Morire nel Mediterraneo

 

dal 1 gennaio    2014        2500   

                         2013          1050

                  2012        409

 

                2011     2160

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

20 luglio 2010

Se i soldi per i migranti vengono spesi per rinchiuderli meglio
Stefano Galieni
20 luglio 2010 - Italia-razzismo - l'Unità
Da 15 giorni c’è un fatto nuovo nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria (Roma). Nella sezione maschile non ci sono più ingressi e si nota  una certa frenesia nelle convalide di espulsione. Molti si ritrovano con un foglio che impone di sparire entro 5 giorni. A breve  l’intera sezione maschile verrà chiusa per lavori di ristrutturazione. Quelli che saranno ancora presenti all’atto della chiusura verranno dislocati negli altri Cie italiani, con grave danno per parenti e legali. Chi ha dato questi ordini parla di interventi necessari. Miglioramenti per rendere la privazione della libertà personale meno angosciante? Seri dubbi. Nella giornata in cui ha visitato il centro, la presidente della Regione Lazio Renata Polverini ha dato notizia tanto della realizzazione di un campo di calcetto quanto del rinnovo della convenzione con l’Asl competente per l’assistenza sanitaria. Ma dalle notizie che giungono, con la ristrutturazione si intende rendere il Cie più “sicuro”. Si farà in modo di impedire ai reclusi di salire sui tetti, si renderanno più difficili i tentativi di fuga, si creeranno “spazi tali da garantire l’incolumità degli agenti di sorveglianza”. Messa in questa termini, viene in mente una struttura di massima sicurezza, con le privazioni che ciò comporta. Il tutto accade mentre nei Cie  le proteste sono un fatto quotidiano. L’altro ieri dal centro di via Corelli, a Milano, sono fuggiti tre stranieri, mentre, in quello di Gradisca si è verificato un tentativo fallito. Questo è il bilancio:  7 stranieri denunciati per resistenza, lesioni e danneggiamenti aggravati, 6 agenti  contusi, 2 magrebini ricoverati in ospedale. Questa la normalità dei Cie.



Garantisti o servi

Luigi Manconi
20 luglio 2010  politicamente correttissimo - il Foglio
Faceva una certa impressione, la scorsa settimana, vedere in tv tutti quei dirigentoni del Pdl che, col ditino alzato, affermavano gravemente: “siamo garantisti”. La reazione che veniva spontanea era: fuori i documenti! Ovvero: me lo dimostri. Negli ultimi due decenni, infatti, mai c’è stata una volta – una volta sola – che Maurizio Gasparri e Franco Frattini, Ignazio La Russa e Fabrizio Cicchitto, abbiano detto una parola o fatto un gesto, che si ispirassero davvero ai principi del garantismo giuridico. Mai una volta (verificare per credere). E allora, uno legge l’articolo di Giuliano Ferrara (il Foglio 19 luglio) e si dice: beh, grosso modo lo condivido, fatta la tara di qualche incontinenza verbale e di qualche sproposito storico. Ma poi si chiede: e cosa c’entra tutto ciò con la destra? Ferrara, partendo da un’analisi in molti punti condivisibile, giunge a teorizzare la necessità di “difendere l’indifendibile” (evocando un formidabile testo di Walter Block). Il caso ha voluto che, appena qualche giorno fa, abbia scritto sull’Unità del garantismo come “esercizio estremo” che, dell’attività no-limits, condivide un fondamento essenziale. Quello di essere “fine a se stesso”, in quanto principio assoluto e incomprimibile, non negoziabile e non relativizzabile (chiedo scusa per la cafoneria dell’autocitazione, utile a richiamare un esempio particolarmente istruttivo, che più oltre segnalerò). Dunque, partiamo dalle considerazioni di Ferrara e assumiamole come irriducibile linea di resistenza garantista. Ma, per saggiarne la solidità e la coerenza, sottoponiamola ad alcuni test. 1- Se il garantismo è un assoluto, può essere limitato da confini di classe o di nazione? Ecco un bell’esempio. Secondo il ministro Elio Vito, le condizioni dei profughi eritrei nel carcere libico di Braq (centinaia di persone in due stanzoni sotterranei, violenze, nessuna cura medica) erano la conseguenza di un equivoco (avrebbero scambiato i formulari per l’accesso al lavoro con quelli per il rimpatrio forzato). E in una lettera al Foglio (7 luglio), i ministri Franco Frattini e Roberto Maroni, scrivevano che era in atto “una delicata mediazione sotto la nostra egida”, al fine di “offrire un’occupazione nella stessa Libia” a quei profughi. Nella risposta, Ferrara mostrava di apprezzare quelle parole, ma sottolineava: “il lavoro in Libia, bene, ma anche asilo politico in Italia, se necessario”.
A distanza di oltre dieci giorni, la situazione è la seguente: i profughi sono stati rilasciati a Sebha, nel deserto, a circa mille kilometri da Tripoli, senza documenti, cibo, acqua. Del “diritto d’asilo”, assolutamente nulla. Domanda: ma la tutela dei rifugiati non è parte integrante della concezione liberale e garantista del diritto? Eppure, dai garantisti del Pdl non un fiato.
2- Ammettiamo che si tratti, in questo caso, di un esempio troppo “terzomondialista”: e consideriamone uno dove non sono implicati né “tossici” né “negri”. Quello di Giorgia Ricci, in custodia cautelare dal febbraio scorso e affetta dal 1997 da sclerosi multipla recidivante remittente, assolutamente incompatibile con il carcere. Intorno alla Ricci il silenzio è totale forse a causa della sua patente “impresentabilità sociale”. Di lei si interessa Melania Rizzoli, deputata del Pdl, ma avete sentito anche solo una parola di  perplessità da parte di Gasparri e Frattini, La Russa e Cicchitto? Inevitabile, per quanto banale, il sospetto che il garantismo del centro destra si applichi solo ed esclusivamente a Silvio Berlusconi. E, pertanto, il richiamo ai diritti dell’indagato, quando c’è, sembra rispondere, più che a un principio giuridico, a una vocazione servile. E a un meccanismo di difesa che, serrandosi intorno al Capo, assicuri tutela a quanti, a quel Capo, affidano il proprio destino. Tutto ciò potrebbe non interessare direttamente Ferrara e il Foglio, ma – a ben vedere – in qualche modo li riguarda. Se il garantismo è un esercizio estremo, fine a se stesso e fondato sull’imperativo morale di difendere l’indifendibile, questa terribile responsabilità non può essere ridotta a questione di stile o a opzione politica o, ancora, a vocazione anticonformista. Deve fondarsi sul rigore: non quello moralistico, bensì quello della coerenza possibile tra mezzi e fini. Difendere l’indifendibile va bene (di più: è doveroso), ma non siamo scemi. 
Dunque, la linea di resistenza garantista non può ignorare il fatto che a Berlusconi sia capitato di trovarsi per le mani – oh, sorpresa!- il nastro della telefonata di Piero Fassino, il filmato su Piero Marrazzo, il dossier contro Stefano Caldoro: e non sappiamo cos’altro.
È questo a rendere così malferma l’architrave di tutte le ricostruzioni storiche che, da destra (e anche dal Foglio), vorrebbero far ruotare la questione garantismo/giustizialismo intorno alla costante “persecuzione giudiziaria” contro il Premier. È una lettura di comodo, che finisce con l’alterare i termini del problema: se Berlusconi è vittima del giustizialismo – e, per certi versi, lo è stato – è ancora più vero che, dello stesso giustizialismo, è primo attore  e cultore. 



