Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

01 giugno 2010

Cassazione: vietato rimpatrio dove c'è tortura
Avvenire, 01-06-2010
MILANO. La Cassazione vieta il rimpatrio dei tunisini irregolari che hanno commesso in Italia reati per i quali è prevista l'espulsione. Compresi i crimini legati al terrorismo. Motivo? La Tunisia, secondo la Suprema Corte, pratica la tortura, come emerge da rapporti «di affidabili organizzazioni internazionali come Amnesty International e Human right watch, corroborati da relazioni del Dipartimento di Stato americano». Perciò il nostro governo e tutte le istituzioni della Repubblica, compresi i magistrati di sorveglianza, non possono ordinare il rimpatrio di immigrati tunisini. Lo sottolinea la Cassazione con la sentenza 205 14, ricordando che l'ordine di non rimpatriare gli immigrati verso la Tunisia è una «inibizione obbligatoria» diretta al governo italiano ed emanata dalla Corte europea dei Diritti dell'Uomo, che l'ha comunicata alla rappresentanza permanente d'Italia presso il Consiglio d'Europa attraverso una nota trasmessa lo scorso 15 aprile. Così la Suprema corte ha rifiutato l'espulsione in Tunisia accogliendo il ricorso di quattro immigrati condannati dalla Corte d'assise d'appello di Milano il 10 novembre 2008 per terrorismo e appartenenza a una cellula del gruppo salafita. La sentenza prevedeva l'espulsione una volta espiata la pena. Il divieto resta valido finché non interverranno
nuovi fatti a dimostrare che il governo di Tunisi non pratica la tortura. La misura dell'espulsione, secondo i Supremi giudici, potrà
eventualmente essere sostituita «con altra misura di sicurezza». I magistrati della Cassazione hanno invece confermato le pene detentive per i ricorrenti. Nessuno dei condannati potrà comunque essere espulso, perché in Tunisia viene praticata la tortura «spesso durante il fermo e allo scopo di estorcere confessioni» con pratiche che «senza alcun dubbio raggiungono la soglia di gravità richiesta dall'articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo» che ne vieta l'uso.



Risponde Sergio Romano
DUE SISTEMI A CONFRONTO

Corriere della Sera, 01-06-2010
Mi riferisco al parallelo che si fa nei nostri media fra l'emigrazione italiana in Europa e altrove dopo la Seconda guerra mondiale e l'attuale immigrazione straniera in Italia. C'è un elemento di differenza importante. L'emigrazione italiana dagli anni Sessanta in poi non fu abbandonata a se stessa. In Germania si costituì una rete consolare di 12 uffici con assistenti sociali, cui si affiancavano missioni cattoliche, patronati sindacali e altri enti assistenziali. L'operazione fu condotta gradualmente e alla fine con successo, come posso testimoniare personalmente, data anche la spinta della nostra opinione pubblica. Nulla di simile è accaduto per le collettività straniere esistenti in Italia, non risulta che i governi dei Paesi degli immigrati assistano i propri connazionali anche quando si tratta di collettività numerose dalle quali provengono rimesse consistenti ai rispettivi Paesi
d'origine. Noi come al solito ci autoflagelliamo per le carenze assistenziali verso il lavoratori stranieri e le loro .famiglie, ma c'è da chiedere se i governi dei Paesi d'origine non debbano esser stimolati a seguire l'esempio che noi percorremmo qualche decennio fa.
Alessandro Gratini Segretario generale dell'Iniziatìva adriatico ionica
Caro Grafini,
E' certamente vero che i governi mediterranei, da cui proviene buona parte dell'immigrazione italiana, prestano ai loro connazionali, con qualche eccezione, un'assistenza insufficiente. Ma il confronto deve tenere conto di alcune importanti differenze. In primo luogo la rete italiana di assistenza a cui lei fa riferimento fu il risultato di un dibattito sull'emigrazione che accusava i governi nazionali di avere trattato il fenomeno, sino a quel momento, con una colpevole indifferenza. Fu un dibattito animato soprattutto dai partiti di sinistra, dalla sinistra cattolica, dai sindacati ed ebbe evidenti risvolti politici. Le comunità italiane in Europa, e in particolare quella della Repubblica federale, erano diventate utili serbatoi di voti e di consenso. Per molti versi la politica dell'emigrazione che l'Italia praticò fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta fu la versione democratica di quella che era stata adottata dal fascismo quando Mussolini aveva creduto di potere utilizzare le comunità italiane nel mondo per promuovere le ambizioni nazionaliste del regime.
Il secondo fattore di cui occorre tenere conto è il numero dei consolati italiani. Dopo la caduta del fascismo, il ministero degli Esteri ereditò una rete straordinariamente capillare, creata per assistere l'emigrazione italiana delle generazioni precedenti e, in Germania, per i lavoratori (parecchie centinaia di migliaia) reclutati dall'Organizzazione Todt e impiegati nell'economia tedesca durante la guerra. Nessun Paese della costa meridionale del Mediterraneo ha strutture consolari altrettanto importanti.
Il terzo fattore, caro Grafini, è rappresentato dalle condizioni economiche dell'Italia nel periodo a cui lei ha fatto riferimento. Avevamo ricostruito il Paese grazie agli aiuti del Piano Marshall e alle nostre energie. Avevamo registrato tassi di crescita che fecero parlare di un «miracolo italiano». Eravamo partner di una comunità economica che avrebbe favorito, tra l'altro, lo sviluppo delle nostre esportazioni. E stavamo diventando una delle maggiori economie occidentali. Era inevitabile che a questi progressi corrispondesse anche un aumento delle aspettative civili e delle sensibilità sodati del Paese. Nei Paesi mediterranei dei nostri immigrati le cose, malauguratamente, sono andate in modo alquanto diverso. È difficile immaginare, quindi, che questi Paesi siano in grado di imitarci.



