolo – delle donne, specialmente. 
Persino in Tunisia, dove tutto cominciò col rogo umano a Sidi Bouzid in quello scampolo finale del 2010, protagonisti e studiosi meno improvvisati avvertono che se date e anniversari sono simboli importanti e necessari – il 14 gennaio della cacciata del dittatore, a cui già intitolano piazze e che ci s’appresta celebrare – la Primavera non può durare un solo anno, non dura tutto l’anno, in altre stagioni bisogna attendere i frutti, molte volte ancora sarà sfiorito e rifiorito il gelsomino.
 
Sorprendente, l’anno vecchio. Prepotente, la voglia di giustizia e libertà sulla sponda sud del mare nostro, ci colse di sorpresa. Ci mancavano gli “antefatti”, quelli che Francesca M. Corrao – nel lungo capitolo che apre il recente volume da lei curato, Le rivoluzioni arabe. La transizione mediterranea, Mondadori Università – ricostruisce in due secoli di storia politica e processi culturali e sociali. Eminente arabista, andata e venuta dal Nord Africa e dal Medio Oriente, e specialmente dall’Egitto (che molto ritorna nelle pagine del libro), in decenni di studio e passione, offre uno sguardo sui rivolgimenti politici, i mutamenti nelle strutture sociali, i processi (talvolta effimeri) di modernizzazione, oltre il velo di un orientalismo mitico troppo usato o la coltre fumosa con cui recentemente abbiamo avvolto un mondo vario nell’immaginario “popolo islamico”, «dai contorni poco definiti, ma vagamente tendenti al fanatismo». Saltano molti meccanismi di «invenzione dell’altro»: quelli perfezionati nel chiacchiericcio occidentale sulla donna araba, a cui è dedicato un capitolo decisivo, che arriva al ruolo delle donne «con o senza velo» negli eventi rivoluzionari svolgendo il filo di una riflessione complessa sulla condizione femminile; o quelli ridotti alla logica più spietata e disumana che l’Europa per nostra mano ha messo in campo a Lampedusa, tutta un’estate in cui abbiamo volto in inferno la loro primavera. Al di là del crimine, qui peserà l’errore politico d’aver lacerato le «trame mediterranee», una storia lunga di scontro e incontro con «l’altro»: quelle percorse nel libro, quelle che hanno ammantato il “Sogno mediterraneo”, la curiosa intraprendenza e l’intelligente lungimiranza di Ludovico Corrao, tragicamente scomparso nell’agosto siciliano di questo terribile anno vecchio – a cui il libro della figlia è inevitabilmente dedicato.
 
Il pregio migliore dei saggi raccolti – oltre al valore squisitamente “didattico” dell’insieme (utile la lunga cronologia finale che risale al Settecento e ricchi i riferimenti bibliografici) – è di aver mantenuto la promessa introduttiva di sfatare i troppi luoghi comuni. L’approfondimento politico sui tre paesi – Tunisia, Egitto e Siria – che per diverse ragioni svolgono un ruolo cruciale ed egemone nell’area, è preceduto da una messa a fuoco degli elementi «che hanno svolto un ruolo cruciale prima e durante le rivoluzioni»: il processo di emancipazione femminile, la democratizzazione della società civile, i media arabi e i new media. Nella «crescita culturale, tecnologica e demografica» vanno dunque ricercati i fili conduttori alla crescita economica e alla consapevolezza delle disuguaglianze, e finalmente al rivolgimento politico. Il carattere generazionale che ha guidato i movimenti di protesta in tutta l’area, benché non si presti a eccessive semplificazioni, ci dice «cosa si muove in queste società in rapida crescita che, pur sviluppandosi autonomamente, interagiscono con noi»: la «forza demografica che manca alla sponda nord» e che «contribuirà in modo decisivo a delineare il futuro del Mediterraneo».
 
Le parole dei poeti (e letterati, artisti, registi, filosofi, intellettuali), spesso tradotti e frequentati dalla Corrao, impreziosiscono un volume che suggerisce «sentieri nuovi» alla riflessione: il racconto e l’analisi geopolitica, socio-economica e strategica, talvolta rischiano di perdere di vista «l’humanitas e le ragioni profonde» che possono dar conto della «valanga di collera crescente» e «voce ai protagonisti che dietro le quinte hanno promosso il progresso di questi paesi e infine hanno dato anima e corpo alle rivoluzioni».
 
La suggestione di questi due secoli di storia, aneliti di libertà e repressioni politiche o religiose, si faceva immagine per le strade di Tunisi. Un gioco a nascondersi e a specchiarsi con «l’altro», un groviglio di rimandi e coincidenze – le più banali e inquietanti: Primavera araba e crisi dell’Europa, spread in Piazza Affari e sangue a Piazza Tahrir – mi ha condotto per rue de Russie, oltre le balle di filo spinato che circondano l’ambasciata d’Italia, alle porte aperte del palazzo di fronte, sotto l’insegna “Imprimerie Finzi”.
 