60 a bordo barca a vela, 2 turchi arrestati nel Salento

20 LUG 2010
(AGI) - Lecce, 20 lug. - Una barca a vela di diciotto metri, con a bordo 60 immigrati di etnia afgana ed iraniana, tutti stipati sottocoperta, e' stata bloccata la scorsa notte dai militari della Sezione Operativa Navale della Guardia di Finanza di Otranto (Le), a poche miglia al largo di Porto Badisco. I finanzieri hanno arrestato i due "scafisti", entrambi di nazionalita' turca, con l'accusa di traffico di esseri umani e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
Tra i passeggeri dell'imbarcazione, anche 14 bambini, alcuni neonati, e 15 giovani donne, quattro delle quali sono state ricoverate d?urgenza. Dai primi accertamenti delle "fiamme gialle", sembra che il viaggio, cominciato in Turchia, sino alla costa pugliese sia durato almeno cinque giorni.(AGI) cli/Tib



Roma: al Gay Village una serata di approfondimento su omosessualità e immigrazione

ImmigrazioneOggi 20 luglio 2010
Omosessuali in fuga dai loro Paesi che arrivano in Italia per chiedere asilo, o semplicemente per vivere senza discriminazioni, e si ritrovano coinvolti in vere e proprie situazioni di emarginazione.
Di questo si discuterà il prossimo 24 luglio a Roma, presso il Gay Village (via delle Tre Fontane angolo via dell’Agricoltura, inizio ore 20.00) nell’incontro organizzato dalla cooperativa sociale Abitus.
Durante la serata verrà presentato il libro Les Condamnés. Dans mon pays, ma sexualité est un crime di Philippe Castetbon, edizioni H&O e si discuterà dell’esperienza di Giorgio D’amico che ha curato il volume Immigrati e omosessualità.
In 78 Paesi, sui 242 nel mondo, l’omosessualità è un crimine. In sette la si punisce con la pena capitale: succede in Mauritania, Sudan, Yemen, Arabia Saudita, in Iran e in alcune regioni di Somalia e Nigeria, dove vige la legge coranica.
Philippe Castetbon, fotografo e giornalista francese, iscrivendosi ai siti web per incontri gay, è riuscito a mettersi in contatto con uomini omosessuali che vivono in Paesi dove l’omosessualità è reato. Ha chiesto loro un autoritratto fotografico e una testimonianza scritta.
Nell’arco di un anno, Castetbon ha contattato oltre seicento uomini. Cinquantuno hanno risposto.
Il risultato, più che uno studio sull’omofobia nel mondo, è una raccolta di storie private di uomini che parlano in prima persona di sé.
Giorgio Dell’Amico si occupa da anni di immigrazione e di asilo per conto dell’Arcigay. E collabora con la cooperativa sociale Abitus, che si occupa di integrazione e dialogo interculturale. Nel corso della serata Philippe Castetbon ci racconterà come è nato il suo lavoro e le storie delle persone contattate.
Seguirà un dibattito insieme a Giorgio Dell’Amico che illustrerà i diritti delle persone omosessuali che scappano dal loro Paese e racconterà la sua esperienza. La serata terminerà con letture di testimonianze tratte dal libro.



“Accanimento senza precedenti contro gli immigrati”

19.07.2010 Affaritaliani.it
Un atto di accusa verso la diffusione di “una cultura xenofoba e razzista che ci sta portando nel baratro dell'esclusione e del rifiuto dell'’altro’ specie del musulmano”. Una deriva sulle cui responsabilità non vengono fatte distinzioni tra le parti politiche che si sono alternate al governo negli ultimi venti anni in Italia. E’ quanto si ritrova, tra l’altro, nelle otto pagine del documento “Non possiamo tacere. I missionari/e e immigrati” , redatto pochi giorni fa dalla Commissione giustizia, pace e integrità del creato della Conferenza degli istituti missionari italiani (Cimi).