Il piano Sarà nominata dal prefetto Pecoraro
Villaggi nomadi, otto offerte ma manca la commissione

Dnews,Ed. Roma, 01-06-2010
» È scaduto ieri ravviso pubblico della prefettura per le aree da destinare alla costruzione dei 'Villaggi della solidarietà", dove andranno a risiedere i circa seimila nomadi sgomberati dai campi abusivi della Capitale. Otto -secondo quanto si è appreso -le offerte contenute nelle buste indirizzate agli uffici della prefettura che saranno aperte all'atto dell'Insediamento ufficiale della commissione nominata da Giuseppe Pecoraro, prefetto e commissario straordinario per l'emergenza nomadi. La commissione, che - rende noto la prefettura - opererà secondo le norme contenute nel codice per l'assegnazione dei lavori pubblici, sarà formata, secondo indiscrezioni, da cinque componenti dell'amministrazione pubblica che stabiliranno i criteri per la valutazione delle offerte e la scelta delle aree, «



Con il burqa o nude Non è libera scelta

Corriere della Sera, 01-06-2010
Dacia Maraini
Una immagine che viene dalla Giordania: donne coperte di lunghe vesti e veli neri che incorniciano le facce pallide. Protestano brandendo cartelli che dicono no alla nuova proposta di legge governativa. Tante donne, tanti corpi infagottati. Tanta furia in quel poco che si vede delle loro bocche aperte all'urlo di disapprovazione. Ma cosa propone la nuova legge? Proibire il matrimonio delle bambine con uomini anziani. Una legge umana, di semplice buon senso, che vorrebbe proteggere l'infanzia rubata, vorrebbe preservare le adolescenti da matrimoni devastanti e infelici, vorrebbe difendere le bambine dallo stupro consacrato. Ma per queste donne velate non va bene. Esse sono, per «libera scelta», contrarie alla legge. E a chi chiede stupito la ragione, rispondono che è l'amore di Dio che le spinge: obbediscono alla legge religiosa e difendono le tradizioni.
Un'altra immagine, un'altra storia. Una donna col burqa viene portata in questura poiché una legge vieta di nascondere del tutto il viso per strada. La donna viene interrogata: chi le impo¬ne il velo totale? Nessuno, dichiara lei, sono io che scelgo. Ma poco dopo in questura arriva il marito a protestare: «Mia moglie è libera di portare il burqa, non c'è una legge che lo vieti, d'altronde è lei che lo pretende nessuno la costringe». La polizia insiste che una persona deve essere identificabile. Allora l'uomo ribatte, indignato: «Se voi proibite a mia moglie di esprimere la sua libera volontà, io da domani non la farò più uscire di casa».
Perché ho rammentato questi due casi di cronaca recente? Per spìnta a esibirsi chiedermi e chiedere a chi crede - ? " nelle dichiarazioni di volontà: fino a che punto queste donne esprimono la loro «libera scelta»? Quale libertà manifestano nel costringere le loro figlie a sposare, appena puberi, un anziano che neanche conoscono? Fino a che punto sono consapevoli di andare contro i propri interessi? E l'uomo che dichiara con baldanza la libera scelta di sua moglie per poi, con comica contraddizione, asserire che non la farà più uscire di casa, in che considerazione tiene il volere della moglie?
Questo per dire che la parola libertà ha tante facce e non tutte chiare e interpretabili. A volte fa comodo attribuire a libera scelta ciò che è il risultato di un lungo condizionamento, di una ignoranza totale dei diritti civili. Spesso le scelte cosiddette autonome sono ottenute con una cultura del dominio e della manipolazione, con il ricatto morale e l'abitudine alla soggezione.
Mi chiedo se una cosa simile non stia accadendo anche nella società italiana che si pretende emancipata, liberissima e moderna. La continua esibizione del corpo femminile per ragioni di mercato, si dichiara, è una libera scelta delle donne. Ma si può considerare sincera preferenza? 0 non si tratta piuttosto di un sottomettersi, a volte anche stupido e vile, al ricatto diffuso: o mostri ii tuo corpo in modo allusivo e volgarmente seduttìvo, o non lavori? La spinta a esibire continuamente e banalmente la carne nuda, non assomiglia in senso contrario alla ossessiva cancellazione del corpo femminile?



