Morire nel Mediterraneo

 

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"Ogni faccia è un miracolo. E' unica. Non potrai mai trovare due facce assolutamente identiche. Non hanno importanza bellezza o bruttezza: sono cose relative. Ogni faccia è simbolo della vita, e ogni vita merita rispetto. Nessuno ha diritto di umiliare un'altra persona. Ciascuno ha diritto alla sua dignità. Con il rispetto di ciascuno si rende omaggio alla vita in tutto ciò che ha di bello, di meraviglioso, di diverso e di inatteso. Si dà testimonianza del rispetto per se stessi trattando gli altri con dignità. "

Tahar BenJelloun, 1998



Relizzazione tecnica Emiliano Nieri

Quelle giuste parole da usare per non banalizzare le gabbie di Lampedusa

Luigi Manconi
Tre rappresentanti della Lega delle Cooperative Sociali della Sicilia, dopo aver svolto un'indagine sulle condizioni del Centro di accoglienza di Lampedusa, hanno affermato: “Un centro da chiudere. Un centro che sembra un lager.” E hanno denunciato “lo sconcio di materassi sfatti e servizi peggio di un lager”. Posso dire di conoscere abbastanza bene i Centri di accoglienza e ancora più quella loro versione tetra e reclusoria e claustrofobica che sono i Centri di identificazione e di espulsione (Cie).

Negli ultimi quindici anni ne ho visitati una ventina e, per quanto riguarda i Cie, ritengo debbano essere né più né meno che aboliti. E tuttavia mai li ho definiti “lager” e penso che quella estremizzazione così emotivamente violenta del giudizio riveli una sorta di inconfessato senso di colpa. Quanto più quest'ultimo è forte tanto più si tenta di liberarsene proiettando l'oggetto di quel giudizio in una sorta di dimensione metastorica. Quasi che le colpe di quell'obbrobrio prescindessero dalla concreta situazione attuale, normativamente e geograficamente e storicamente definita, e dalle personali responsabilità, comprese quelle di mancata vigilanza e di omesso controllo. Ma, al di là di una introspezione psicologica per la quale non ho né ruolo né competenza, qui interessa altro. L'evocazione del lager come paradigma del Male Supremo è ricorrente (lo si sente usare persino per descrivere le crudeli condizioni di certi canili illegali) e doppiamente impropria. Per un verso, perché rischia di banalizzare quello che è stato davvero l'Orrore Assoluto, ossia la Shoah, riducendolo a un'etichetta buona per troppi usi e immiserendone l'eccezionalità e, dunque, l'intollerabilità etica. Per altro verso il ricorso a quel termine estremo (e non solo a quel termine, ovviamente) rivela il rischio di una qualche latente forma di indifferentismo: quasi che tutto ciò che si colloca – oggettivamente per così dire – al di sotto della misura del lager sia, per ciò stesso, sopportabile o comunque, alla resa dei conti, accettabile. Dunque, le “parole forti” costituirebbero un surrogato della critica radicale e una scorciatoia della contestazione intransigente dell'ingiustizia: e di tutte le ingiustizie, anche quando  non si presentano nella loro manifestazione estrema. Infine, ed è conseguenza anch'essa assai perniciosa, accorpare tutte le forme di privazione della libertà a quel luogo demoniaco che è il lager e assimilare tutte le forme di maltrattamento all'unica categoria di tortura ha l'effetto di oscurare il nostro sguardo, impedendoci di cogliere le differenze di condizioni e dunque le diverse strategie per criticarle e, se possibile, superarle. Tutto ciò partendo dalla ferma consapevolezza che i Cie sono orribili e non riformabili e che gli attuali centri d'accoglienza vanno radicalmente trasformati. Anche per una ragione che gli stessi responsabili della Lega delle Cooperative Sociali della Sicilia hanno evidenziato, affermando che il Centro di Lampedusa è privo dei “requisiti minimi richiesti in un carcere”. Emerge così un nodo cruciale, sottolineato da tutti quei trattenuti nei Cie che ripetono ai loto interlocutori: “Qui è peggio che in carcere”. È proprio così. E non perché le condizioni di vita all'interno dei Cie o di un Centro di assistenza siano oggettivamente più degradate di quelle di un medio istituto penitenziario italiano e siano tendenzialmente simili a quelle “di un lager”. No. La miseria delle condizioni materiali di esistenza in un Cie è in linea con gli standard, appunto miserabili, di gran parte dei luoghi destinati alla privazione della libertà nel nostro Paese. Ma qui effettivamente c'è qualcosa di peggio. Intanto la struttura, per così dire, architettonica: gabbie all'interno di gabbie, chiuse a loro volta da altre gabbie, come in un vertiginoso e ossessivo labirinto. Gabbie esattamente nella progettazione e nella realizzazione e nella logica di una recinzione finalizzata alla riduzione in cattività. E sbarre proiettate verso l'alto a scongiurare – immagino – impossibili evasioni verso il cielo o dal cielo;  sbarre (questo vuole la leggenda nera qui prevalente) che sono state allungate al ritmo dei successivi provvedimenti che hanno protratto il tempo di permanenza previsto dalla norma: da un mese a due a sei agli attuali diciotto. In questi spazi ristretti e coatti non si fa assolutamente niente. Le uniche attività previste sono quelle primarie delle funzioni fisiologiche: dormire, mangiare, orinare, defecare. Per un paio di decenni abbiamo discusso intorno al concetto di “non luogo” elaborato da Marc Augè ma oggi credo di poter dire che il non luogo per eccellenza, nel continente europeo è appunto il Cie. Qui la categoria di smarrimento, variamente definita da Augè trova una sua radice nella marxiana alienazione, da intendersi in particolare come condizione di estraneazione e spossessamento. Nella gabbia e nel campo quella condizione si palesa come scissione, spesso in senso strettamente psichico. Estraneazione spossessamento scissione come altrettante espressioni di un processo di separazione tra il corpo fisico e l'identità soggettiva. E' l'effetto di una situazione dove il non luogo galleggia in una dimensione di non tempo, come negazione brutale - mi suggerisce Vittorio Dini - di quelle qualità kantiane (luogo e tempo, appunto) che costituiscono il fondamento stesso della persona umana.  Tutto ciò può collegarsi a quanto scrive Hannah Arendt  in un brano del capitolo XI de L’origine del totalitarismo, citato da Valeria Verdolini in un bell'articolo in doppiozero.com (richiamato dall'indispensabilissima rassegna radiofonica "Pagina 3"). Così la  Arendt: "La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana”. Ecco, nei Cie, gli individui trattenuti hanno perduto "tutte le altre qualità e relazioni specifiche" e qualunque rapporto reale con la dimensione del luogo e del tempo. Ed è questo a rendere così imprescindibile e urgente, ma, allo stesso tempo, così labile e inafferrabile il discorso sui diritti umani. Un discorso che rischia costantemente di "naufragare", quasi che la "semplice" qualità umana non offrisse alcun appiglio tangibile per svilupparsi adeguatamente (ed è forse un segno del destino che quel "naufragare" dei diritti umani incroci la sorte di chi spesso dal mare proviene e spesso nel mare trova la morte).
Il Foglio, 08-01-2014

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