Dopo aver presentato il contesto e la legislazione europei in tema di immigrazione, il documento prende in esame la situazione italiana e le leggi che regolano i movimenti migratori nel nostro paese, in particolare in tema di accoglienza e asilo politico. “Noi, missionari, che siamo stati a lungo ospiti dei popoli africani, sud-americani e asiatici, assistiamo ora in patria a un accanimento senza precedenti nei confronti degli immigrati in mezzo a noi. Stiamo assistendo a una massiccia e crescente violazione dei diritti umani nei loro confronti. E questo avviene nell’indifferenza da parte dei cittadini italiani, immemori di quanto i nostri migranti avevano sofferto. Non stiamo forse ripetendo sugli immigrati in mezzo a noi quello che i nostri nonni hanno subito quando anche loro emigravano?”

Durissimi i missionari nella critica alle politiche dell’ultimo ventennio: se la Turco-Napolitano, si legge, è stata la base del Testo unico per l’immigrazione dando inizio ai Centri di permanenza temporanea (Cpt), definiti “veri e propri lager”, la legge Bossi-Fini, ha subordinato il rilascio del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro.  Queste sono le premesse, sottolineano i missionari, che hanno condotto nel 2009 all’approvazione del Pacchetto sicurezza che, con l’introduzione nell’ordinamento italiano dell’aggravante della pena per clandestinità, arriva a criminalizzare un immigrato privo di permesso di soggiorno.

Sotto accusa anche le ordinanze del presidente del consiglio che decretano lo stato di emergenza per le comunità nomadi-rom di Lazio, Campania e Lombardia. “Concordiamo con Famiglia Cristiana quando ha definito il Pacchetto sicurezza ‘la cattiveria trasformata in legge’” si legge nel documento poche righe prima dell’apertura di un paragrafo su ciò che viene definito “il razzismo istituzionale” nelle parole del filosofo Luigi Ferrajoli: “Queste norme e queste pratiche rivelano insomma un vero e proprio razzismo istituzionale (…). Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come “cosa”, come non-persona, il cui solo valore è quello di manodopera a basso prezzo per lavori faticosi o pericolosi o umilianti: tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini”.

Una denuncia aspra che ripercorre gli avvenimenti e i luoghi protagonisti della cronaca degli ultimi anni, dalle violenze nei Cie, allo sfruttamento dei caporali nelle campagne del meridione e nei cantieri edilizi del Nord. Il documento si sofferma poi sui respingimenti attuati dal governo nei confronti di persone che fuggono da situazioni di miseria e oppressione politica e sul mancato rispetto del diritto di asilo sancito nella Costituzione oltre che nei diversi accordi internazionali ratificati dall’Italia.

Il testo non costituisce solo un atto di accusa contro lo sfruttamento dei nuovi poveri. È anche un'assunzione di responsabilità da parte dei missionari, i quali dichiarano apertamente di stare dalla parte degli immigrati (“la nostra è una scelta di campo: la scelta degli ultimi”), ma affermano anche che oggi è insufficiente fermarsi alla denuncia: “Come istituti missionari, inseriti nelle chiese locali, siamo chiamati ad agire mettendo a disposizione personale adatto e il supporto di strutture adeguate per un lavoro con gli immigrati, privilegiando l'impegno congiunto con la commissione "Migrantes" a livello nazionale e locale”.