«All’inizio del Novecento qui era una palude, mio nonno ci veniva a caccia». Non dice, Elia Finzi, il vecchio patriarca della comunità degli italiani in Tunisia, stampatore da cinque generazioni ed editore (la cui attività ora è proseguita, più industrialmente, dal figlio Claudio), quanto dev’essere costato al nonno Vittorio e al padre Giuseppe lasciare la prima sede della stamperia del 1829, il palazzo Gnecco nel cuore della Medina, per «la città nuova, che gli italiani contribuirono a costruire», per questo edificio che vide la prima linotype del Maghreb e che ora è la sede del Corriere di Tunisi. Il vecchio Elia, ottantasette anni, lo dirige con tenacia e ci accoglie nel suo studio rialzato. «Quel palazzo nella Medina era luogo di esuli politici, mazziniani e liberali, fuggiti dall’Italia prima del 1848». Giulio Finzi fu uno dei primi ad arrivare, carbonaro livornese scappato ai fallimenti dei moti del ‘20 e ‘21. «Vi si costituì la Giovane Italia e ci passò anche Garibaldi, costretto poi a fuggire per aver insidiato tutte le belle signore dell’alta borghesia tunisina».
 
Elia parla con voce roca, fioca, in un bellissimo italiano depurato da ogni inflessione che lo rende un po’ straniero. «La storia della mia famiglia la trova sui libri», taglia corto. Grandi idealisti, laici e democratici, «veri eredi della Rivoluzione francese», animatori della Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, «cittadini del mondo» che hanno attraversato tutte le vicende politiche italiane e tunisine degli ultimi due secoli: il Risorgimento e il regime beylicale, il Fascismo e il protettorato francese, la Repubblica e l’indipendenza tunisina, Bourghiba e Ben Alì, Craxi e Berlusconi. «Non è stato certo facile. Durante la guerra, noi eravamo nemici di tutti». Sulla storia che ripercorriamo, avverte l’uomo cresciuto a pane e tolleranza, non ha non ha giudizi da esprimere, «solo opinioni». Così sulla Primavera, sui Gelsomini: «esattamente un anno fa, in quei giorni, mi trovavo tra la vita e la morte, in un letto d’ospedale». Da lì, dettava editoriali incoraggianti alla Rivoluzione per il suo giornale e diceva al figlio, pur nell’incertezza e crisi di liquidità, di trovare il modo di «continuare a pagare gli operai», gli oltre cento tunisini che lavorano nella loro impresa. «Certo che si può essere imprenditori di sinistra», sorride. Parla di pane e lavoro, pance troppo piene e pance vuote: «non è solo la libertà, è anche la giustizia sociale. Qui era una pentola a pressione. Era evidente che sarebbe esplosa. L’Europa era distratta».
 
È più di un’ora che siamo nella stanza. Alle pareti le sue foto con Pertini e con Napolitano. «E quindi se n’è andato davvero, quello là?», e quasi non ci crede. «Come finirà qui, chi puo’ saperlo? Chi poteva immaginare che dopo il 1789 sarebbe arrivato il terrore…». Non gli manca certo l’entusiasmo, eppure frena i nostri, per prudenza. Sale lenta per le scale, con sobria eleganza d’abito e d’occhiali scuri, la signora Lea. Interviene decisa nella discussione, e ci invita risoluta a non fare troppe domande: «basta andare davanti a una qualsiasi Moschea». È francese, la signora Finzi, e si capisce. Ha origini genovesi, «e chi non ha origini italiane»? Torniamo a parlare d’emigrazione. Allora riprendo le suggestioni, azzardo il parallelismo – quasi personale, stavolta – tra quel suo avo e i compatrioti fuggiti per la lotta nel Risorgimento italiano ed europeo, Primavera dei popoli, accolti in Tunisia dove hanno prosperato, e quei ragazzi tunisini e arabi che, nei giorni della loro Primavera, rinchiudevamo a Lampedusa o a Manduria. «Loro ci hanno aperto le porte. Noi invece le sbarriamo». E com’è che in Tunisia non se ne parla? «Tra la gente del popolo, la tragedia si sente». Mi invita a sporgermi dalla finestra. Di fronte, è l’ambasciata. «Lo vedi il filo spinato? Tutti i giorni venivano le madri a gridare, a chiedere dei loro figli».
 
S’è fatto tardi, ora. Elia forse s’è stancato. «Spiace, alla mia età, non poter seguire la situazione a lungo, in pieno». Nella stanza, è il piccolo Claudio, figlio di Emanuela e di Michele, osservatore internazionale per il processo costituente. Il suo primo anno, appena compiuto, lo ha trascorso in Tunisia. Piange forte e si dimena, non sente ragioni. S’è stancato pure lui. Elia lo guarda, azzurro negli occhi. «Hai ragione tu».
il Riformista 8 gennaio 2012 
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