ASSEGNO DI INVALIDITA' PER GLI STRANIERI: SI PUO' ANCHE SENZA CARTA DI SOGGIORNO

l'Unità, 01-06- 2010
La Corte Costituzionale con sentenza n. 187/2010 del 26 maggio, ha dichiarato l'illegittimità' costituzionale dell'art. 80, comma19, L. 388/2000, nella parte in cui richiede il possesso della Carta di soggiorno ai fini della concessione agli stranieri, legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato, dell'assegno mensile di invalidità.
Per ottenere la Carta di soggiorno sono necessari un reddito minimo e la presenza legale in Italia da almeno 5 anni. Di recente, la Corte Costituzionale aveva dichiarato illegittima ed illogica la disponibilità di un reddito per l'erogazione di misure mirate a supplire all'incapacità della persona di produrre reddito. Rimaneva, però, il requisito di soggiorno quinquennale.
Ora la Corte dichiara illegittimo (in materia di previdenza destinata a garantire il sostentamento minimo della persona), qualsiasi discrimine tra cittadini italiani e stranieri regolarmente soggiornanti, in linea con il principio sancito dall'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo per cui “Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l'origine nazionale o sociale, l'appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita o ogni altra condizione”.
La sentenza infligge un duro colpo alla norma del 2000, secondo la quale il possesso della Carta di soggiorno era criterio di esclusione dal diritto alle misure di assistenza sociale di numerosi cittadini. Ogni tanto una bella notizia.



Torino: si concluderà oggi il workshop “Migrazioni internazionali e lavoro: prospettiva dopo la crisi in un confronto tra buone pratiche” organizzato dall’ILO
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ImmigrazioneOggi, 01-06-2010
Gli indirizzi Onu: favorire l’integrazione di chi già si trova lontano dal proprio Paese d’origine, incentivare l’immigrazione temporanea incrementando le protezioni sociali e puntare su un’immigrazione più qualificata.
Si è aperto ieri a Torino il workshop Migrazioni internazionali e lavoro: prospettiva dopo la crisi in un confronto tra buone pratiche organizzato dall’ILO (International Labour Office) in collaborazione con Fieri (Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione) su iniziativa e con il sostegno dei Governi brasiliano e italiano.
Ripensare le politiche migratorie, favorendo l’immigrazione temporanea corredata da maggiori protezioni sociali. La sollecitazione ad un nuovo approccio all’immigrazione straniera, che punti a mettere insieme domanda e offerta, evitando così il rischio che continui a crescere il numero di coloro che lasciano definitivamente il loro Paese di origine in cerca di lavoro.
Sono questi i temi emersi durante la prima giornata del meeting che si concluderà oggi. In particolare, sottolineando che per effetto della crisi economica tutti i Paesi europei stanno diventando più selettivi in tema di immigrazione con la conseguenza che anche tra stranieri è cresciuta la disoccupazione e la marginalità, Alessandra Venturini, docente universitaria?dell’ateneo torinese e consulente ILO, ha evidenziato i tre pilastri su cui dovrebbero poggiare le politiche migratorie: favorire l’integrazione di chi già si trova lontano dal proprio Paese d’origine e vi resterà anche in futuro, incentivare l’immigrazione temporanea incrementando le protezioni sociali e puntare su un’immigrazione più qualificata, in grado di rispondere meglio alle esigenze del mercato.
All’incontro partecipano membri di organizzazioni imprenditoriali e sindacali, Ong e centri studi. Sono rappresentati Argentina, Brasile, Canada, Cina, Ecuador, Filippine, Francia, Ghana, India, Italia, Kuwait, Marocco, Messico, Portogallo, Senegal, Sud Africa, Spagna, Svezia e Svizzera. L’obiettivo principale del workshop è quello di facilitare la condivisione delle esperienze di importanti attori nel campo della migrazione internazionale e mettere in evidenza le buone pratiche nei Paesi di origine e di destinazione dei migranti. Le conclusioni del workshop saranno presentate al Forum globale su migrazione e sviluppo che si terrà in Messico, a Puerto Vallarta, a fine 2010.