Torino. Una giornata contro i Cie

19 luglio il pane e le rose
Da sempre nei CIE – ieri CPT - soprusi, pestaggi, cure negate, sedativi nel cibo sono pane quotidiano. Le lotte degli immigrati rinchiusi nei CIE hanno segnato l’ultimo decennio. Una lunga resistenza, spesso disperata, fatta di braccia tagliate, bocche cucite, lamette o pile ingoiate.
Qualcuno ha preferito la morte alla deportazione e l’ha fatta finita. In tanti si sono ribellati, bruciando materassi, distruggendo suppellettili, salendo sul tetto. Un po’ ovunque ci sono stati tentativi di fuga.
Chi arriva in Italia ha negli occhi il deserto, le galere libiche, il mare, i pescherecci che passano senza fermarsi, i militari che vanno a caccia di uomini. Hanno negli occhi il ricordo dei tanti lasciati per strada, morti senza tomba né umana pietà. Pochi di loro fanno “fortuna”: per i più c’è lavoro nero, salari infimi, paura, discriminazione. Chi viene pescato senza carte in regola finisce nei CIE e di lì via, indietro, ancora verso l’inferno.
Finire in un CIE è sin troppo facile.
Raccontano che nei CIE stanno i delinquenti, ma mentono sapendo di mentire. Nei CIE rinchiudono chi ha perso il lavoro e, quindi, anche le carte, oppure chi un lavoro a posto con i libretti non l’ha mai avuto e quindi nemmeno le carte in regola.
Il diritto legale di vivere nel nostro paese è riservato solo a chi ha un contratto di lavoro, a chi accetta di lavorare come qui nessuno più era obbligato a fare. Oggi i migranti, con permesso o in nero, sono i nuovi schiavi di quest’Europa fatta di confini e filo spinato. Gente la cui vita vale poco o nulla.
Dallo scorso agosto, quando entrò in vigore il pacchetto sicurezza, un insieme di provvedimenti disciplinari volti alla repressione dell’immigrazione clandestina e dell’opposizione politica e sociale, le proteste nei CIE, inizialmente a cadenza quotidiana, si sono moltiplicate.
Purtroppo l’impegno degli antirazzisti non è stato sufficiente a rompere il muro del silenzio che circonda quanto avviene in questi lager della democrazia, in queste prigioni per uomini e donne “colpevoli” di essere nati poveri.
Un gruppo di antirazzisti torinesi ha lanciato l’idea di costruire un’iniziativa contro i CIE, che sapesse raccogliere un consenso ampio, portando davanti alle mura del lager di corso Brunelleschi tanta gente che forse non c’era mai stata.
Si è quindi lavorato per dar vita ad giornata in cui, superando le diversità e facendo delle differenze un laboratorio nel quale sperimentare percorsi di lotta comune, fosse possibile che le tante anime dell’opposizione politica e sociale si incontrassero per costruire una grande giornata di lotta.
È nato il comitato “10 luglio Antirazzista” che ha saputo catalizzare centri sociali e case occupate, sindacati di base e organizzazioni di migranti, gruppi politici e associazioni GLBT.
Una scommessa non facile, una scommessa vinta.
Nonostante il caldo infernale circa un migliaio di persone ha dato vita al corteo di sabato 10 luglio. Partito da piazza Sabotino, nel cuore del popolare quartiere S. Paolo, è cresciuto durante il percorso. Numerose le soste per informare, parlare con il quartiere, raccontare le storie dei prigionieri di corso Brunelleschi. In corso Peschiera si è sostato a lungo davanti alla ex clinica S. Paolo, occupata da profughi e rifugiati del corno d’Africa, parte dei quali ancora resistono nell’area detta “casa bianca”. Poi giù per le strade del quartiere, con soste al mercato ed ai principali incroci. Lo striscione di apertura aveva la scritta “Torino è antirazzista”.
La Torino Samba Band ha accompagnato la giornata attirando l’attenzione dei numerosi passanti.
Oltre alle tante facce del movimento antirazzista torinese, c’era tanta, tanta gente venuta a sostenere quanto scritto sull’altro striscione di testa “Chiudere i CIE subito!”. Buona la presenza di immigrati dei collettivi e comitati antirazzisti che hanno contribuito a costruire la giornata.
Il corteo si è concluso davanti al CIE di corso Brunelleschi, dove le camionette di polizia e carabinieri erano attestate lungo il muro del Centro.
L’iniziativa è proseguita per tutta la serata con musica dal vivo, interventi, testimonianze, telefonate con i reclusi del CIE, che hanno ringraziato per la presenza solidale.
Per l’intera giornata radio Blackout ha coperto l’evento trasmettendolo in streaming.
In apertura Marco Rovelli, autore di “Lager Italiani” e di Servi”, prima di proporre alcune canzoni del suo repertorio, è intervenuto sui CIE e sul meccanismo infernale che stritola la vita dei migranti.
Un compagno di Trieste ha raccontato l’esperienza di lotta contro il CIE di Gradisca d’Isonzo, uno di Milano ha fatto un breve excursus delle lotte contro quello di via Corelli ed ha lungamente narrato la lotta dei rom di via Triboniano. Un esponente del Collettivo immigrati autorganizzati ha sostenuto con forza la necessità di dare continuità alla lotta, moltiplicando le iniziative comuni. L’esigenza di far crescere i contatti, mantenendo viva una rete di solidarietà attiva è stata condivisa da tanti e nei prossimi mesi non mancherà certo di dare i suoi frutti.
Poi molti altri hanno raccontato storie, fatto proposte, lanciato saluti solidali ai prigionieri oltre il filo spinato.
La testimonianza registrata di un pestaggio nel centro di via Corelli a Milano ha reso ancor più doloroso l’incombere del muro sorvegliato da uomini in armi.
Gli stessi che pestano gli immigrati nei CIE, gli stessi che, poco dopo la mezzanotte, hanno cominciato a pressare gli antirazzisti, che hanno comunque concluso il programma nonostante l’agitazione crescente tra le forze del disordine statale.
Alcuni hanno gettato oltre il muro messaggi infilati in palline da tennis: un ragazzo marocchino ha scritto un saluto per un amico.
Alcune palline sono tornate indietro con le risposte dei reclusi: un tunisino, Thomas, ha scritto “Grazie, siamo con voi, state sempre dalla nostra parte”.
Un immigrato asmatico ha lanciato la scatola delle medicine che la Croce Rossa gli ha dato per curare la sua malattia: un ottimo farmaco. Peccato che fosse scaduto da oltre due anni!
Il messaggio più breve, che ha trovato eco ai due lati del muro, diceva: “liberté, merci”. Liberté, freedom, al hurria. Libertà.
In uno dei tanti interventi una compagna ha detto “Quel muro, il muro del CIE, è una vergogna. Non per chi vi è rinchiuso, ma per tutti noi.
Dobbiamo porvi fine, tirandolo giù, chiudendo i lager della democrazia.”



Nigeriano arrestato perchè non in regola con i documenti

lugonotizie.it 19 luglio 2010
Nella giornata di ieri una Volante della polizia ha fermato un cittadino straniero privo di documenti di identificazione, che dichiarava di essere di nazionalità nigeriana e di avere 28 anni.
Si è reso necessario accompagnare lo straniero in Questura per procedere alla sua esatta identificazione.
Dai successivi accertamenti fotodattiloscopici è emerso che lo straniero annoverava precedenti per violazione della normativa in materia di immigrazione  e,  con un nome e una data di nascita diversa da quella fornita al momento del controllo, risultava già destinatario di un provvedimento di espulsione adottato dalla Questura di Pesaro nel mese di maggio di quest'anno.
Lo straniero è stato quindi arrestato per inosservanza della normativa in materia di immigrazione e denunciato per aver fornito false generalità agli agenti.
Trattenuto presso le camere di sicurezza della Questura, verrà processato con il rito direttissimo nella mattinata odierna.



Maroni potrà vietare il burqa perchè c'entra poco con l'Islam

il Foglio 20 luglio 2010
Una nuova legge per la proibizione del burqa e del niqab infiammerà in autunno il dibattito politico italiano, come già è avvenuto in Francia e in altri paesi. In Parlamento sono infatti già depositate varie proposte di legge al riguardo, nel segno della consueta contrapposizione: il centrodestra favorevole a una chiara proibizione, il centrosinistra maggioritariamente contrario. Contrarietà prodotta dalla trasposizione sul terreno legislativo della esaltazione del relativismo culturale che induce il Pd a giudicare Fuso di burqa e niqab quale manifestazione di appartenenza religiosa o etnica. Sullo sfondo, opposte strategie non tanto sull'integrazione degli immigrati (il burqa è essenzialmente portato da italiane neoconvertite), ma sul rapporto con l'islam fondamentalista di cui il burqa e il niqab rappresentano una 'bandiera volutamente provocatoria.
La proposta di legge di Souad Sbai e Isabella Bertolini, del Pdl, prospetta dunque la proibizione "degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab".
Al contrario, Salvatore Vassallo del Pd propone di legittimare per legge l'uso anche di burqa e niqab menzionando
espressamente come "giustificato motivo" le "ragioni di natura religiosa o etnico-culturale" per "l'uso di strumenti che coprono il volto". Il tutto, in un contesto in cui nel 2008 il Consiglio di stato ha an¬nullato l'ordinanza del 2004 del sindaco di Azzano Decimo che proibiva il burqa, sostenendo che "non costituisce una maschera ma un tradizionale capo di abbigliamento di alcune popolazioni, tuttora utilizzato anche con aspetti di pratica religiosa, il cui uso costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture". E' interessante il percorso seguito da Roberto Maroni per decidere la posizione del governo quando verrà chiamato a esprimersi in aula sul punto: ha infatti chiesto al Comitato per l'islam da lui voluto (ha un ruolo solo consultivo) di approfondire l'assunto e dopo tre lunghe e complesse riunioni ne ha fatto propria la relazione (non unanime, non è mancato chi si è espresso contro ogni proibizione, o contro l'eliminazione del riferimento specifico a burqa e niqab), comunicata formalmente alla Camera, che verte su un punto centrale: "Portare il burqa o il niqab non è un obbligo religioso, né tale obbligo può trovare fondamento nella lettura del testo sacro dell'islam. Si può affermare che niqab e burqa rinviano a pratiche che non hanno un'origine coranica: indumenti simili sono attestati in diverse zone in epoca romana, bizantina, persiana mentre in ambito islamico appaiono talora solo recentemente. Il burqa afghano è stato adottato gradualmente dalla monarchia afghana solo nel XX secolo, e la limitata diffusione di forme di velo integrale nel Maghreb è di origine ancora più recente, corrispondendo spesso a una specifica rivendicazione identitaria e politica da parte di movimenti fondamentalisti. Forme di velo integrale sono state, in zone geografiche contigue, storicamente adottate da popolazioni non musulmane e nello stesso tempo non adottate da popolazioni musulmane".
Detto questo, il Comitato ha però fatto proprie le preoccupazioni di chi teme che questa legge suoni come segnale di contrapposizione religiosa e ha suggerito che "parlare di 'religione islamica' nel testo della legge potrebbe rischiare di alimentare le polemiche, o d'innescarne di nuove; raccomandiamo quindi di omettere dai testi dì legge ogni riferimento alla religione o all'islam, limitandosi alla formulazione secondo cui nel divieto devono intendersi compresi "gli indumenti denominati burqa e niqab".