l'intervista
Mahony: con la crisi si cerca nello straniero il capro espiatorio

Avvenire, 01-06-2010
Loretta Bricchi Lee
DA NEW YORK- Il cardinale Roger Mahony difende i diritti di chi, pur in macanza di permesso di soggiorno, fa parte del grande "melting pot" americano. Solo poche settimane fa, l'arcivescovo di Los Angeles - la diocesi più ampia e "ispanica" del Paese -ha lanciato un nuovo sito (www.facesofimmigrants.org) dove attraverso interviste a immigrati illegali o membri di famiglie "miste" si cerca di tracciare un ritratto realistico e simpatetico di chi viene spesso stigmatizzato e dipinto come una minaccia.
In un suo recente intervento sul "blog", Lei ha scritto: «Gli americani sono rispettosi e imparziali. Non riesco ad immaginare i cittadini dell'Arizona comportarsi come si faceva nei Paesi nazisti o comunisti, dove la gente doveva consegnare il proprio vicino alla polizia solo in base ai sospetti». Eppure, i recenti sondaggi mostrano che la maggioranza degli americani è d'accordo con i controlli imposti dalla nuova norma. Il fatto è che la questione dell'immigrazione torna alla ribalta in periodi di difficoltà economica. Quando le cose vanno male, si cerca un capro espiatorio, e lo si trova negli immigrati, in chi ha meno possibilità di difendersi. Ciò si è verificato più volte nella storia, soprattutto in California, dove abbiamo avuto leggi ignobili contro i cinesi, i giapponesi, i filippini...  Ma il carattere americano rimane vivo; un recente sondaggio New York Times/Cbs mostra  infatti che il 64% degli intervistati non è d'accordo nel far rimpatriare gli illegali e, secondo un'altra indagine di Usa Today, il 67% degli americani ritiene estremamente importante varare un piano per i 12 milioni di "irregolari" nel Paese. Il sentimento antiimmigrati è suscitato anche dalla paura del terrorismo?
In un certo senso sì, ma certamente perché sono in molti a giocare con tali paure. Il terrorismo è un pretesto, così come il traffico di persone e quello di stupefacenti. Devono  essere sbaragliati,  ma non hanno nulla a che fare con la legge dell'Arizona. Non è così che si risolvono tali problemi. Perché quindi è passata quella norma?
Perché si è creato un "vuoto" a livello federale. Il Congresso non se ne è occupato e le amministrazioni locali sono intervenute. Quella dell'Arizona è però la legge più inutile e regressiva del Paese. Vorrei chiedere al governatore Jan Brewer di spiegare il concetto di «ragionevole sospetto» che dovrebbe portare le forze dell'ordine a cercare di identificare un immigrato illegale. Il capo della polizia a Los Angeles mi ha detto che non fermerebbe mai qualcuno su tale base, perché sarebbe deleterio per il rapporto tra autorità e comunità.
Secondo il presidente Obama, è il risultato della frustrazione degli americani. E d'accordo? Certo. E la frustrazione risale al 1986, quando fu approvata la legge di riforma e di controllo dell'immigrazione. Allora, noi cattolici sottolineammo al Congresso l'incompletezza del provvedimento: ci venne detto che le lacune sarebbero state colmate presto. Sono passati 24 anni e ci troviamo ora in questo pantano...
Che cosa si può fare adesso? La soluzione è una riforma complessiva del tema dell'immigrazione. Purtroppo, come ha detto chiaramente il presidente, non ci sono abbastanza voti a favore. E così altre amministrazioni approveranno misure temporanee, con il conseguente risultato di azioni legali nei loro confronti. Che cosa pensa del boicottaggio in atto verso l'Arizona? Non sono mai stato per il boicottaggio; si rischiano "danni collaterali". Ad esempio, chi lavora nel campo del turismo potrebbe trovarsi disoccupato.