L'incubo del burqa. E intanto vengono chiuse le moschee

Khalid Chaouki
15/07/2010 www.minareti.it
L'incubo del burqa. E intanto vengono chiuse le moschee
Una nuova riunione del Comitato per l'Islam italiano per parlare di burqa e niqab quando le donne che portano il velo integrale in Italia sono un numero esiguo e una legge già c'è. A quando la discussione su realtà più pressanti per la comunità musulmana?
Burqa sì, burqa no. Non è il titolo di una nuova canzone, ma un mantra ossessivo a cui si è affezionato qualche onorevole, che improvvisamente scopre che le città italiane sono invase da donne avvolte nei loro teli azzurri, i loro sguardi limitati dalla tradizionale retina blu. Uno scenario che, nella lontana Kabul, sembra scomparire tra le più giovani a detta di chi frequenta quoi luoghi, mentre secondo i propositori della Proposta di Legge in Parlamento è un caso di emergenza nazionale che merita urgentemente un provvedimento.
Non so voi, ma io di donne in giro col burqa non ne ho mai viste in Italia. Ma nonostante questo il problema sembra così urgente da meritarsi una riunione intera al Comitato per l'Islam italiano. E così assistiamo increduli al capolgimento di priorità del neonato Comitato di Maroni per l'aiuto ai musulmani d'Italia. Mentre le cosiddette moschee vengono deliberatamente chiuse dalle amministrazioni leghiste del Nord, in barba all'articolo 8 sul diritto di culto, al Viminale il massimo organismo dedito a studiare le soluzioni per sostenere i processi di integrazione dei musulmani d'Italia, si cimenta anch'esso sul "fenomeno Burqa".
Poniamo anche il caso che ci siano effettivamente numeri allarmanti di donne che girano per le città con il volto coperto, come per qualsiasi altra contravvenzione alla Legge, il compito di far rispettare la Legge spetta alle forze dell'ordine e all'autorità giudiziaria. Perchè invece c'è qualcuno che sembra far di tutto per rimettere sempre in cima alle emergenze del Paese la questione islamica? Una volta sono gli imam fai da te. Poi le moschee fabbriche di kamikaze. Le donne che subiscono violenza in casa perchè musulmane. E via di questo passo. Dimenticandosi o facendo finta di dimenticare che la violenza sulle donne non ha religione e i dati anche in Italia ce lo dicono chiaramente.
Ma allora perchè questa ostinazione ad associare la religione islamica alle peggior cose di questa umanità? A parlare di musulmani sempre e comunque in negativo? Mentre si trascura l'enorme contributo che i nuovi e i vecchi cittadini d'Italia di fede musulmana contribuiscono come tanti altri alla crescita di questo Paese. In pace e semmai subendo tante ingiustizie come l'assenza di una legge sulla libertà religiosa, negazione del diritto elementare di culto, assenza di una vera alternativa all'ora di religione cattolica nelle scuole pubbliche, negazione di spazi cimiteriali in alcuni comuni e via dicendo.
Forse anche di questo prima o poi parleranno nel Comitato per l'Islam italiano e i parlamentari con a cuore le questioni dei musulmani d'Italia. Ma è un auspicio che nelle condizioni date temiamo rimarrà appunto solo un auspicio.
E qui la responsabilità maggiore cade anche sui musulmani che oggi hanno l'onore e l'onere di far parte di quel Comitato. Il nostro è anche un appello al loro buon senso e al dovere di testimonianza che ciascun buon musulmano e buon cittadino ha il dovere di compiere. Naturalmente rimane lecito e giusto parlare dei mali che affliggono la comunità islamica italiana, ma quando questo diventa oggetto di brutale speculazione mediatico-politica è inaccettabile. Sarebbe anche ora di guadagnarsi qualche titolo di giornale dicendo finalmente una semplice verità sul caso burqa e dintorni.
Con umiltà possiamo permetterci di suggerire qualche indicazione di massima ai nuovi esperti dell'islam italiano, che prima di proporre nuove leggi, ci dicano se una di queste affermazioni è falsa: il burqa (afghano) in Italia non esiste, eppure si cita nella proposta di legge. Il niqab (velo integrale) riguarda pochissime donne e tocca solo ai poliziotti o chi per loro far applicare la legge che già esiste. La stragrande maggioranza delle donne porta il hijab, velo che copre solo i capelli. In attesa di risposte, salaam aleikum!


«Ma le donne afghane devono contare di più»

Liberazione 20 luglio 2010
Huria Samira Hamidi
«La Conferenza deve affrontare il nodo dei diritti femminili. Siamo ancora escluse della politica. E temiamo un accordo del governo con i talebani»
Kabul
Due giorni prima della conferenza di Kabul, le donne afgane hanno organizzato una conferenza alternativa. E' stata la loro occasione di sentirsi protagoniste, dato che, al grande evento internazionale di oggi, tanto per cambiare, la loro presenza sarà marginale. «Lo scopo di questo incontro», recita il comunicato finale letto da una delle delegate riunite domenica scorsa al Serena Hotel, al centro di Kabul, «è far sentire una voce collettiva delle donne afghane di tutte le province, escluse dalla grande conferenza di Kabul del 20 luglio». Rispetto alla conferenza del gennaio scorso a Londra, l'appuntamento di oggi a Kabul segna un passo avanti, almeno sotto l'aspetto formale. Allora, a parte parole di elogio per l'universo femminile del paese di cui tutto il mondo discuteva riunito nella capitale britannica, pronunciate da Hillary Clinton, le dirette interessate restarono convitate di pietra.
Oggi nella sala delle grandi delegazioni siederà anche Palawa Hassan, fondatrice dell'Afghan Women's Network, come rappresentante della società civile afghana. I burqua in cui le afghane erano state rinchiuse dai talebani furono la bandiera dell'intervento di liberazione straniero del 200.
All'incontro al femminile che ha preceduto la conferenza di oggi, molte delegate, arrivate da Kandahar a sud, come da Takhar al nord,hanno preso la parola proprio per lamentarsi della scarsa considerazione riservata alle donne, nell'or-ganizzazione di una conferenza tanto importante da portare in Afghanistan i capi delle diplomazie dei più importanti paesi. Una delle figure principali del coordinamento nazionale delle donne afghane è Huria Samira Hamidi.
Giovane, rubiconda, velo a fiori dai colori pastello della stessa fantasia del camicione calato su pantaloni da cui spuntano sandali argentati che mettono in mostra le unghie laccate di rosso rubino, come quelle delle mani, Samira, dirige l'Afghan Women's network, il gruppo cui appartiene la delegata ammessa oggi a parlare dalla stesso pulpito di Hillary Clinton. Le abbiamo chiesto cosa si aspetta dall'evento di oggi.
«Ci aspettiamo che la conferenza di Kabul implementi gli impegni presi in altre occasioni sulla carta in quanto ai diritti delle donne. Si dovrebbe discutere del piano d'azione nazionale per le donne (National action pian for woman of Aghanistan) che è un preciso impegno del ministero per gli affari femminili. E' essenziale che le donne siano rap-presentate negli organi decisionali. Consideriamo essenziale la loro rappresentanza politica».
Le donne afghane hanno paura della possibilità di accordìi parte dell'insurrezione talebana in vista una pacificazione nazionale?
«Si, se non si tengono fermi almeno tre punti: Primo, che i diritti umani delle donne non siano negoziabili, secondo, che le donne siano coinvolte in ogni processo decisionale legato al processo di pace, terzo che i progressi realizzati negli ultimi otto anni rispetto alla condizione in cui versavano le donne afghane nel periodo precedente non siano messi in discussione».
In questo senso la presenza delle truppe straniere vi rassicura?
Non è una questione di sentirsi rassicurate da truppe straniere. Infatti su questo punto le opinioni nel paese sono molto contrastanti, ci sono molte donne che dicono che le truppe Nato se ne devono andare. A mio avviso al momento la questione sicurezza va vista dal punto di vista tecnico».
In che senso?
«Al punto in cui siamo ora credo che un ritiro rapido delle forze internazionali possa essere rischioso. L'Afghanistan ancora non è pronto a gestire la sicurezza con le sole proprie forze. Il rischio del proseguimento del conflitto interno esiste. Le forze afgane non sono ben addestrate. Come possono garantire la sicurezza di un intero paese quando non ne sono capaci in pochi distretti?
In ogni caso qui non si sa ancora che succede da domani. E i talebani hanno detto no all'ipotesi di accordo se restano in Afghanistan soldati stranieri. Ma questa è una sfida. In ogni caso un processo di riconciliazione serio non può prescindere dai diritti delle donne».


Air Terminal Ostiense, sgomberati i rifugiati

il Messaggero 20 luglio 2010
Elena Panarella
C'è chi gioca a cricket per l'ultima volta. Chi si fa la barba in un bagno improvvisato. Chi si prepara la valigia. Chi prepara un te. Così gli afghani dell'Air Terminal dell'Ostiense si sono organizzati per il loro nuovo viaggio. Gli immigrati infatti. che hanno richiesto asilo politico sono saliti sugli autobus diretti a due case di accoglienza della Capitale, la Casa della Pace e il Centro Forlanini. Tra loro, ad assistere al viaggio di circa 120 afghani, l'assessore alle Politiche sociali del Comune, Sveva Belviso e il presidente dell'XI Municipio, Andrea Catarci. Per qualche giorno si terrà aperto il censimento fino ad arrivare a 150, il numero massimo che aveva registrato il campo in uno dei controlli. Tra di loro ci sono anche molti minori, difficile stabilire l'età con esattezza. Sono giova¬nissimi. alle spalle un passato troppo buio per pensare di poterlo un giorno dimenticare. Arrivano dall'Afghanistan dopo viaggi lunghissimi e quasi fuori del tempo. «Noi siamo vecchi, ma almeno voi vi dovete salvare», le parole dei genitori che si lasciano alle spalle. Quando alla fine sono qui, a Roma, non resta quasi niente dei bambini in fuga dai talebani. Hanno occhi, ricordi, vite da adulti. Eppure una strana dolcezza, ancora li contraddistingue. Molti però non vogliono rimanere nel nostro Paese, la grande maggioranza è di passaggio. Le loro mete? Germania, Svizzera, Francia comunque sempre l'Europa.
«Roma non riesce ad accogliere in modo strutturale i richiedenti asilo-spiega la Belviso durante il trasferimento degli afghani - Fino ad ora,
senza averne competenze dirette, ne accoglie circa il 50 per cento del totale nazionale. Ora fronteggiamo l'emergenza, Io faremo nel periodo estivo e fino al 30 settembre. Speriamo in un tavolo con la Regione e la Provincia sulle persone soggette a protezione umanitaria. Tamponiamo lo stato di bisogno ma questa non è la risoluzione. Facciamo un appello al governo: da soli non ce la possiamo fare. Abbiamo bisogno di una legge sull'asilo politico. Chiediamo anche finanzia-menti diretti e adeguati».
Per il presidente del Municipio, Catarci «da anni il Municipio e le associazioni locali, lavorando per ridurne le soffe¬renze, denunciano l'irreale ed inumana situazione in cui sono costretti a vivere i profughi afgani all'Air Terminal. Dopo la manifestazione dello scorso 14 luglio, con l'occupazione dell'assessorato comunale alle Politiche Sociali, la giunta    Alemanno ha finalmente trova¬to una provvisoria sistemazione, per le 150 persone attualmente presenti nell'aerea». «Ora gli afgani censiti dall'XI Municipio - continua Catarci - avranno almeno un letto in cui dormire e dove potranno proteggersi dal caldo torrido. Rimane l'incognita sul futuro, in quanto non si individua una idonea soluzione alloggiati va d'intervento si concluderà già a settembre. All'Ostiense, poi, torneranno presto altri profughi e altri richiedenti asilo che lì hanno ormai il proprio approdo naturale. Per questo occorre istituire immediatamente un presidio permanente   di   prima  assistenza, orientamento e accoglienza, da affidare a quelle associazioni e a quelle realtà di movimento che da sempre sono impegnate volontariamente nella zona  intorno   alla  stazione Ostiense».