lmmigrazione, il «caso Arizona»

Avvenire, 01-06-2010
Loretta Bricchi Lee
NEW YORK -La lotta del senatore repubblicano dell'Arizona Russell Pearce contro gli immigrati illegali ha assunto una motivazione personale da quando quelli che definisce «invasori» hanno sparato al figlio Sean, vice sceriffo della contea di Maricopa. Ora la proposta di legge da lui presentata - approvata il 19 aprile scorso -, che rende «un crimine statale per un immigrato illegale non essere in possesso di un documento» che comprovi il suo diritto di soggiorno, sta spaccando il Paese, con una serie di azioni legali e un boicottaggio economico contro la nuova normativa.
Secondo i sondaggi, il 60% degli americani appoggia la legge SB1070, ma il fronte che si oppone è molto largo e risoluto. Oltre all'influente denuncia della conferenza episcopale americana, che ha fatto appello al Congresso affinché accantoni i giochi politici e metta a punto una riforma integrale del capitolo immigrazione, decine di città americane - da Los Angeles a Seattle, da Columbus a Boston - hanno optato per le maniere forti, approvando embarghi economici contro l'Arizona (e le aziende che vi hanno sede) e proibendo ai propri dipendenti viaggi di lavoro nello Stato. Si arrivati anche a prendere in considerazione la cancellazione di contratti già in essere.
Le risposte di chi sostiene le regole più restrittive non si sono fatte attendere. Il Partito repubblicano nell'area di Dallas, in Texas, ha annunciato l'intenzione di interrompere gli affari con la città di Austin quale rappresaglia per il suo boicottaggio nei confronti dell'Arizona. La situazione ha raggiunto il livello di guardia quando, alcuni giorni fa, il responsabile statale dell'energia Gary Pierce ha inviato una lettera al sindaco di Los Angeles minacciando di «spegnere le luci» della metropoli californiana (che per il 25% della sua elettricità dipende proprio dall'Arizona) se l'embargo non verrà riconsiderato. I toni sono stati poi smorzati, ma la tensione resta alta.
Alla sua entrata in vigore a fine luglio la legge imporrà alla polizia di «verificare lo stato di migrante di un individuo, se c'è ragione di sospettare che sia in condizione di illegalità». Sebbene sia stata inserita - con una misura suppletiva - la clausola che vieta la discriminazione razziale, secondo i critici i rischi sono evidenti. L'Arizona è a predominanza bianca e, poiché lo Stato è diventato il maggior punto di attraversamento dalla frontiera messicana, pressoché tutti i clandestini - stimati in circa mezzo milione di individui - sono ispanici. Non è difficile quindi immaginare chi verrà fermato anche per una minima infrazione stradale e " deportato " per avere infranto le norme sull'immigrazione. Facile identificare la ragione per un approccio così duro a un problema endemico. È anno di elezioni di Midterm e il prossimo novembre, oltre al rinnovo di tutta la Camera, si voterà per un terzo dei seggi del Senato - tra cui quello del repubblicano dell'Arizona John McCain- e per 37 dei 50 governatori Usa, compresa Jan Brewer che ha ratificato la legge. La posta quindi è alta e - in mancanza di una legge federale - i conservatori cercano di sfruttare a loro favore problemi oggettivi e paure immotivate. Una strategia che sembra funzionare: i sondaggi vedono il senatore McCain in testa nelle primarie repubblicane e la popolarità del governatore è salita all'85% tra i membri del suo partito e al 64% in Arizona. Una questione di grande imbarazzo per l'Amministrazione di Washington, tacciata di non aver tenuto fede alla promessa fatta durante la campagna elettorale di varare una riforma organica sull'immigrazione (in questi giorni Obama ha peraltro annunciato l'invio di 1.200 soldati della Guardia nazionale a pattugliare il confine con il Messico, per fermare i traffici di uomini e di droga). D'altra parte, dopo il braccio di ferro per la revisione del sistema sanitario, i repubblicani non intendono concedere nulla alla Casa Bianca. Sebbene il presidente - durante il recente incontro con il leader messicano Calderon - abbia fatto appello all'opposizione, ha dovuto anche ammettere che la legge controversa è il risultato della "frustrazione" degli americani per la mancanza di una normativa federale e che al Congresso non c'è la maggioranza per l'approvazione di una riforma di ampio respiro. L'amministrazione è stata chiara nella sua condanna, anche se potrebbe avere poche armi a disposizione. John Morton, vicesegretario dell'Homeland Security per l'immigrazione, ha prospettato l'ipotesi che le autorità federali rifiutino gli immigrati consegnati dall'Arizona. E mercoledì scorso il ministro della Giustizia Holder ha incontrato i capi della polizia di alcune grandi città che si oppongono alla legge: sembra sempre più probabile che il Dipartimento porterà il caso in tribunale.



Il profugo dell'Est simbolo del Paese
Kohler incarna la generazione della doppia guerra

La Stampa, 01-06-2010
Horst chi?», ironizzava la Bild Zeitung il giorno dopo l'elezione a presidente della Repubblica federale tedesca dell'ex direttore del Fondo monetario internazionale. Il suo nome nulla diceva al grande pubblico, ma il personaggio era ben noto nelle stanze del potere, tedesco e internazionale: stretto collaboratore del cancelliere Kohl e del suo ministro delle Finanze negli Anni 90, poi presidente della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers), infine direttore del Fmi. Pur chiaramente etichettato come «uomo dei cristiano-democratici», è sempre stato molto stimato anche a sinistra. L'ex cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt diceva di lui: «Ha più cervello economico Kohler di tutta la classe politica tedesca». E a mandarlo al Fmi fu il cancelliere Schroeder.
La sua candidatura a presidente federale, nel maggio 2004, fu un colpo a sorpresa del duo Merkel-Westerwelle, allora all'opposizione, per sfidare il cancelliere e far bocciare dalla larga maggioranza delle Camere riunite la sua candidata, G e s i n e Schwan, accademica dell'Est. Kohler passò al primo turno  con un solo voto di vantaggio e disse le solite parole di circostanza: «Sarò il presidente di tutti i tedeschi». Poi però ne aggiunse altre quattro che raramente si sono sentite sulla bocca di un politico tedesco: «Io amo la Germania».
Nel giro di pochi mesi, Io sconosciuto un po' naif, ma certamente autentico, curioso e contento di ogni esperienza come un bambino, diventa la personalità pubblica più amata della Germania: il 70 per cento dei tedeschi è con lui. Certo, è totalmente impreparato al ruolo, ma è molto simpatico, ha uno stile fresco, sa risolvere con eleganza e intelligenza situazioni protocollari impreviste o bagni di folla. E la sua storia personale, comune a tanti altri tedeschi  della sua generazione, diventa un atout.
E' nato in un villaggio polacco allora occupato dalle truppe tedesche, settimo degli otto figli di una coppia di contadini tedeschi originari della Bessarabia, poi fuggiti davanti all'Armata Rossa, approdati nella Germania dell'Est, e di lì di nuovo in fuga: questa volta in direzione di Berlino Ovest. Trascorre la sua giovinezza in un  campo  profughi  e   solo quando ha 14 anni la famiglia trova finalmente la sua casa definitiva, a Ludwigsburg. Horst ha l'opportunità di studiare: maturità, laurea in economia e scienze politiche a Tubinga, dottorato. E' molto brillanete e trova subito lavoro al Ministero federale per l'Economia a Bonn.
La durezza della sua infanzia, la forza di volontà nell'affrancarsi da un destino che sembrava segnato, la modestia con cui ha vissuto tutti i successi, la forte impronta evangelica, ne hanno fatto un uomo positivo, ottimista, equilibrato. Al fianco di una donna speciale come lui, Eva, conosciuta negli anni di Ludwigsburg, laureata in storia, e socialdemocratica. Hanno due figli, di cui non si sa praticamente nulla, e insieme hanno rappresentato magnificamente la Germania in decine di visite di Stato e ricevimenti. Kohler desiderava un secondo mandato, e un anno fa l'avevano ottenuto. Ma già ne parlavano come di «accurata routine». Troppo veleno, per un uomo non mitridatizzato.



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