Parete, torna anche quest'anno il «Villaggio della Solidarietà»
19 luglio 2010 Corriere della Sera
CASERTA - «La cosa più importante dell’esperienza del Villaggio della Solidarietà dello scorso anno – ha affermato Nasser Ben Hidouri durante la conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa – è l’essere riusciti a creare un rapporto di solidarietà tra gli abitanti di Parete e gli immigrati che nei periodi della raccolta popolano il paese e il circondario». Intervenuto durante l’incontro di presentazione dell'iniziativa nell’aula consiliare del comune casertano, l’imam di San Marcellino ha sottolineato l’importanza di iniziative socio culturali come quella promossa per il secondo anno da Arci Caserta, Nero e non solo!, l’Associazione Socio-culturale Islamica di San Marcellino, e patrocinata dal comune di Parete. L’imam ha così ricalcato quanto affermato nella stessa occasione dal vicesindaco della cittadina, Daria Iavarone, che ha annunciato parte dei risultati conseguiti dalla prima edizione del Villaggio della Solidarietà.

«Molti degli irregolari che lo scorso anno hanno usufruito dei servizi che abbiamo messo a loro disposizione, sono tornati quest’anno avendo però regolarizzato la loro posizione». Testimonianza, quella del vicesindaco, che conferma l’importanza del fornire gli strumenti fondamentali per l’integrazione degli stagionali che affollano le città dell’agro aversano nella stagione della raccolta. Rincara la dose Daria Iavarone, raccontando di «immigrati che ci hanno denunciato persone che hanno chiesto dieci euro per cambiare le medicazioni presso il pronto soccorso di Aversa e che una volta rivoltisi a noi hanno potuto usufruire dei servizi gratuiti garantiti del sistema sanitario». Importante l’intervento di Giampiero Autiero, medico responsabile del campo di Parete che ha riportato dati relativi al monitoraggio sanitario degli immigrati che hanno partecipato alle attività del Villaggio della Solidarietà 2009. «A seguito dello screening effettuato per le donazioni del sangue abbiamo rilevato, con nostra grande sorpresa, che nessuna di queste persone era affetta da malattie infettive. Sorpresa che nasce dalle precarie condizioni sanitarie che caratterizzano le baraccopoli che nascono con l’arrivo degli stagionali». Risultato importante infatti è provenuto anche dallo screening, dopo il quale le sacche di sangue raccolte dall’Avis della zona hanno fatto registrare quasi il 10% di incremento».



Immigrati, cala l’attenzione dei media
Redattore Sociale 20 luglio 2010
Indagine dell'Osservatorio Carta di Roma sulle prime pagine di 6 testate nazionali. Avvenire primo per attenzione alla sicurezza, il Corriere per numero di notizie. La parola “clandestino” lascia il posto al termine “immigrato”
ROMA – E’  Avvenire seguito da Il Corriere della Sera a dare il maggior spazio alla sicurezza, mentre Libero e il Giornale sono le testate che meno danno risalto agli episodi di cronaca nera con protagonisti stranieri. In realtà, secondo i curatori dell'indagine realizzata dall'Osservatorio Carta di Roma e presentata oggi a Roma, rispetto all'ultimo monitoraggio del 2008 c’è un complessivo calo di attenzione sul tema. La ricerca dell'Ossrvatorio, nato per monitorare l'informazione italiana in materia di immigrazione e di asilo, ha preso in considerazione tutte le prime pagine edite dal 1 gennaio al 30 aprile 2010 su sei testate nazionali (La Repubblica, Il Corriere della Sera, Il Giornale, La Stampa, Avvenire e Libero) con l’obiettivo di monitorare la qualità dell’informazione, con una particolare attenzione al “caso” Rosarno. In totale sono 728 le prime pagine osservate, ma solo la metà (364) utili all’analisi, considerando l’interesse specifico per i temi della sicurezza e dell’immigrazione e le notizie di italiani o stranieri come protagonisti di episodi di “nera”. La maggior parte delle notizie riguarda commenti e reazioni (133), ma attenzione è dedicata a crimini e reati (121), iter giudiziario, incidenti, suicidi, malori, storie ed inchieste. Resta ultimo il tema degli sbarchi e respingimenti, solo 7 notizie nel periodo considerato (l’1%).

I media più attenti. Sono Avvenire, La Stampa e Il Corriere della Sera a far registrare percentuali simili e più alte della media. Avvenire dedica il 2,5% delle notizie agli sbarchi (argomento che rimane comunque residuale) ed è molto attento anche a commenti e inchieste (26,7%). Quasi il 30% delle notizia de Il Corriere della Sera sono dedicate al dibattito pubblico e alle politiche di governo in materia, e quasi il 27% a reati e crimini. Libero e il Giornale su tutti danno meno risalto agli episodi di cronaca nera con protagonisti stranieri, complessivamente poco meno della metà degli episodi che coinvolgono gli italiani. E, più in particolare, Libero “spicca” per la scarsa attenzione ai crimini (5,5%), all’iter giudiziario (7%) e ai pezzi di inchiesta ed approfondimento (1,6).

Cambia il linguaggio. La parola “clandestino” lascia il posto al termine “immigrato” e scende all’undicesimo posto nella classifica dei 102 lemmi più usati in cronaca con “una decisa sterzata linguistica”. E’ anche il caso Rosarno a modificare il linguaggio giornalistico. “In un periodo segnato da una serie di scandali politico giudiziari e da due gravi atti di intimidazione da parte della ‘ndrangheta a Reggio Calabria, - sottolineano gli osservatori - l’enfasi sull’immigrato che delinque (perlomeno nelle “prime ”) sembra così ridimensionarsi, riassorbita dal caso Rosarno e dall’emergenza criminale che, come attesta anche  l ’analisi delle parole più usate nei titoli, ha inciso in modo significativo sulle  agende dei quotidiani”.


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